Tesina Lucrezio

March 27, 2018 | Author: Matteo Rossetti | Category: Textual Criticism, Philology, Lucretius, Pleasure, Science


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“C ARMINA SUBLIMIS TUNC SUNT PERITURA L UCRETII , EXITIO TERRAS CUM DABIT UNA DIES ”LA FORTUNA DI LUCREZIO M ATTEO R OSSETTI C LA SSE V A B S . L ICEO G INNASIO STATAL E “S T E F ANO MARIA LEGNANI” S A RONNO . A . S . 2008/09 Questo lavoro sulla fortuna di Lucrezio nasce da un lavoro di approfondimento dell’autore durato tutto l’anno e culminato nella partecipazione al Certamen Lucretianum di Pordenone. La ricerca si è sviluppata su diversi punti. Il primo punto preso in analisi è quello della storia del testo del De rerum natura, infatti è indispensabile osservare il modo in cui il poema è stato tramandato nei secoli per poter condurre una ricerca sulla fortuna dell’autore. In questa parte prettamente “filologica” si prenderà in analisi lo stemma codicum del poema e verrà posta particolare attenzione sul metodo di Lachmann che sta alla base della filologia moderna e fu utilizzato per la prima volta sul testo del De rerum natura. Seguirà, così, un’altra sezione “tematica” dove si rintracceranno dei temi comuni a Lucrezio ed ad altri autori, si darà maggior importanza ad autori come Leopardi o Schopenhauer che fanno parte del programma di questo ultimo anno di liceo. Nell’età moderna Lucrezio suscitò un particolare interesse sulla scienza naturale (cosmogonia, cosmologia, ecc.) venne considerato “Patrono” dei materialisti, “Patrono” degli atei o maestro di poesia didascalica. D’altro canto subì anche una potente confutazione da parte dei credenti, che lo considerarono un testo pericoloso che andava contro l’ortodossia cristiana. Lucrezio è un poeta aspro, solitario, come lo furono Nietzche e Leopardi ed ha un grande rapporto con l’antico, con autori come Senofane ed Epicuro. La sua opera è tutta pervasa dal buio, dallo sgomento e dal mistero. L’angoscia, la morte, l’amore e la malattia sono i quattro temi musicali e fondamentali della sua opera. In questa sede non ho la presunzione di esaurire gli argomenti che collegano un poeta come Lucrezio ad autori moderni, ma saranno presi in considerazione in modo esaustivo solo alcuni nuclei tematici particolarmente interessanti come quello del materialismo, del taedium vitae, della critica al finalismo antropocentrico, e il materialismo. Sarebbe alquanto inutile soffermarsi su attualizzazioni del testo lucreziano sostenere che i classici siano nostri contemporanei è un conforto idealistico e un’ipocrita menzogna. Questa, però, non è una conclusione semplicistica, noi non voglio smontare i classici e sostenere la loro natura obsoleta. Dimenticarli in nome del futuro sarebbe un fraintendimento più grande, poiché i classici sono la riserva del futuro. Siamo consapevoli, anche, che le risposte al senso della vita che hanno dato gli antichi sono uguali a quelle dei moderni, poiché l’uomo da sempre si pone delle domande sulla vita e sulla morte e su come esse possano avere senso. La cultura europea deve molto ai classici poiché sono stati la base della riflessione scientifico filosofica e poiché hanno fornito molti modelli alla letteratura e alle arti. La letteratura italiana non esisterebbe se non vi fossero stati gli scrittori latini e greci, ma tali fonti sono state riplasmate in una luce nuova. In questo senso la cultura volgare si trova in continuità con quella classica. Come sosteneva Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.”. Sarebbe affascinante discutere di temi scottanti partendo da qualche testo classico, lo si potrebbe fare, ma occorre sempre tener presente che si va incontro a un’inevitabile storpiatura del testo. Come invito alla lettura vorrei citare un passo dell’introduzione al De rerum natura di Adelmo Barigazzi: “ L’età contemporanea ha confermato le valide intuizioni dell’atomismo antico ed è giunta oltre le partes minimae, a disgregare l’atomo. Su quella via essa ha progredito immensamente; ma l’individuo ha camminato altrettanto verso la felicita? Pare, al contrario, che quanto più mezzi la scienza ha messo a disposizione per alleviare le fatiche umane, tanto più difficile sia diventato il problema della felicità. Siamo spettatori di certe follie collettive ed individuali che farebbero sorridere o fremere di sdegno Lucrezio, il quale, seguendo, fedelmente, il suo maestro, ne darebbe subito una spiegazione: non è l’abbondanza delle cose materiali che produce la felicità, ma è il buon uso di esse, anzi il sapersi accontentare di poco, del necessario; la pace dello spirito sta nel piacere che sa rinunziare. […] Oggi nell’epoca del consumismo si eccitano volutamente i desideri di ogni genere con una propaganda massiccia ed insistente. […] le grandi industrie hanno creato degli agglomerati urbani in cui la vita, lontana dalla tenuità della natura si è fatta sempre più artificiale e falsa. Naturalmente la natura avrà il sopravvento perché naturam expelles furca, tamen usque recurret (Orazio Epistola I 10 v. 24).”. 1 1 dove non indicato le traduzioni sono mie. I La s toria del tes to del De rerum natura Lo stemma codicum è “l’albero genealogico” della tradizione manoscritta in cui si individuano: un archetipo, cioè il capostipite dell'intera tradizione posseduta, solitamente indicato con la lettera Ω, la cui esistenza è dimostrata dalla presenza di almeno un errore congiuntivo comune a tutta la tradizione. Uno o più codices interpositi, cioè testimoni interposti tra l'archetipo e i manoscritti posseduti, solitamente indicati con lettere dell'alfabeto greco. Uno o più codici posseduti, solitamente indicati con lettere dell'alfabeto latino. Si giunge così alla individuazione di più classi (o famiglie o rami) della tradizione: laddove una lezione sarà attestata nella maggioranza delle classi (e non nella maggioranza dei codici posseduti), questa, secondo il metodo meccanico lachmanniano, sarà verosimilmente la lezione corretta. Originale di Lucrezio e copie immediate Ω Archetipo in capitale IV-V sec. (Probo) Ω Archetipo in minuscola VII sec. (Archetipus insularis Irlanda) O (Oblungus) Codex Murbacensis (Murbach) Q V+U Apografo di Poggio F H L U1 V1 Archetipo di U1 e V1 Archetipo diQ G ABCDEGMP 1-2 La storia degli antichi manoscritti La prima edizione del De rerum natura, secondo quanto riferisce san Girolamo, fu approntata da Cicerone: con tutta probabilità da identificare con il più famoso Marco Tullio e non col fratello Quinto come lo stesso Lachmann si ostinava a credere. Una seconda sarebbe stata curata dal grammatico Valerio Probo, stando alla notizia dell’ Anecdoton Parisinum nel quale si individua un frammento del perduto De notis scripturarum di Svetonio: “ Probo appose quei segni diacritici alla edizioni di Virgilio, Orazio, Lucrezio, come Aristarco fece con Omero”. Non si ha nessun’altra notizia sulla trasmissione del testo lucreziano prima dei due manoscritti più antichi ed autorevoli entrambi risalenti al IX secolo d.C.: l’Oblongus (O) e il Quadratus (Q), così denominati dalla forma dei fogli che li compongono e chiamati anche Vossiani dal nome del possessore Isaac Voss, che li donò alla biblioteca universitaria di Leida ( donde anche Leidenses rispettivamente 30 e 94), dove sono tuttora conservati. Il manoscritto O (Codex Membranaceus Leidensis Vossinum Fd. 30) è scritto in minuscola Carolina. Prima di essere acquistato da I. Voss fu custodito presso la cattedrale di Mainz ove arrivò nel 1479. Nei secoli precedenti il codice O fece parte della biblioteca del monastero di Fulda. I paleografi analizzando le caratteristiche della scrittura del codice hanno ipotizzato che O fu scritto nel IX secolo a Tour o da degli scribi provenienti da quella città. Il manoscritto membranaceo contiene cento novantadue fogli di pergamena e così trecento ottantaquattro pagine, ognuna delle quali misura approssimativamente 31,4 cm x 20,4 cm. Ogni pagina riporta circa venti versi. Il testo venne revisionato da due correttori. Il più antico fu probabilmente un contemporaneo (corrector Saxonicus identificato da B. Bischoff in Dungal, monaco irlandese appartenente alla Schola Palatina ) e poi da un copista dell’XI secolo (Otolh 1010-1072) che vi appose delle note. Q (Codex Membranaceus Leidensis Vossinum Fd. 94), scritto su due colonne in ogni pagina rispetto ad O si presenta più guasto e più trascurato ( omissioni, ripetizioni, trasposizioni). Ma la differenza più evidente tra i due codici è data dall’omissione in Q di quattro sezioni comprendenti ciascuna 52 versi e puntualmente riportate alla fine del libro quarto nel seguente ordine: II 757-806; V 928-979; I 734-758; II 253-304. Q proviene dal monastero di St. Bertin omette negli incipit e negli explicit nome e titolo opera2 ed è scritto in minuscola Carolina. Sempre al IX secolo risalgono altri due codici lucreziani decisamente frammentari, anch’essi come Q , scritti su due colonne per pagina e caratterizzati dalle quattro grandi lacune. Le Schedae Haunienses (Biblioteca reale di Copenaghen) contengono in otto fogli tutto il libro I e non integralmente il libro II ( fino al v. 456) queste schede siglate con G, sono dette anche Gottorpienses, perché precedentemente conservate a Gottorp. Come O e Q queste schede sono state scritte in minuscola Carolina. Questo manoscritto ha avuto meno importanza rispetto ai due precedenti. Sia il Lachmann, sia il Munro non lo utilizzarono per le loro edizioni critiche, il primo che gli diede importanza fu Diels nella sua edizione del 1923. Le riserve del Lachmann e del Munro sono parzialmente giustificate dal fatto che il manoscritto presenta numerosi errori e corruttele e riproduce il testo contenuto in Q. Rare volte le Schede Haunienses sono utilizzate per supplire delle parti mancanti a Q e per correggerne alcuni errori. Appartenenti a questo gruppo di codici vi sono le schede Vindobonenses (Biblioteca nazionale di Vienna). Nel piccolo volume di trenta due pagine, che contiene anche frammenti di altri autori latini3, sono presenti dieci fogli con il testo del De rerum natura. I primi sei fogli sono siglati con V e comprendono il testo da II 642 a III 621 ( con l’omissione di II 757-806) e i rimanenti quattro, siglati con U, originariamente appartenevano ad un altro manoscritto,che si suppone provengano dalla biblioteca del monastero di Bobbio, recano la seconda parte del libro VI ( vv.743-1286) alla quale seguono in appendice, come Q, i quattro gruppi di 52 versi ciascuno. Non si conosce con certezza la storia di queste schede, ma prendendo in considerazione lo stile della scrittura Emile Chatelain ipotizzò che tale codice fu scritto nel nono secolo. Come gli altri codici presenta delle correzioni fatte da dei contemporanei al copista. Come le schede Haunienses questo codice presenta numerose corruttele e venne scarsamente considerato dal Lachmann e dal Munro. Solo nel ‘900 alcuni filologi lo utilizzarono per compendiare Q e O. G, U e V provengono da uno stesso codice archetipo in minuscola (l’Archetipus insularis). Da questa analisi si deduce che il testo di Lucrezio, nel medioevo, era conosciuto copiato e studiato nei principali centri culturali dell’epoca: York, Tours, Fulda, Bobbio. Tuttavia la conoscenza di Lucrezio non era estesa al di là di tali luoghi dove èlite clandestina di monaci permise la sopravvivenza del testo. Negli altri monasteri i codici del De rerum natura addirittura non venivano catalogati proprio per motivi ideologici. Dall’epoca della rinascita carolingia all’umanesimo il De rerum natura rimase pressoché sconosciuto, sono pochissimi i cenni fatti dagli autori medioevali, infatti il pensiero lucreziano era molto lontano dall’ortodossia della chiesa. E’ impensabile che un autore che sostiene la mortalità dell’anima goda di successo in un’epoca di grande fervore religioso. Il fiorire degli studi filologici e umanisti, nel 1400, favorì la riscoperta del poema latino. Il teatro di tale interessante riscoperta fu l’Italia. Attore di tutto ciò fu l’umanista Poggio Bracciolini che nel 1418 scoprì un codice contenente il testo del De rerum natura che è andato perduto. Da tale codice furono ricavati i sette codici Itali, che sono stati fino all’ottocento alla base di tutte le principali edizioni lucreziane. Ora ripercorriamo la scoperta fatta da Poggio Bracciolini. Il Bracciolini nel 1418 fu segretario papale presso il Concilio di Costanza. Al seguito della corte Papale da Costanza scrisse una lettera al sua amico veneziano Francesco Barbaro: “ Lucretius mihi nondum redditus est, cum sit scriptus. locus est satis longiquus, neque unde aliqui veniant. Itaque expectabo quoad aliqui accedant qui illum deferant: sin autem nulli venient, non praeponam publica privatis…”. A Poggio il testo lucreziano è noto solo per tradizione indiretta. Non sappiamo con certezza il luogo ove Poggio riscoprì il codice: Hermann Bloch sostiene che tale 2 3 In realtà viene riportato un titolo mutato: “De phisica rerum origine vel effectu”. Phaenomena e Prognostica di Avieno e alcuni versi delle Satire di Giovenale. luogo sia Murbach ( vi ravvisò un catalogo del IX secolo dove è attestata la presenza di un codice lucreziano), altri, invece, affermano che il luogo sia il monastero di Fulda. Il codice scoperto oltre al De rerum natura conteneva anche il testo del poema di Manilio Poggio nel 1418 ricevette l’apografo del codice presente in quella biblioteca (entrambi perduti) e lo spedì al suo amico fiorentino Niccolò de Nicoli4 per essere trascritto e copiato. Poggio non vide la sua copia fino al 1434 quando fece visita alla città di Firenze con Papa Eugenio IV. Da questo codice discendono tutti quelli vergati durante il quattrocento e furono, come dissi, la base per le edizione a stampa del De rerum natura. Dalla copia del Niccolini, ora conservata alla biblioteca Laurenziana di Firenze ( Codex Laurentianus Pluteus 35.30 L) vennero copiati i sette manoscritti Itali. L è un manoscritto cartaceo di piccole dimensioni (14,4 cm. X21,4 cm.) e contiene circa trenta tre versi per ogni pagina. Merita particolare attenzione il gruppo dei manoscritti vaticani, tra questi il Codex vaticanus latinus 3276 (V 1) che contiene le note di Giovanni Aurispa e il Codex Barberinus latinus 154 (U1) che è un bel codice ben copiato con delle eleganti miniature. Menzioniamo il Codex Laurentinus pluteus 35.31 (F), il Codex Cantabrigensis II. 40 (H) e il Codex Monacensis (Mon). L’apografo di Poggio discende da un sub archetipo che venne distrutto nel 1700 a causa di un incendio presso il monastero di Murbach. Non si sa con certezza da dove siano discesi V1 e U1 , essi presentano degli errori similari a L e ciò potrebbe far pensare che siano discesi da quel codice, tuttavia tale spiegazione appare assai semplicistica. Hosius ha dato una spiegazione ( che abbiamo adottato nello stemma codicum sopra riportato) per cui i due codici deriverebbero da un sub archetipo che sarebbe stato copiato dall’apografo di Poggio e corretto seguendo la lezione di F o L5. 1-3 Le edizioni a stampa L’editio princeps del De rerum natura è data 1473 ed è stata eseguita da Ferraro da Brescia (Brixiensis), come questa, ispirate ai codici itali ci furono la Veronensis (1486), la Veneta (1495), le Aldinae (1500 e 1515), la Bononiensis (1511), la Iuntina (1512). Ancora più interessante è l’ edizione del Lambino6 (Parigi 1563-64). Egli utilizza come base i codici itali, ma si serve delle lezioni di Q e di O. Egli dice: Hunc igitur poetam, lector humanissime, liquido tibi confirmare vereque apud te gloriari possum, mea opera plane alium ab eo quis abs te antea visus sit, in mano tua pervenire. Octigentis enim locis (neque hoc ὑπερβολικῶς sed latino more dico) restituum esse, tibi legendo cognoscere atque experiri licebit.7 La grande conoscenza della lingua latina, 4 “…tenuisti iam Lucretium duodecim annos…cura ut habeam Lucretium, si fieri potest; non enim adhuc potui universum librum legere, cum semper fuerit peregrinus: vellem ut iam civis efficeretur…” Dalla lettera di Niccoli del 13 dicembre 1429. 5 Carl Hosius Zur italienischen Uberheferung des Lucrez, Rheinisches Museum Bonn, 1914. pp.114-115. 6 Denis Lambin (Montreuil-sur-Mer, Piccardia, 1516 – Parigi, 1572) fu un filologo classico francese. Studiò dapprima nel collegio di Amiens, poi venne a Parigi dove studiò nel Collegio Jean Lemoine e poi nel Collegio Nicolas Coqueret, dove ebbe compagno di corsi Ronsard. Insegnò lettere nel collegio di Amiens che lo aveva visto studente ma, intorno al 1545 andò a studiare diritto a Tolosa finché, nel 1550, entrato al servizio del cardinale de Tournon, lo accompagnò in due lunghi viaggi in Italia, soggiornando a Roma, a Lucca e a Venezia, e conoscendo letterati come il cremonese Gabriele Faerno, Marc-Antoine Muret e Guglielmo Sirleto. Durante il soggiorno veneziano, nel 1558, tradusse dal greco in latino l'Etica Nicomachea di Aristotele.Nal 1559 ebbe una lunga polemica col Muret, che egli accusò di aver utilizzato nell'edizione delle Variarum lectionum libri octo pubblicate a Venezia, sue note e commenti delle opere di Orazio che egli stava preparando. Fu infatti dopo il ritorno in Francia nel 1561, che Lambin pubblicò a Lione la sua, per l'epoca fondamentale, edizione commentata delle satire e delle epistole di Orazio, che tre anni dopo fu pubblicata anche a Venezia. Su raccomandazione del de Tournon, Lambin fu nominato professore di eloquenza, ossia di lingua e letteratura latina, al Collegio reale e, l'anno seguente, nel 1562, ottenne la cattedra di lingua greca. Seguirono le pubblicazioni, nel 1564, del De rerum natura di Lucrezio: la pubblicazione, nel 1566, ad Anversa, dell'opera di Lucrezio commentata da Obert de Giffen che, pur plagiando gran parte delle note di Lambin, non esitò a criticare quanto degli altri suoi commenti non condivideva, provocò la sua violenta reazione. Nel 1566 pubblicò le Emendationes in Ciceronis Opera, nel 1567 la traduzione in latino della Politica di Aristotele, nel 1568 dell' Oratio de recta pronunciatione linguae grecae, nel 1569 dei Commentarii in Cornelium Nepotem, nei quali restituì a Cornelio Nepote le Vite degli uomini illustri fino ad allora attribuite a Probo e, nel 1570 – anno in cui fu nominato traduttore reale - i Discorsi di Demostene. Morì nel settembre del 1572, si dice in conseguenza dell'angoscia provocatagli dalle stragi della «Notte di San Bartolomeo», in cui rimase ucciso, tra i tanti, anche Pietro Ramo, da lui tanto ammirato. 7 Denys Lambin T. Lucretii Cari De rerum natura libri VI (1583), epistola ad lectorem. brevi discussioni critiche delle opinioni di altri commentatori. riunì i dialoghi platonici e fece la prima edizione delle poesie di Pindaro. In ambito romano ricordiamo: Lucio Elio Stilone Preconino. amico" e λόγος "parola. come fece il Leo. 3) l’esame di certe anomalie grafiche consente di concludere che l’archetipo era stato scritto in capitale tra il IV e il V secolo8. quando nell’archetipo si erano staccati dei fogli. nel 1850. poi inseriti alla fine del volume. commentò Anacreonte Archiloco Aristofane Erodoto Eschilo Ione e Pindaro e fu autore dei Συγγράµµατα. Lo studio dei testi con la finaltà di conservarli o ripristinarli nella forma più vicina possibile all’originale cominciò già in epoca antica e più precisamente nel III secolo a. questa ricostruzione così semplicistica e ottimistica ha dovuto fare i conti con i progressi della scienza filologica e paleografica. tra cui non è sempre facile stabilire quale sia la più attendibile. bibliotecario della biblioteca di Alessandria (257 a. con l’edizione probiana. per le nostre conoscenze di quello che essi scrissero dipendiamo da dei codici e da della edizioni a stampa. quindi.C. Qualunque tentativo di ristabilire la forma originale richiede l’impiego di un procedimento lungo e difficile che si divide in più fasi. in ambiente greco. quindi di poter ricavare una versione del testo più vicina a quella dell’autore è la filologia (dal greco φιλολογία. sarà utile.C. Egli ha fissato questi capisaldi metodologici: 1) la concordanza in errori. La scienza che permette di compiere un restauro del testo originale.) discepolo di Aristofane. che affrontò il 8 Di qui identificare l’archetipo in capitale. nonché adottò un sistema di simboli per indicare i versi spurii. fu uno tra i più grandi studiosi di Omero oltre ad Omero. Sempre tra i filologi alessandrini è degno di nota Aristarco di Samotracia (216 a. . Il primo grande filologo fu Aristofane da Bisanzio. che un numero ignoto di anelli separa dagli originali. 1-4 La critica del testo. discorso": "amore per lo studio delle parole"). prova che tutti i manoscritti itali derivano da uno stesso archetipo. per la possibilità degli errori degli amanuensi. tutte motivate nel ricco apparato critico.C. Tutti i testimoni hanno sofferto nei secoli per danni fisici. Per avere una vera edizione critica dobbiamo aspettare quella del Lachmann che ricostruì sistematicamente e criticamente la tradizione manoscritta mediante il confronto e la valutazione dei codici (recensio). per gli effetti di un’interpolazione deliberata. il passo era tanto breve quanto rischioso. 180 a. storia e metodo Nei paragrafi precedenti abbiamo utilizzato molti termini specifici della scienza filologica. Poiché non restano autografi di autori classici.C. corruttele e trasposizioni.C. 2) l’omissione in Q(G V U) dei quattro gruppi di 52 versi ciascuno si spiega supponendo che Q fu trascritto dopo O. Il metodo della filologia. Accade più volte che in molti punti del testo due o più codici diversi rechino delle differenti lezioni o varianti testuali. portò il Lambino a operare circa ottocento emendazioni al testo lu8creziano.soprbiblattutto dell’idioma ciceroniano. con degli studiosi attivi ad Alessandrai d’Egitto. prima della loro trascrizione. lacune.) fissò la fine dell'Odissea al libro XXIII. fondato dal Lachmann si avvale di due momenti principali: la recensio e l’emendatio. 144 a. composto da φίλος "amante. soffermarsi brevemente sulla storia della filologia e enunciare brevemente alcune caratteristiche metodologiche. 1952).C.r. misto di prosa e versi di vari metri. Andando avanti con gli anni incontriamo Elio Donato grandissimo grammatico commentatore di Terenzio e di Virgilio. confermò le deduzioni dei filologi settecenteschi per quanto riguarda l’archetipo. in questo caso si parla di interpolazione. disegnò il primo stemma codicum. con Lachmann ed altri filologi tedeschi la filologia elaborò il suo metodo e divenne una scienza. conobbe la sua fioritura durante l’umanesimo con Poliziano nel XV secolo. In realtà il metodo di Lachmann presentava numerosi limiti specie nel caso delle “tradizioni aperte” cioè di contaminazioni orizzontali del testo.f.un testo con una ricchissima tradizione manoscritta e numerosissime varianti. La genesi degli errori è molteplice: vi sono errori “psicologici” dovuti ad associazioni mentali . senza soffermarci su casi particolari. ossia mostrano che un manoscritto è indipendente da un altro perché il secondo contiene uno o più errori dai quali il primo è esente. I risultati del filologo sono poi presentati nell’edizione critica. che giunse a dedurre il concetto di archetipo studiando la tradizione del Nuovo Testamento. cioè mostrano che due manoscritti sono più connessi tra loro che con un terzo e in errori separativi. molto importanti per stabilire le relazioni tra i codici. Sebbene avesse di ciò un concetto più vago di quello che abbiamo noi riuscì a spiegare facilmente come si produca un errore comune a tutti i testimoni. con l’edizione del Nuovo Testamento. Il metodo di Lachmann fu per la prima volta messo a punto nell’edizione del 1850 del De rerum natura. Questo metodo permetteva di risalire all’archetipo attraverso criteri rigorosi e scientifici. Vediamo ora con maggior attenzione le fasi del metodo.comprendendo che era necessaria una rigorosa recensio.problema dell'attribuzione delle opere plautine fu maestro del filologo Varrone e di Cicerone. nel 1831 Carl Zumpt. con il continuo riferimento alle sue fonti.)c' è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio. La procedura seguita ancora oggi dallo studioso che intenda ricostruire la lezione originaria di un testo consta di due momenti essenziali: la recensio. a)La teoria sistematica di recensione. l’assimilazione frequente nelle desinenze (mutazione della parte finale di una parola sulla base della desinenza della parola vicina) e l’aplografia cioè lo scrivere una sillaba o un segmento di testo che compare due volte ( defendum per defendendum est). Lectio difficilior ). Gli errori. oppure posso essere una manomissione volontaria per motivi di censura. autonoma dai vincoli retorici connessi al platonismo ficiano e incentrata su una rigorosissima critica dei testi e sulla consapevolezza del valore storico della lingua. che solitamente è costituito dalla più valida edizione a stampa o dal manoscritto più valido. egli utilizzò un metodo filologico i cui cardini sono costituiti dalla completezza e dalla brevitas.1742) si dedicarono allo studio del Nuovo Testamento. Per passare in rassegna i diversi testimoni che ci sono stati tramandati si procede anzitutto alla collazione con un testo di riferimento. opera diffusissima durante il medioevo. ma fornendo piccoli e chiari esempi. De nuptiis Mercurii et Philologiae "Delle nozze di Mercurio con la Filologia". Poliziano fu quasi un precursore del criterio genealogico lachmanniano. finalizzata a stabilire le relazioni intercorrenti tra loro e l’emendatio ossia la correzione del testo qualora presenti una lezione corrotta rispetto all’originale. Altri fenomeni rilevanti èsono: la banalizzazione ossia la tendenza a semplificare ( c. Altri errori molto comuni sono gli errori di lettura come il salto dallo stesso allo stesso. Vengono registrate tutte le varianti testuali e vengono annotati a parte quelli che appaiono essere errori. però. Il secolo d’oro della filologia fu. La filologia. . tra cui spicca il nome di Richard Bentley (1662. Nel settecento si ha una svolta decisiva: dei filologi inglesi e olandesi. hanno una genesi diversa: possono essere frutto di una svista del copista. Infatti. Poi Marziano Capella (IV V d. Gli errori si possono dividere in coniunctivi. nell’edizione delle Verrinae. Si accostò ad Aristotele e alla sua "Poetica" maturando una nuova concezione della filologia umanistica. Il Lachmann nel 1830. l’ottocento in coincidenza col clima positivistico che dilagava in tutta Europa. Autore di importanti correzioni al metodo fu il filologo italiano Giorgio Pasquali (1885. infatti capì che i codici derivanti da un più antico esemplare sopravvivente non avevano valore ed applicò il principio dell’eliminatio ad alcune copie delle Epistole di Cicerone. però. ossia l’analisi rigorosa dei testimoni a disposizione. come il ricordo di una parola letta e trascritta precedentemente. Altra figura molto importante fu Erasmo da Rotterdam. senza escludere alcuni interventi personali. Y e Z . . tra due lezioni. 1.A questo proposito riportiamo per esemplificare uno schema rappresentate uno stemma codicum tratto da: D. 4. 2. Wilson. ω (E) Z β A B C γ D α X Y ω Rappresenta l’archetipo. Il testo β può essere ricavato dall’accordo di A.r. Una volta compilato lo stemma si può procedere alla ricostruzione del testo attraverso lo spoglio varianti. 2. differirà da A solo per essere più corrotto. Inoltre. Un testo. Se β ed α sono in accordo si potrà dire che essi diano il testo dell’archetipo. Il testo α si ricava dall’accordo di X. Dunque. sarà più attendibile la lezione più difficile. •Il criterio paleografico per cui di due lezioni sarà preferibile quella che può essersi corrotta nell’altra per motivi grafici. Dunque. Se B è derivato esclusivamente da A. Sulla base degli errori si stabilisce. che un codice contente tutti gli errori significativi presenti in un altro codice. qualora non lo siano possono essere validi entrambi: è compito dell’examinatio decidere quale delle due è autentica. spesso ci si trova di fronte a stemmi bipartiti ( come quello delle opere Plauto). poiché i copisti tendevano a semplificare il testo essendo la loro lingua diversa da quella dei classici. ma ipotizzati. 3. dall’archetipo. •Il criterio dell’usus scribendi. le lettere greche minuscole indicano i codici perduti. E’ invece appurato che i copisti avevano spesso a disposizione più codici e sceglievano confrontandoli tra loro il testo migliore. Il testo γ può essere dedotto dall’accordo di C e D. i codici rimasti sono otto. Egli si affiderà a dei criteri: •Il criterio della lectio difficilior.f. o di due di essi contro il terzo. ossia attraverso le congetture del filologo. Il primo passo sarà quello di eliminare B. Ora interpretiamo lo schema sopra ripotato. sarà preferibile la lezione che rispecchia lo stile compositivo dell’autore. c. come ha ben sottolineato Pasquali. la ricostruzione del testo avviene ope ingegni. in cui la lezione originaria non può essere dedotta meccanicamente. Copisti e Filologi.G. Ne deriva anche una contaminazione orizzontali.C e D. le quali avranno un peso diverso in base alla disposizione. Reynolds. bibliografia (p223). come quello ipotizzato in questo stemma è emendabile grazie a una recensione automatica e si dice cha ha una “tradizione chiusa” (Pasquali). entrambe corrette e valide. che determina una “ tradizione aperta”. In primo luogo gli stemmi tripartiti sono abbastanza pochi ( come quello di Lucrezio). riguardo a E si suppone che sia un frammento contenente solo una piccola parte di testo. ad esempio. più almeno un altro errore è derivato da quel codice e quindi non può essere preso in considerazione: eliminatio codicum descriptorum. Va tuttavia detto che la teoria stemmatica non è sempre applicabile rigorosamente.N. più o meno lontana. questa teoria presuppone che le lezioni e gli errori si trasmettano solo verticalmente. E così tutto il De rerum natura si configura come un protreptikòs lògos. La concezione della natura che traspare dal poema. bibliografia. addirittura anche l’anima umana è formata da questi atomi. nemmeno priva la sua poesia di abbellimenti retorici e stilistici. Tuttavia le istanze psicologiche e morali del poema lucreziano non cessano di essere attuali. bisogna certamente puntualizzare che Lucrezio non ha nutrito ambizioni di scienziato. insensibili alle minacce di pene eterne profferite dagli indovini smetterebbero di essere succubi della superstizione. natura) intermat res). Lucrezio non vuole essere oscuro nell’argomentare la sua tesi. il De rerum natura. B. Opera di grande valore dimostrativo e di forte levatura poetica il De rerum natura illustra i principi base della fisica e della cosmologia epicurea . Da questo punto di vista la fede della ragione. Ma tra il maestro e il lettore si instaura un particolarissimo rapporto che si può definire sublime. se diventassero. Essendo essi imperituri nulla nasce dal nulla e nulla ritorna al nulla (nullam rem e nilo gigni divinitus umquam […] neque ad nilum (sot. imperiture e indivisibili. devi divenire lo specchio di questa sublimità terribile e maestosa. timore della morte. Conte insegnamenti per un lettore sublime. Il destinatario benché fragile e umano. Il sublime coinvolgendo il lettore del testo e perciò spettatore della grande poesia lucreziana. turbando ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è nulla. è più aspra della fede religiosa: il credente laico è solo con se stesso e non c’è da stupirsi che Lucrezio. illusioni. Lotta delle superstizioni e dei vani timori significa opporsi giorno dopo giorno alle false paure.II I percorsi in tertest uali 2-1 Contestualizzazione dell’opera Lucrezio è l’autore di un poema didascalico ( in esametri) in sei libri. La vita la morte non sono che un’unirsi e un disunirsi di questi corpuscoli. che soprattutto in certe articolazioni del suo pensiero morale. dedicato all’esposizione della dottrina del filosofo greco Epicureo (341-271/270 a. è sicuramente superata. diversamente da Orazio mostra un’anima in preda allo sconcerto. gli suggerisce un bisogno morale. all’aggregazione e alla disgregazione della materia donano una serenità duratura. Ecco che il sublime diviene un invito all’azione.r. passioni e pregiudizi. benché tutt’altro che insensata. ma anche una forma di percezione delle cose. . egli esorta il lettore affinché segua con diligenza lo snodarsi dell’argomentazione. Lucrezio è maestro che non lascia da solo il proprio discepolo/lettore. Lucrezio è un animo gentile.C. promettendo un al di là che risarcisca i meriti e punisca le colpe. fatto responsabile agli insegnamenti diviene consapevole della propria grandezza intellettuale. Conscio della difficoltà della materia da lui trattata. particelle sottilissime. : timore degli dei. dei meccanismi connessi alla nascita e alla morta. foriera di libertà e serenità interiori. l’universo. Resta scoperto un 9 A tal proposito per qualsiasi approfondimento si veda G. sono un aggregato di atomi. senza il conforto di una fede religiosa che dia pace. c. agli inganni alle vuote credenze. arriva a concepire un vero e proprio messaggio di liberazione dell’umanità dalle tenebre dell’errore. Infatti. così. di qui la scelta del poema didascalico. tu stesso devi divenire un lettore sublime capace di emozionarsi dentro di sé9. deducendo una vasta rete di considerazioni morali con intento terapeutico nei confronti dei mali che affliggono gli animi degli uomini. Come la lotta alle superstizioni che opprimono gli animi degli uomini. mostrando la via per raggiungere l’equilibrio interiore.f.). invisibili all’occhio nudo. la conoscenza della natura (naturae species ratioque). come un insegnamento che contiene un drammatico consiglio: tu stesso. A questo proposito durante la serrata trattazione degli argomenti vengono utilizzate numerose immagini e un linguaggio analogico affinché aiutino il lettore a capire i fenomeni immensamente piccoli e immensamente grandi che sfuggono all’occhio umano. lettore. L’unico mezzo in possesso al saggio è proprio questa ragione che l’eguaglia agli dei e regala felicità. Per Lucrezio il mondo. battuta dal dubbio. Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia una forma di interpretazione del mondo. -Pr.C. 2W. che fu destinato a invecchiare in eterno. mentre l’anafora ha le funzioni di scandire le tappe essenziali dell’argomentazione. anche più agghiacciante della tetra morte. 2G. (Trad. la concezione della poetica è mutuata da Callimaco. La sua validità è attestata dal fatto che Ἠώς . Inoltre si possono ravvisare degli echi saffici (31 lobel-page). la chiarezza dei lucida carmina addolcita dal lepos avrebbe potuto afferrare anche persone lontane dall’epicureismo. perché Lucrezio avrebbe scelto la poesia e non la prosa? La poesia rendeva gradevole al pubblico romano. segue l’integrazione del Gesner con ὁ Ζεὺς da porsi nelle parentesi uncinate. e le descrizioni di quadretti ameni e paesaggistici sono riprese da Teocrito. La traduzione. Il più frequente e vistoso è l’allitterazione.-Pr. Egli sostiene che il significato della breve esistenza dell’uomo si schiuda nel periodo della giovinezza e niente valga la pena di essere vissuto dopo di essa. specialmente l’Odissea e dei tragici. riprende. della bellezza e delle emozioni la vita ci riserva un periodo di dolore. It Marina Cavalli). e le amare opere di povertà. Alla gioia si sostituisce il disgusto per la vita e ci si 10 E come subito l’ora abbia passato il suo discrimine. alle figure di pensiero. Altra peculiarità dello stile di Lucrezio è l’abbundantia di nessi argomentativi nelle parti più serrate del discorso (Quare. quo pacto. adde porro. non si risparmia la possibilità di fare uso di un patrimonio linguistico vario e composito.. / un altro non ha i figli e con questo rimpianto/ scende sotto la terra nell’Ade. L’impulso alla creazione poetica ha fatto sì che Lucrezio. probabilmente.)11 Uno dei primi autori che espresse nei suoi versi l’angoscia che opprime l’animo umano fu Mimnermo. 11-16)10 e Τιθωνῶι µὲν ἔδωκεν ἔχειν κακὸν ἅφθιτον < > γῆρας ὃ καὶ θανάτου ῥίγιον ἀργαλέου (Mimnermo fr. Così persino i lettori cristiani si interessarono al poema ammirandone il vigore poetico. Per quanto riguarda la descrizione della peste d’Atene nel libro VI Lucrezio utilizzò come fonte privilegiata Tucidide. dagli artifici fonico timbrici. (Mimnermo fr. la grazia sottile dello stile. 4G. Dal punto di vista lessicale Lucrezio. noia ed angoscia. facendo ricorso a numerosi espedienti retorici. che tuttavia rendono validamente il lessico filosofico epicureo. . al fine di conseguire il lepos.interrogativo. 2-2 l’angoscia della vita: il taedium vitae. / Molti dolori nascono nell’animo ora è la casa / in rovina. pur trattando di filosofia greca. certamente ignorante in filosofia. 4W. / essere morti è meglio che la vita. Anche la collocazione delle parole all’interno del verso è attentamente calibrata: sono presenti dei kola. l’Aurora ottenne da Zeus l’eterna giovinezza senza chiedere lo stesso dono al marito Titonio. Quindi trascorso il periodo dei piaceri intensi. Lucrezio oltre ad esseri ispirato a fonti prettamente epicuree come il Περί Φύσεως di Epicuro ( al quale si ricollega già nel titolo) e alle varie Epistole. Per quanto riguarda lo stile Lucrezio si adegua allo stile elevato dell’epica. vv. rinunciasse quasi del tutto all’introduzione di grecismi sostituendoli con formazioni originali. (Trad.) . tra i cui caratteri si rintraccia il gusto verso l’arcaismo che accompagna uno stile poetico costantemente alto. un poeta elegiaco greco del VII secolo a. denique. Dal punto di vista letterario il De rerum natura denota la conoscenza di Omero. 11 A Titono diede Zeus un male senza fine: / la vecchiaia. etiam atque etiam. αὐτὰρ ἐπὴν δὴ τοῦτο τέλος παραµείψεται ὥρης͵ αὐτίκα δὴ τεθνάναι βέλτιον ἢ βίοτος· πολλὰ γὰρ ἐν θυµῶι κακὰ γίνεται· ἄλλοτε οἶκος τρυχοῦται͵ πενίης δ΄ ἔργ΄ ὀδυνηρὰ πέλει· ἄλλος δ΄ αὖ παίδων ἐπιδεύεται͵ ὧν τε µάλιστα ἱµείρων κατὰ γῆς ἔρχεται εἰς Ἀΐδην· ἄλλος νοῦσον ἔχει θυµοφθόρον· οὐδέ τίς ἐστιν ἀνθρώπων ὧι Ζεὺς µὴ κακὰ πολλὰ διδοῖ. alle figure di parola. / un altro ancora la malattia l’opprime. per quanto riguarda l’impostazione didascalica il Περί Φύσεως di Empedocle. Non c’è uomo / a cui Zeus non dia molti mali. It Marina Cavalli). praeterea. spesso disposti a chiasmo. 1)). Questo motivo ha una ripetizione assidua nella cultura dei greci ( in ambito filosofico occorre ricordare Anassimandro (fr. per evitare il male connesso alla vecchiaia l’unico remedio sarebbe la morte non appena si sia varcato il limite oltre il quale si distende il panorama desolato di una triste esistenza. sottolinea quanto grande sia la pena di colui che è costretto a vivere in eterno invecchiando ogni giorno. drammatica sul destino dell’uomo : “non c’è uomo a cui Zeus non dia molti mali”. che consiste nella gioia e nella letizia. come una spada di Damocle sulla testa di tutti. che si poteva raggiungere solo attraverso la saggezza. anche se tale assunto è in contraddizione con la formula di Sileno. L’altro frammento citato. ogni bene sia finito e la vita non sia più degna di essere vissuta.è il viaggio del sole. estremamente romantiche ed impulsive. Basterà qui citare i versi 1225-26 dell’Edipo a Colono di Sofocle: “ non nascere è il mio pensiero più dolce. it. da un orizzonte all’altro sempre uguale ogni girno. Una volta giunti alla soglia della vecchiezza pare che ogni cosa. Per i filosofi del giardino. La formulazione più profonda del pessimismo greco la sia ha per la prima volta con un altro poeta elegiaco: Teognide. che consiste nella mancanza di dolore. di questa noia. meglio varcare in fretta le porte / di Ade e giacere sotto la terra profonda. ciò non toglie che la vita isa parimenti voluta. L’ombra del dolore per la morte non allenta l’amore per la vita. la vecchiaia incombe. in grado di indirizzare gli uomini verso la felicità. Questa carattere negativo del piacere impone la limitazione dei bisogni: Epicuro distingue tra i bisogni naturali e quelli vani. E’ la risposta che Sileno dà al re Mida sul senso della vita. l’ambito di maggior interesse era l’etica e tutte le altre branche del sapere erano in funzione di essa. Simbolo di quest’umana pesantezza. Letteralmente "assenza d'agitazione" e ἀπονία. La vecchiaia è l’esatto rovesciamento di tutti i valori. “ il piacere è il principio e il fine della vita beata” sostiene Epicuro ( Diogene Laerzio X 149). Il significato di questi due termini oscilla tra la temporanea liberazione dal dolore del bisogno e l’assoluta mancanza di dolore. / Ma una volta nati. ed è quindi definita ἀταραξία (atarassia da α + ταραξις). It Marina Cavalli). La filosofia così divenne una sorta di medicina per l’anima. nel non soffrire e nel non agitarsi. amata. Il fine massimo da raggiungere era. (Teognide vv. Ma vi sono due tipi di piaceri: il piacere stabile( catastematico). vecchio è colui che viene travolto dalle preoccupazioni. Questa visione del mondo è molto lontana da quella dell’epicureismo. ossia una parola di saggezza e serenità capace di indirizzare la vita quotidiana. altri no ( il maniare troppo): Solo i desideri naturali e necessari vanno appagati. sconsolata. gli altri vanno abbandonati e rimossi. da cui ha preso spunto la poesia lucreziana. e il piacere in movimento. . Il primo frammento che abbiamo riportato termina con una sentenza lapidaria. ‘Πάντων µὲν µὴ φῦναι ἐπιχθονίσινἄρστον’ µηδ’ ἐσιδεῖν αὐγὰς ὀξέος ἠελίου φύντα δ’ ὅπως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσαἰ καὶ κεῖσθαι πολλὴν γῆν ἐπαµησάµενον. nessuno è escluso. dunque. Nel clima di insicurezza di quell’epoca di sconvolgimenti politici e sociali alla filosofia si chiedono sostanzialmente due cose: una visione unitaria e complessiva del mondo e un “supplemento d’animo”. desiderata. Questo destino tocca tutti i viventi. Titone è così costretto a vivere un’eterna vita di noia compiendo ogni giorno le stesse cose senza la speranza di una morte risolutiva. poiché il loro desiderio procurrebbe nell’animo turbamento e dolore. / non vedere l’acuto raggio del sole. Alla saggezza è dovuto il calcolo dei 12 Non nascere è la cosa migliore. (Trad. Cetrangolo). Le affermazioni contenute nel primo frammento paiono. E. dalla malattia dalla perdita dei figli. invece. Il piacere è il criterio con il quale valutiamo ciò che è bene e ciò che è male. in un poeta classico. La felicità consiste soltanto nel piacere stabile o negativo. “mancanza di dolore nel corpo”. La via che propone l’epicureismo è totalmente terrena: la felicità consiste nel piacere. vedremo a questo proposito un passo di Lucrezio.425-428)12 Questo pendiero è assai frequente nella tradizione poetica greca. dei bisogni naturali alcuni sono necessari alla sopravvivenza ( ad esempio il mangiare).aspetta soltanto che ci venga strappata.in cui si identifica tutta la vita . come per tutte le scuola dell’epoca ellenistica. la serenità dell’animo. Oppure nati una volta è poco male riandarsene subito dove eravamo” (Trad. soprattutto nei tragici. . hoc se quisque modo fugit. vi domina l’amaro di una realtà priva di illusioni. tra cui Carlo Giussani. la limitazione dei bisogni e quindi il raggiungimento dell’atarassia e dell’aponia. ut fit. haut ita vitam agerent. Se conoscessero la causa del loro male si dedicherebbero solo allo studio della filosofia e a chiedersi cosa aspetti loro dopo la morte. oscitat extemplo. non unius horae. la commutatio loci ( la smania di cambiare luogo). non avendo raggiunto la serenità. currit agens mannos ad villam praecipitanter auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans. Nel libro III del De rerum natura Lucrezio insiste sulla natura dell’anima. case. Si possent homines. sono mali tipici dell’ignorante e della folla privi dell’ ἀταραξία del sapines epicureo. effugere haut potis est: ingratius haeret et odit propterea. esse domi quem pertaesumst. senza riuscire a liberarsi dall’oppressione. tutto il resto: il lusso i vani piaceri. quippe foris nihilo melius qui sentiat esse. aut etiam properans urbem petit atque revisit. quod se gravitate fatiget. denaro. at quem scilicet. vive uan vita senza senso non degna. da un’esigenza di colmare il vuoto che ha dentro l’anima. la levitas (la morbosa inconstanza). Dunque sono ben poche le cose che l’uomo necessita per essere felice. Il canto della contemplazione della morte si conclude con il canto della finitezza delal vita. quam bene si videat. Molti critici. exit saepe foras magnis ex aedibus ille. ma questo tema risulta essere visto da Lucrezio in modo molto più razionale. iam rebus quisque relictis naturam primum studeat cognoscere rerum. non a caso. ignorandone. nel discorso di Lucrezio non si menziona la voluptas. è colpito da un’insaziabile noia. Nel finale del libro lucrezio si dedica a chiarire le ragioni dell’inquietudine che grava sulla vita umana. legata indissolubilmente al crpo materiale. post mortem quae restat cumque manenda. al tema esposto con le liriche greche.piaceri. E’ chiaro che il bene è ristretto all’ambito del piacere sensibile e che il piacere spirituale è ricondotto allo stesso piacere sensibile. ut nunc plerumque videmus quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper. commutare locum. che deve fluire abbondantemente per celare l’amara medicina. e rivolge la sua attenzione sulla riflessione riguardo la morte. Denique tanto opere in dubiis trepidare periclis quae mala nos subigit vitai tanta cupido? certe equidem finis vitae mortalibus adstat nec devitari letum pote. poiché cercano invano di sfuggire a se stessi. Il taedium (la « tetra noia » per dirla come il Parini). proinde ac sentire videntur pondus inesse animo. subitoque <revertit>. praeterea versamur ibidem atque insumus usque . la causa. temporis aeterni quoniam. Colui il quale ha accumulato per tutta la vita ricchezze. Per questa ragiune. in quo sit mortalibus omnis aetas. aut abit in somnum gravis atque oblivia quaerit. probabilmente. quin obeamus. la scelta. quasi onus deponere possit. Qui ritorniamo al filo conduttore di questa sezione. ambigitur status. e quibus id fiat causis quoque noscere et unde tanta mali tam quam moles in pectore constet. Gli uomini avvertono il peso che opprime il loro animo e. tetigit cum limina villae. incentrato sulla metafora del miele. Lucrezio da buon maestro cerca di dare un’indicazione al suo lettore per raggiungere la vera felicità. l’autore aprirà il IV libro con la trionnfante e gioisa ripetizione ( I 926-950) del suo programma poetico. considerano centrale il libro III nell’ambito del poema poiché rivolto a fugare la paura dell’aldilà la quale impedisce il raggiungimento della voluptas il piacere. morbi quia causam non tenet aeger. vivono inquieti spostandosi continuamente. portano solo dole. esce sempre dai grandi palazzi. et ille. / o si immerge nel sonno profondo e cerca di obliare. come noi per lo più vediamo. continuamente rimaniamo prigionieri / né vivendo si schiude alcun nuovo piacere. Lucrezio in questo caso. Manenda emendamento del Lambino (i codici riportano manendo). poi . / In questo modo fugge se stesso. nec prorsum vitam ducendo demimus hilum tempore de mortis nec delibare valemus. Egli le rintraccia nella superstizione e nella paura per la morte. osserva un fenomeno: l’inquietudine degli uomini. dal momento che non si discute d’una sola ora. perché ciò che è dissolto è insensibile. / quantunque ne rimanga dopo la morte. cum contigit illud. tale brama sembra / che prenda il sopravvento sulle altre brame. il nostro autore trova una soluzione al senso di ansietà degli uomini.) . dal momento che s’accorge che fuori non v’è nulla di meglio di quanto c’è nella dimora. avemus et sitis aequa tenet vitai semper hiantis. perciò vi rimane attaccato ed odia. <Revertit> l’integrazionw al testo mutilo dei codici è del Poliziano. id exsuperare videtur cetera. poiché gli atomi che compono i corpi sono costretti ad aggregarsi e a disgregarsi continuamente: nulla nasce dal nulla. / per primo s’impegnerebbe a conoscere la natura delle cose. è in dubbio che sorte ci riservi il tempo futuro. Praecipitanter. tÕ d' ¢naisqhtoàn oÙd prÕj m©j. ne cerca le cause e i principidi spiegazione. Quello che si annoia a stare a casa. 13 Se gli uomini potessero. Hapax-legomenon (ἅπαξ λεγόµενον. cerca qualcosa in più al di fuori di esso. quidve ferat nobis casus quive exitus instet. che non sa cosa voglia. Ma la morte non è nulla per l’uomo: “Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum”14 (De rerum natura III 830). / né possiamo evitare la morte: ci andiamo incontro. ex hodierno lumine qui finem vitai fecit. / incalzando come se dovesse portare l’acqua ai tetti che bruciano. già lasciate da parte tutte le altre cose. / non di meno rimarrà quella morte eterna. 14 q£natoj oÙd prÕj 1m©j· tÕ g¦r dialuq ¢naisqhte‹. e cerca sempre di cambiare luogo come se potesse deporre il peso. né riusciremo ad offenderlo / per strappare alla morte qualche secondo. / e questo se ben vedesse. / conoscere da che cosa esso sia causato. posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas. post aliud. Oltre a cercare le cause. / poiché il malato non conosce la causa della sua malattia. quo minus esse diu possimus forte perempti. e subito vi ritorna. / e poiché una tanto grande fardello rimanga ancorato uguale nell’animo. / Allora è permesso vivendo che tu seppellisca quante generazioni vuoi./ subito ne si vuole un altro e un’eguale sete di vita trattiene coloro che smaniano ardentemente. (Lucrezio De rerum natura III 1053-1099)13 Notiamo già nelle prime righe dell’estratto un’antitesi tra videntur (è un verbo chiave e presuppone la conoscenza coi sensi) e noscere. da buon scienziato. mensibus atque annis qui multis occidit ante. la paura della morte. nec minus ille diu iam non erit. / Né andando avanti a vivere toglieremo qualcosa / al tempo della morte. / e colui che è scomparso da anni e anni. «nulla è per noi la morte. / cosa ci porti il caso e quel esito si avvicini. / Inoltre ci muoviamo sempre nello stesso luogo. Ingratis emendamento del Lambino ( i codici ripotano ingratius). non appena tocca la soglia della casa. Così si dedicano a una moltitudine di attività che possano far dimenticar loro il senso di inquietudine. ma questo. / non vivrebbero in questo modo. come accade. / Successivamente quale tanto grande e terribile brama di vivere/ ci costrinse con grande violenza a trepidare in dubbiosi pericoli? / Ai mortali è destinata una fine certa. mors aeterna tamen nihilo minus illa manebit.2 Arr. La protasi dell’irrealtà sembra rilevare il dato di fatto che il noscere è diverso dal sentire umano e attesta la condizione di coloro che non vivono per la saggezza e non vogliono conoscere la natura delle cose e in virtù di ciò vivono in un perenne stato di angoscia. / subito sbadiglia. / Ma mentre ciò che desideriamo è lontano . / Poi. / né più di tanto quello rimarrà / colui che vide per l’ultima volta oggi il lume della vita.nec nova vivendo procuditur ulla voluptas. quando si ottiene l’oggetto del desiderio. L’uomo non conosce l’oggetto del suo volere. / ma del tempo eterno in cui tutti i mortali sono destinati a passare. / o affrettandosi si rivolge verso la città e la riguarda. ma non riesce ad afferrarlo. sed dum abest quod avemus. / Precipitosamente accorre alla villa di campagna aizzando i cavalli. proinde licet quot vis vivendo condere saecla. così come si vede che avvertono / che nel loro animo è insito un macigno che li affatica con il suo grande peso. Fugit il Madvig propone fugitat. è una parola che compare una sola volta in un testo e sono utili ai filologi) tale termine sembra coniato da Lucrezio. e ciò che è insensibile non è niente per noi» Epicuro (5. / non riesce a scappare. Riconoscere il male e la morte come parti del reale non sono l’indizio di un carattere esistenzialisticamente angosciato. ci schiaccia e ci impedisce il raggiungimento di una serena saggezza. Certamente nel poema vi sono cupe immagini di morte e dolore. In particolare gravis e revisit esprimono lo stato d’animo del ricco accasciato dal torpore della noia o freneticamente ansioso di cambiare luogo. Il brano. Ettore Bignone (in Lucrezio come interprete della filosofia di Epicuro) e Adelmo Barigazzi ( in Lucrezio. La tesi dell’ottimismo lucreziano trova indubbiamente un elemento di forza. Paravia Torino 1974) sostengono la tesi dell’ottimismo e quindi della piena adesione alla scuola epicurea. poiché il fine della scuola epicurea starebbe nel liberare l’uomo dall’angoscia. Il canto si chiude con un climax ascendente: gli ultimi versi suonano quasi come un trionfo della morte. Questo passo sembra spesso agli studiosi poco coerente con il pensiero epicureo . già ampiamente negata nel corso del libro III. perché pare avanzare un’ipotesi di una vita dopo la morte. Per Lucrezio è fondamentale non preoccuparsi di come trascorrere le ore della vita. ma dandosi ai piaceri non necessari. l’importanza dello studio filosofico. di una dottrina tendenzialmente ottimistica. la brama ardente di vivere. post aliud.nulla ritorna al nulla. invece. ma esse devono essere considerate alla luce della dottrina epicurea. che verte sulla problematica dell’eternità. La giusta via di mediazione ci è data da Gian Biagio Conte:” i luoghi più eloquenti dell’opera sono le ferite che il conflitto ha lasciato dietro di sé nella dottrina: sotto un certo aspetto le fratture di un pensiero sono più essenziali della continuità che salvaguarda la coerenza logica. Questa brama di vivere. […] Di qui l’adito alla polemica contro le illusioni. Qui si apre un dibattito che ha occupato i principali interpreti di Lucrezio: il presunto pessimismo. quindi. Nulla cambia nella natura. nutrire la fiducia che grazie alla ragione l’uomo possa giungere alla felicità. Il saggio. Tali oggetti non potranno mai colmare il vuoto poiché “sed dum abest quod avemus. anche ritorno in città. La vita e la morte nell’universo. sarebbe totalmente inutile. Sembra strano. ma cercare di sapere quale eventuale esistenza ci attende dopo la morte. In realtà Lucrezio non si contraddice e tiene a sottolienare la vanità delle occupazioni cui si dedica l’uomo annoiato. cognoscere v. La descrizione è sempre più vivace nei particolari realisticidella corsa affannosa: sbadigli. presenti spunti pessimistici. è caratterizzato da una densa quantità di verbi che starebbero a sottolienare l’affannoso movimento di colui che viaggia e non ha pace. La chiusa del libro è il trionfo del pessimismo lucreziano la mala cupido vitae. La nostra vita è finita ed è determinata dal caso. Da notare l’accortissima collocazione dei termini che riassumono i fondamenti dottrinali del verbo di Epicuro e l’essenza dello stesso poema lucreziano (studeat. cantore dell’epicureismo. Essi vagano senza meta perdendo di vista l’obiettivo principale della vita: la saggezza. che istintivamente fa pensare alla volontà di vivere di Schopenhauer. ma. Tramite la conoscenza delle leggi della natura e. al contempo. avemus / et sitis aequa tenet vitai semper hiantis” queste parole sembrano anticipare le drammatiche pagine di Leopardi e di Schopenhauer. Naturalmente la ricerca filosofica condotta sulle orme di Epicuro porterà a negare che una qualsisi vita attenderà gli uomini dopo la morte. cit. tanto aspramente avversate perché tanto faticoso è stato liberarsene” (op. anche dei lati negativi di essa si può raggiungere la felicità. che Lucrezio. id exsuperare videtur /cetera. nel suo saggio si configura un’immagine di un Lucrezio dubbioso e afflitto dal dubbio che non ha più fiducia nella dottrina epicurea. non solo non giova ad evitare la morte (nec devitari letum) ma neppure ad aggiungere nuovi piaceri (nec nova vivendo procluditur ulla voluptas) né a sottrasi un solo istante dall’inevitabile fine: la vita ha un termine naturalmente fissato. C’è comunque da notare che Perelli ha utilizzato in maniera massiccia l’analisi psicanalitica che è certamente poco valida nell’analisi di un testo antico.). Sostenitore della tesi opposta è Luciano Perelli ( in Lucrezio poeta dell’angoscia). non ha bisogno di “scalfire il tempo della morte” poiché è giunto alla consapevolezza che la morte non è nulla ed inutile cambiare continuamente luoghi per obliare la sua angoscia. è più persuasivo riconoscere l’esistenza del male nel mondo. sostengono quegli studiosi. sonno per dimenticare. 1072) e l’accostamento dell’avverbio primum ( che indica la preminenza assoluta dello studio scientifico della natura su ogni altro interesse filosofico) ai termini più concettualmente significativi: “naturam rerum”. molto incalzante. ma segno di una capacità di abbracciare la vita nei suoi aspetti di luce e di ombra. . siamo sempre in balia dei nostri interessi contingenti. le misere menti degli uomini si dimenano continuamente senza scopo cercando di cambiare qualcosa che non può essere cambiato: la legge materiale della natura è immutabile. non possiamo sottrarle nemmeno un momento. cum contigit illud. Suave. 59 sgg. . mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem. Fin dai tempi di Voltaire in questa pagina di Lucrezio è stata ravvisata una sorta di egoistico compiacimento nel sentirsi libero dai pregiudizi e dalle passioni. bene quam munita tenere edita doctrina sapientum templa serena. quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae 15 L’ideale di vita a cui ci riferiamo è tipico della classicità. ci dà. certare ingenio. sed nihil dulcius est. o pectora caeca! qualibus in tenebris vitae quantisque periclis degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre nihil aliud sibi naturam latrare. contendere nobilitate.D’altronde il IV libro si apre con l’immagine luminosa del topos miele-poesia quasi a stemperare i toni cupi e drammatici della chiusa del libro III. Il proemio del libro II prospetta il collegamento con l’etica saldando la conoscenza della natura alla conquista della felicità. despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vitae. da Lucrezio stigmatizzati anche in altri luoghi del poema (cfr. nec calidae citius decedunt corpore febres. textilibus si in picturis ostroque rubenti iacteris. In esso sono celebrati i principi fondamentali dell’etica epicurea dall’identificazione del piacere stabile con l’aponìa e con l’ataraxìa all’esortazione a godere le gioie di una vita ritirata (láthe biôsas). neque natura ipsa requirit. suave etiam belli certamina magna tueri per campos instructa tua sine parte pericli. lumina nocturnis epulis ut suppeditentur. Tutti i libri si aprono con immagini splendenti e luminose: il primo con l’inno a venere e l’inno ad Epicuro salvatore degli uomini. I di Orazio. infatti questo proemio era stato intitolato “rapsodia per una serenità egoistica” . si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes lampadas igniferas manibus retinentia dextris.) e dopo di lui sviluppati da Virgilio nel finale del libro II delle Georgiche. delicias quoque uti multas substernere possint gratius interdum. L’ideale di vita che vi traspare15 viene contrapposto ai modelli negativi della vita associata della continua ricerca di ricchezze e potere militare. non quia vexari quemquamst iucunda voluptas. cum tamen inter se prostrati in gramine molli propter aquae rivum sub ramis arboris altae non magnis opibus iucunde corpora curant. nisi ut qui corpore seiunctus dolor absit. il ritratto del saggio beato. oltre alla descrizione di una stirpe umana cieca che non sa raggiungere la vera felicità. o miseras hominum mentis. quam si in plebeia veste cubandum est. noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumque potiri. 3. il terzo il quinto e il sesto con degli elogi ad Epicuro. Lucrezio. nec domus argento fulget auroque renidet nec citharae reboant laqueata aurataque templa. uno dei testi canonici rimane l’Ode I. praesertim cum tempestas adridet et anni tempora conspergunt viridantis floribus herbas. e 995 sgg. come accennato. sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est. mente fruatur iucundo sensu cura semota metuque? ergo corpoream ad naturam pauca videmus esse opus omnino: quae demant cumque dolorem. il secondo si apre con un’esaltazione del saggio epicureo. / Né le febbri abbandonano prima il corpo caldo/ se ci si rigira in coperte dipinte e rose di porpora. così noi / alla luce temiamo quelle cose che per niente si debbono temere / di più di quelle che spaventano i fanciulli nelle tenebre immaginandole imminenti. (Lucrezio De rerum natura II 1-61)16 16 E’ dolce. vedendo le tue legioni / muoversi fervidamente per il campo di battaglia. / essendo tutta la vita travagliata nelle tenebre? / Infatti come i fanciulli tremano e / temono tutto nelle buie tenebre. in quali pericoli trascorriamo / questo poco di vita. animo quoque nil prodesse putandum. quod super est. / guardare da terra il grande travaglio degli altri. / specialmente il tempo sorride e la stagione / propizia cosparge i campi verdi di fiori. poiché. allora.proficiunt neque nobilitas nec gloria regni. / Poiché i tesori. necessario che questo timore dell’animo e queste tenebre / non vengano dissipate né dai raggi del sole né dai lucenti dardi del giorno. / sotto le fronde di un albero. si non forte tuas legiones per loca campi fervere cum videas belli simulacra cientis. tuttavia. / sicché possano dispensare molti dolci piaceri./ quando. fra amici. se non / che il dolore se ne stia lontano dal corpo e che / nell’animo goda d’una giocosa sensazione sciolta dagli affanni e dal timore? / Quindi notiamo che alla natura corporea bastino veramente / poche cose che leniscano il dolore. / sforzarsi di giorno e di notte con ingente fatica / a giungere a eccelsa opulenza e d’impadronirsi il potere. / è che la casa risplenda d’oro e d’argento. / senza grandi agi. anche. quale esso sia. subsidiis magnis et ecum vi constabilitas. o cuori insensibili! / In quali tenebre. vicino a un corso d’acqua. / a meno. / se non vi sono statue dorate per le stanze d’una villa. quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas. e i timori della morte / ti lascino il cuore leggero e sciolto da preoccupazioni. / che tengano con le destre delle lampade. / per illuminare i banchetti notturni. / talvolta è più piacevole. / Oh misere menti degli uomini. E come non vedere / che la natura non reclama nulla per sé. omnis cum in tenebris praesertim vita laboret? nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis in tenebris metuunt. / non per provar piacere dalle svenute altrui. ornatas<que> armis statuas pariterque animatas. / perché dubiti che il potere sia tutto della ragione. / le superstizioni atterrite da questi fatti / fuggano da te pavide. sic nos in luce timemus inter dum. suscitando immagini di guerra / rafforzate da truppe ausiliarie e dalla forza dei cavalli. allieta vedere da quali mali ci si è sottratti. sed naturae species ratioque. his tibi tum rebus timefactae religiones effugiunt animo pavidae mortisque timores tum vacuum pectus lincunt curaque solutum. hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest non radii solis neque lucida tela diei discutiant.né la stessa natura lo richiede. / equipaggiate d’armi e parimenti animate di spirito bellicoso. . / E’. quando il vasto mare è sconvolto dai venti. re veraque metus hominum curaeque sequaces nec metuunt sonitus armorum nec fera tela audacterque inter reges rerumque potentis versantur neque fulgorem reverentur ab auro nec clarum vestis splendorem purpureai. osservare i grandi scontri di guerra / sugli schieramenti. per caso. / Ma non v’è nulla di più dolce del risiedere sugli alti templi sereni / resi sicuri dalla dottrina dei sapienti / dall’alto dei quali si possono osservare gli altri e vederli /smarriti errare qua e là ricercando la via della vita: / gareggiare per l’ingegno. / e vedendo la flotta veleggiare ampiamente. / ma dallo studio e dell’osservazione della natura. senza essere in pericolo. si prendono cura del corpo. / E’ dolce. combattere per la nobiltà. / né che le cetre facciano rimbombare i soffitti intagliati e dorati. quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus. / per il resto non bisogna pensare nemmeno che servano alla nostra anima. la nobiltà e la gloria di regno / non giovano nulla al nostro corpo. nihilo quae sunt metuenda magis quam quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura. / piuttosto che si dorma in una veste plebea. / in verità le paure degli uomini e le preoccupazioni che ne conseguono / non temono né il suono delle armi né le lance minacciose / audacemente s’aggirano tra i re e tra i ricchi / né hanno reverenza per il fulgore dell’oro / né del luminoso splendore d’una veste purpurea. / E se queste cose ci paiono ridicole e degne di scherno. / ma. Cicerone Att II 7. e colui il quae erra senza scopo nel mondo. in certare ingenio e contendere nobilitate l’allitterazione degli infiniti e la cesura del verso accentuano il parallelismo dei due cola. il suo cuore di dentro latrava. Ma l’immagine della natura che grida imperiosamente le sue richieste è anche in Epicuro. in luce ) che connota la felicità del saggio. a cui si possono aggiungere i versi 902-911 del terzo stasimo delle Baccanti di Euripide. L’impeto di questi versi risuona anche nell’ XI canto del Paradiso dantesco: “oh insensata cura de’mortali. poi. religiones. A questa parte luminosa e solare si contrappone una seconda parte buia e tenebrosa: o miseras hominum mentis. ma assicura anche molti piaceri. esclamazioni. che verranno poi enunciati: l’assenza di dolore e l’assenza di turbamento. La soddisfazione dei desideri naturali e necessari non solo toglie il dolore. le traversia del naufrago. mortisque timores. La natura grida imperiosamente. si contrappone ad espressioni negative ( tenebris. Enjambements. La soddisfazione dei desideri del corpo richiede assai poco: non sono necessari banchetti in ambienti sfarzosi.481 Skutsch) e in Omero (XX 13). stemprata. l’ interrogativa retorica “nonne videre…” (v. non aver sete e non aver freddo”.1-3). dall’alto della ragione. Vi è poi un crescendo di drammaticità. come secondo l’esempio. quelli che tolgono il dolore sono i piaceri naturali e necessari. Questi versi dal forte impatto emotivo (despicere unde il verbo dà comunque l’idea dell’osservare dall’alto verso il basso… errare atuqe viam palantis quaerere vitae… certare ingenio…contendere nobilitate… rerumque potiri”) ci ricordano quelli del brano precedentemente proposto dove erano elencate con un ritmo incalzante tutte le varie azioni che il ricco annoiato compiva per a fuggire al malessere della vita. Secondo la classificazione epicurea. fr.. serena.4. inserisce l’analogia nell’uso letterario che trova un suo precedente in Ennio (animusque in pecora latrat v. animalescamente. e Orazio Epistola I 11. forse connesso etimologicamente con lamentum. L’espressione non è da intendere nel senso che il saggio provi piacere di fronte al disagio altrui. il verbo latrare. acquista la percezione del piacere. In questo modo. terrorem animi. sa notarsi anche l’evidente metonimia di gusto virgiliano. Già nei versi 8-13 incominciano ad accentuarsi le differenze tra colui il quale risiede sui Templa serena dei saggi. Gratis. che trova il culmine al verso 17: “nil aliud sibi naturam latrare…”. in una ricca serie di immagini Il lessico nettamente positivo ( suave. Archiloco fr. assistendo da lontano. di cui il verbo ὑλάκτει indica proprio il latrare dei cani). senza indulgere in un lusso fine a se stesso. edita. 43 K. che. iucundu sensu. quando grida la carne anche l’anima gridi. Nell’incipit del brano si intrecciano numerosi riferimenti colti: l’immagine potente dello scampato alla tempesta. dalle evidenti assonanze della della m e della c. il lessico è ricercato ed elegante.. era diffusa nella letteratura classica: Sofocle fr. infatti. il mangiare e il bere in compagnia. L’inizio del brano è lento. errare. In questi versi.10.16). dalla forte cesura eftemimera. senza trovare un fine. infatti il contatto con la natura e l’amici basta per raggiungere la felicità. l’esclamazione è rimarcata dal chiasmo degli accusativi che pone in rilievo gli attributi. ma che. o pectora caeca (v14). viene data un’indicazione chiara e esemplificata per raggiungere la vera serenità. ma si sforza per raggiungere una felicità che risulterà essere effimera. / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!” (vv. riferito al cuore che latra dal dentro (come in Ennio): ὕστατα καὶ πύµατα· κραδίη δέ οἱ ἔνδον ὑλάκτει… (. con la triplice anafora di suave.per l’ultima volta.22) è di per se eloquente (letteralmente “stendere sotto”) indica l’apporto di piacere . compiaciuto.. Il grido della carne è: non aver fame. metus hominum cauraeque ). 22 Arrighetti “ Non considerare innaturale. il quale dalla terraferma contempla. Già il verbo substernere (v. 579N. interrogazioni e riprese accentuano l’impatto emotivo del testo. lo si vedrà più avanti. poi sempre più mosso e concitato fino che il poeta si lascia coinvolgere dal compianto per la miseria umana. al meschino affannarsi degli altri uomini si sente libero dai mali che spingono ad affrontare rischi e pericoli di ogni genere e assapora la vera felicità. dulcius. nella forma del cosiddetto infinitum indignationis rende più patetica l’argomentazione. quasi affannoso. L’mmagine ha una forte intensità proprio per richiamare l’attenzione sui due concetti basilari della morale epicurea. La scrittura di Lucrezio continua in un incessante intreccio di parole che tendono a sottolineare l’altezza dello stile: suave è replicato con variatio e climax. che consiste nella mancanza di dolore e turbamento. che consiste nella mancanza di dolore.Il saggio assapora la felicità stando tranquillo a contemplare l’affanno altrui. riprendendo dei versi omerici. φαίνοντες νύκτας κατὰ δώµατα δαιτυµόνεσσι. Ai pochi beni necessari Lucrezio accosta i piaceri superflui . Come usuale in Lucrezio l’argomentazione si conclude con una formula quasi con degli epifonemi. forse uno dei pochi collegamenti che il nostro autore fa con il suo periodo storico. Gli uomini. Nell’Epistola I 8. Qual è dunque la via di fuga a questi mali? Lo studio appassionato della natura e dei suoi meccanismi. ridicula… ludibriaque). Da notarsi. Infatti Lucrezio tende a sottolinearlo utilizzando clausole ironiche come “si non forte” al verso 40. Ritornando al tema della commutatio loci. Si quaeret quid agam. Tutti mali che affliggono gli uomini: le superstizioni religiose . In questo caso ci allacciamo al testo del libro III. dic multa et pulchra minantem vivere nec recte nec suaviter. idilliaco. it. nil discere. Odissea VII 100-102)17 Successivamente in questi versi Lucrezio delinea un quadro paesaggistico ameno. Lucrezio. infatti. che sarà l’unico modello latino della poesia bucolico pastorale virgiliana. Il brano va via via concludendosi con una metafora colta ripresa dal Fedone (77) di Platone. non possono essere fugati attraverso inutili prove di forza. Colui che ha continuato a trattare questo argomento fu l’epicureo Orazio nelle Epistole (I 8. Le statue di giovani reggenti fiaccole compaiono nella descrizione di Omero della villa di Alcinoo: χρύσειοι δ' ἄρα κοῦροι ἐϋδµήτων ἐπὶ βωµῶν ἕστασαν αἰθοµένας δαΐδας µετὰ χερσὶν ἔχοντες. . I 11). la soluzione che viene esposta è sostanzialmente la stessa: lo studio della natura. 17 “ Fanciulli d’oro sopra solidi piedistalli / si tenevano dritti . In questo caso la chiusura è del tutto simile a quella del libro III ed insiste sul fatto. comunque il clima tutto romano della scena delle esercitazioni militari. nec quia longinquis armentum aegrotet in agris. il poeta appare affetto da uno stato di depressione. hanno paura anche alla luce del sole perché essa non riesce a dissipare le tenebre dell’intelletto. di cui quelli non naturali (vv24-28). che il timor e l’horror gravano sulla vita degli uomini come conseguenza della paura degli dei. / illuminavano le notti ai banchettanti in palazzo” (Trad. Lucrezio oppone una nuova visone antitetica: i malanni non vengono allontanati più rapidamente da un tenore di vita lussuoso. da una sorta di insoddisfazione mista a funebre malinconia che egli chiama funestus vernus e che molti aspetti sembra simile ad alcuni stati nevrotici. l’espressione dei fanciulli che temono le tenebre interpreta suggestivamente e allusivamente il contrasto tra l’ignoranza del Vero e la dottrina del filosofo. esso viene ripreso largamente da molti autori: in ambito latino ha avuto un discreto successo. reggendo in mano fiaccole accese. a differenza dei bambini. Rosa Calzecchi Onesti). che da uno modesto. ammessi dalla dottrina epicurea. quod levet aegrum. fidis offendar medicis. haud quia grando contunderit vitis oleamque momorderit aestus. ma la ridondanza qui ha la funzione di instaurare un rapporto tra le paure e le preoccupazioni quasi personificate. evoca il clima inutilmente sfarzoso delle ville romane. sed quia mente minus validus quam corpore toto nil audire velim. Lutezio nell’argomentare procede per espressioni binarie (es. La ricchezza e il potere ( nel libro III erano descritte delle azioni di un ricco nobile annoiato) non riescono a prevalere sulle angosce e sulle paure che affliggono gli uomini. Al ridente quadro dei piaceri naturali.implicito legato ai bisogni essenziali dell’uomo. (Omero. ripreso in tutto il poema. irascar amicis. che sono nocivi e quelli necessari e naturali. allora lo assale la scontentezza di sé. anche il luogo peggiore può diventare bello e vivibile. poi. / ma perché sono meno sano nell’animo che in tutto il corpo / nulla voglio sentire. / cerco ciò che mi fa male. Quod petis. in uno stato di perenne alienzaione. deve essere goduta nell’attimoin cui ci si trova. segnati da quella nota di dolorosa malinconia che caratterizza la stagione dell’Orazio maturo. animus si te non deficit aequus.cur me funesto properent arcere veterno. 19 Tu qualsiasi ora un dio ti abbia dato propizia. Quando. vixisse libenter tu dicas: nam si ratio et prudentia curas. / è a Ulubre. 3-12)18 L’insoddisfazione del poeta ha una componente esistenziale che il supporto della filosofia non è stato in grado di vincere. et hi qui levitate vexantur ac taedio assiduaque mutatione propositi. / né perché un armento si sia ammalato nei vasti pascoli. non animum mutant. Omnes in eadem causa sunt. non l’animo muta colui che viaggia per mare. fugge senza trovare pace e oblia tutti i mali. ma non ci riesce. Così è inutile girovagare senza meta se non si è raggiunta la serenità e quando la si ha. / Me la prendo con i medici fidati. Il tema dell’inutilità del viaggio ritorna nell’ Epistola 11 del primo libro. qui trans mare currunt. / raccoglila con mano grata e non rimandare a domani le gioie. m’accendo d’ira contro gli amici / perché si affannano a strapparmi da questo mortale torpore. si trova solo con se stesso e tenta un bilancio dei suoi sforzi vani. Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sume manu neu dulcia differ in annum. tratterà di questi stssi temi. qui notiamo una differenza con Lucrezio. citando anche i versi di Lucrezio. così. alla quale tenta di reagire con continui spostamenti. quae nocuere sequar. non già / perché la grandine abbia rovinato le viti e il caldo abbia rinsecchito gli olivi. . Seneca. egli. Il poeta non trova requie in alcun luogo e sprofonda in uno stato di ansiosa inquietudine e di accidiosa scontentezza (assai simile a quella del Petrarca nel Secretum). / infatti. non animum mutant. che vive. fuggo ciò che credo mi possa giovare. […]Inde peregrinationes suscipiuntur uagae et litora pererrantur et 18 Se ti chiedesse cosa faccia. La felicità. cioè affetto da una sorta di depressione ansiosa. Epistulae I 11 vv 22-30)19 Caelum. non locus effusi late maris arbiter aufert. hic est. Romae Tibur amem. / il cielo. quibus semper magis placet quod reliquerunt. promettendo belle e molte cose / di’ che non vivo né bene né piacevolmente. (Orazio. a Tivoli Roma. est Ulubris. fugiam quae profore credam. Se ne accorsero già i commentatori antichi che definirono il poeta come melanchonicus. / volubile come il vento a Roma mi piace Tivoli. Egli non riesce a curare il suo stato di malattia. se ragione e prudenza ci fugano gli affanni. più tardi. se non ti manca un animo sereno. Orazio. dove Orazio ritorva una felice soluzione lirica che riprende i concetti base della morale oraziana. ancora uma volta descrive l’uomo che vive proteso su un futuro che non gli appartiene. et illi qui marcent et oscitantur. / non un luogo che si affaccia su un ampio tratto di mare. / Ci travaglia una strenua inerzia con navi e / con quadrighe ricerchiamo la felicità. La strenua inertia diviene tema di canto fornendo i parametri morali entro i quali si inquadra la smania di viaggiare. come si può ben notare nelle odi. caelum. Solo la saggezza e la ragione possono liberare dagli affanni gli uomini. Strenua nos exercet inertia: navibus atque quadrigis petimus bene vivere. qui trans mare currunt è una sentenza incisivache riassume il conflitto interiore di tutta una vita dedita alla ricerca della perfezione morale. Ciò che chiedi è qui. Epistulae I 8 vv. non riesce a mettere in pratica i concetti della dottrina epicurea e risulta meno “solido” di Lucrezio. Come nell’Epistola precendente il poeta vorrebbe distinguersi da coloro che viaggiano per dimenticare il loro male. ut quocumque loco fueris. niente voglio sapere che allievi il dolore. / così da poter dire di essere vissuto volentieri in qualunque luogo. ventosus Tibure Romam. (Orazio. e alla regione abbastanza ricca anche per la vecchiaia della popolazione”. lungi dall’errare. incostanza? La risposta di Seneca più discorsiva e meno lapidaria di quella di Lucrezio (fine del III libro del De rerum natura) rimanda al comune maestro Democrito: guardando alle cose stesse e conscio di essere nato per la morte (morti natus es ).. Anche se stoico. nec laboris patientes nec uoluptatis nec nostri nec ullius rei diutius. ostacolo al raggiungimento della tranquillitas. Ed ecco una soluzione simile a quella di Lucrezio. per translato il sostantivo che significa leggerezza indica l’incostanza e la volubilità. si collega a Democrito.." Iam delicata fastidio sunt: "Inculta uideantur. in questo brano e in altre parti della sua opera. tradotta con tranquillitas animi (come già aveva fatto Cicerone)? È la stabilità dell’animo (stabilis animi sedes). ai quali piace sempre di più ciò che hanno lasciato. si non effugit? Sequitur se ipse et urget grauissimus comes.. Tuttavia in mezzo ai luoghi deserti si ritrova qualcosa di ameno donde gli occhi abituati al lusso sono distolti dal lungo squallore dei luoghi orrendi: “si vada a Taranto al suo porto lodato. Il moviemtno senza meta è ulteriormente sottolineato da Seneca con l’impiego dell’aggettivo vagae e col doppio parallelismo chiastico di peregrinationes suspiciuntur/ litora pererrantur / experitur…levitas. al soggiorno invernale per il cielo più mite. Sed quid prodest. Iam flectamus cursum ad Vrbem: nimis diu a plausu et fragore aures uacauerunt. riprende il tema della commutatio loci lucreziana. lo studio attento delal fenomenologia delle passioni umane e della psiche può liberare l’uomo dal suo stato di angoscia esistenziale. Ma come dice Lucrezio: in questo modo ciascuno fugge sempre se stesso. egli è molto vicino all’epicureo lucrezio tanto che lo ha anche citato. Seneca.modo mari se. Anche in questo caso Seneca si pome. anche dal punto di vista linguistico riesce a rendere con particolare efficacia l’inutilià del continuo cambiamento di luogo. sed nostrum: infirmi sumus ad omne tolerandum. né alcuna altra cosa troppo a lungo. “Ritorniamo già verso Roma” troppo le nostre orecchie non sentirono gli applausi e il fragore. sia coloro che sono tormentati dall’incostanza. Già i luoghi eleganti vengono a noia: “ si visitino i luoghi selvaggi. né noi stessi. iuuat iam et humano sanguine frui. Quale è il rimedio contro il tedio che è sazietà. […] Quindi intraprendono viaggi per ogni dove e attraversano lidi e ora per mare e ora per terra si esperisce sempre la volubilità sempre ostile alle cose presenti. raggiungiamo il Bruzio e i passi della Lucania”. Anche la stessa scelta lessicale di levitas. Si susseguano uno dietro l’altro i viaggi e si guardi uno spettacolo dietro l’altro. incoerenza. Vt ait Lucretius: Hoc se quisque modo semper fugit. si mantiene costantemente nello stato divino dell’imperturbabilità (divinum non concuti ). Itaque scire debemus non locorum uitium esse quo laboramus. labilità. Il De tranquillitate animi. sia qualli che sono rammolliti sia quelli che sbadigliano. Ma che cosa giova se non riesce a fuggire? Segue sempre se stesso e incalza un compagno molto pesante. l’opera da cui abbiamo stralciato il brano è dedicata a Sereno che ricerca la tranquillitas." 14 Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. sistantivo astratto dell’aggettivo levise « leggero ». da tedio e dalla voglia continua di cambiare propositi. tuttavia risulata essere lontana e irraggiungibile. Che cos’è l’euthymìa. ma nostra. “Ora ci dirigiamo verso la Campania”. volubilità. in questo caso. secondo cui l’anima è la dimora della nostra sorte e solo rettitudine e 20 Tutti si trovano nella medesima condizione . prova gioia e. Per giunta dobbiamo sapere che la colpa non è dei luoghi per cui soffriamo." Aliquid tamen inter deserta amoeni requiritur. noi siamo mlati e non riusciamo a tollerare. L’uomo volubile non riesce a vivere senza preoccupazioni ed è continuamente soggetto al dolore. ( Seneca De tranquillitate animi II 6-13-15)20 Anche seneca. Bruttios et Lucaniae saltus persequamur. né il piacere. (DRN III1068). piace anche assistere a spettacoli cruenti. . in quo luxuriosi oculi longo locorun horrentium squalore releuentur: "Tarentum petatur laudatusque portus et hiberna caeli mitioris et regio uel antiquae satis opulenta turbae. cerca la tranquillità o euthymìa (Democrito scrisse un’opera sull’argomento). modo terra experitur semper praesentibus infesta leuitas: "Nunc Campaniam petamus. che dispensa una malattia per l’animo e qui si concretizza il suo intento di iuvare alios Solo la filosofia. che. Chi piace a se stesso è lieto. È la consueta ricetta stoica che. è un corso sempre uguale e favorevole distante da esaltazioni e depressioni. non sappiamo sopportare la fatica. instabilità. una condizione. quasi come un medico. e la nausea nascono dal peso del non sapere che fa errare: il saggio guarda dall’alto dei templi sereni edificati dalla sapienza gli uomini che si agitano smaniosi di cose e di autenticità. Seneca anche nelle Epistulae morales ad Lucilium cerca di opporre all’inquitudine dell’animo lo stordimento dei viaggi . Hoc idem querenti cuidam Socrates ait. si può chiamare angoscia esistenziale. ma romanamente inclini ad ascoltare la voce del ‘cuore’ (non solo della mente: l’appello di Seneca al credere e al volere non è di poco momento ) e a rappresentare le fluttuazioni. la guarigione dalla malattia che induce a fuggire se stessi. al punto che Lucrezio è preso dalla pietà. quasi innalzato al livello degli dei. che recedano le terre e le città. Nella lettera inviata da Seneca a Lucilio il tema viene trattato in modo molto più personale che nel Tranquillitate animi. e talora sono presi dal desiderio di autodistruzione e di morte. come dice il nostro Virgilio. eleaticamente connesse all’’errore dei mortali’. più disponibile all’umana solidarietà Seneca. superiore al ciclo delle cose mortali. il problema della noia è visto in un’ottica personale e la drammaticità della 21 Seneca Saluta Lucilio. .dice a Sereno . Liberato dall’angoscia o almeno dall’accidia. I tuoi mali ti seguiranno ovunque tu vada. che con un viaggio tanto lungo e con una grane varietà di luoghi non riuscisti a dissipare la tristezza e la pensantezza dell’animo? Devi cambiare l’animo non il cielo. 'quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse. Il fine nostro è appunto l’euthymìa che non è identica al piacere ma è la condizione costante della calma e dell’equilibrio dell’animo non turbato da paura né da superstizioni né da altro stato passionale: è il piacere che dà una vita solitaria dedita alla speculazione . del resto. Aen. aristocraticamente solitario e drammatico Lucrezio. a Democrito le cose umane parevano ridicole. quest’uomo va errando: il saggio è immobile come l’essere parmenideo. dal momento che porti in giro te stesso? Ti angustia la stessa cosa che ti ha fatot partire”. sia pure. Credi che ciò sia accaduto solo a te e ti meravigli come se fosse una cosa nuova. La fluttuazione. Quid terrarum iuvare novitas potest? quid cognitio urbium aut locorum? in irritum cedit ista iactatio. Se Eraclito vedeva la vita come un dramma. ( Ver. Bisogna deporre il peso dell’animo: prima non ti soddisfacerai di alcun luogo. le incertezze. Certo è diversa la strada stoica da quella epicurea.che tu abbia fede in te e vada per la retta via senza fartene stornare dalle orme trasverse dei molti che vanno trascorrendo qua e là e di alcuni che si smarriscono addirittura nei pressi della via stessa.avvedutezza rendono felici. ed è in alto. E poi. egli nell’Epistula 28 replica con le stesse parole di Orazio. terraeque urbesque recedant. Quale novità delle terre ci può giovaare? Quale conoscenza delle città e dei luoghi? E’ inutile questa agitazione. entrambi concordi nel respingere ciò che contraddice l’unitaria dottrina razionale. quasi schiacciato o quanto meno gravato dal non sapere. Altro tono da quello di Epicuro che. Anche Lucrezio vede nella ‘gnosi’ la salute. a buon diritto. licet. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. oppure sorride. seppur sereno. Sia pure che attraversi il vasto mare. non caelum. nell’Epistola a Idomeneo. ( Seneca Epistulae morales ad Lucilium III 28 1-2)21 . Preso da quello che. l’uomo guarda grave. cum te circumferas? premit te eadem causa quae expulit'. proclama di essere felice pur tra i tormenti del mal della pietra che lo sta conducendo a morte . III 72) sequentur te quocumque perveneris vitia. di fronte alle quali si può ridere o piangere (però: humanius est deridere vitam quam deplorare) . Simile attitudine in Seneca: occorre . SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare. ut ait Vergilius noster. E’ pesante la vita di chi non sa. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis. Ti chiedi perché questa fuga non ti abbi aiutato? Fuggi con te. dal male e dal dolore che pur si propone di sconfiggere: ne consegue che il paradiso del saggio non lo appaga: “Che male sarebbe mai stato per noi non essere nati?” . Licet vastum traieceris mare. Tali cose disse Socrate a uno che lo chiedeva: “Cosa ti meravigli se i viaggi non ti siano serviti a nulla. l’abbiamo visto nel brano precedente fa un largo uso di citazioni e di sentenze di altri autori. così. E’ questa l’origine di quel grave dolore: come se uno fosse circondato da innumerevoli nemici e non avesse alcuna via di fuga. tratta in maniera estesa il tema dell’accidia nel Secretum un dialogo immaginario con S. e a dipingere un quadro a lui ben noto: “in questa tristezza tutto è aspro e misero e orribile e la via della disperazione è sempre aperta. senza divertimento.situazione si riflette nello stile. Inoltre. il suo niente. che diviene il centro della poesia.1). 1. Il divertimento. Immediatamente uscirà dal fondo della sua anima l’umor nero. ma tutto gli fosse contro” . per primo. e quello che ascolto e quello che tocco” – risponde Francesco.Agostino. Francesco non ha difficoltà a riconoscere: “E’ vero” (Fateor). Egli sente. è proprio questo che impedisce a Petrarca di ricattarsi e genera in lui come un’accettazione rassegnata della propria natura. o poche cose davvero” – ribadisce Francesco. della miseria della condizione umana. Infatti niente è così insopportabile all’uomo che l’essere in pieno riposo senza passioni. Ma da cosa fugge l’uomo? Per Pascal sostanzialmente da due cose: dalla propria infelicità costitutiva e dai supremi interrogativi circa la vita e la morte. et le future anchora”. Il desiderio è inquieto perché si accompagna alla coscienza del carattere effimero e vacuo dei beni materiali. e tutto fa sì che le anime infelici ne siano sospinte verso la morte […] questo flagello mi ghermisce a volte così tenacemente da tormentarmi nella sua stretta per giorni e notti intere. E poco dopo. la perfidia. infatti. Se Dante e i poeti Cortesi concepivano la poesia come un fenomeno « sociale » da vivere con degli ascoltatori e anche con degli interlocutori. Agostino che all’inquietudine dell’animo incapace di trovare pace oppone più volte. Egli. che annulla ogni possibilità di scegliere e di agire. qual è per te la cosa peggiore? – chiede Agostino. come non ricordasi le parole di Lucrezio. essendo una continua fuga da noi . Pascal ritiene che l’attegiamento della mentalità comune nei confronti dei problemi esistenziali sia quello del divertissement. Petrarca si rivolge soprattutto a se stesso. la sua insufficienza. sono presenti moltissime interrogative dirette il ritmo è inclalzante e le risposte brevi e concise. la certezza cristiana : inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te (Conf. Dell’impossibilità per l’accidioso di apprezzare le “cose presenti” queste pagine del Secretum fanno addirittura il segno precipuo della malattia: “Dimmi. Il tema lo si ritrova in S. Di qui nasce una forma di inerzia morale. I. di compiacimento. Questo termine ha il significato filosofico di oblio e stordimento di sé nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali. “Tutto questo – conclude Agostino – è tipico di quella che ho chiamato accidia: le cose tue. Il divertimento è quindi una fufga da sé. ma oscurità e inferno e strazio mortale” . “Niente. distraggono l’uomo dalla considerazione di sé e dalla sua condizione. Eppure in questa sofferenza c’è una sorta di piacere. allora […] comincio a lamentarmi. “Tutto quello che vedo attorno. le armi a cui ricorre il nemico sono la “laborum preteritorum memoria futurorumque formido”. racconta: “se la fortuna […. di languida debolezza del volere. ad Agostino che gli chiede di spiegarsi meglio. Petrarca. e allora per me non è più tempo di luce e di vita. allora. dànno guerra. né speranza di clemenza. che getta l’anima in una tristezza perenne. senza applicazione. la tristezza e il senso di vuoto interiore. “Sei in preda di una tremenda malattia dello spirito. senza via di scampo. Le occupazioni. che i moderni chiamano accidia e gli antichi aegritudo” . il suo abbandono. passò gran parte della sua vita in viaggi e forse possiamo notare un aspetto autobiografico. Nel seicento un filosofo in particolare si occupò del problema del senso della vita: Blaise Pascal. Come è usuale in Seneca.] mi butta addosso tutte le miserie della condizione umana e il ricordo degli affanni passati e il terrore dei futuri. in quanto ogni oggetto rivela la sua vanità. senza impegni. “Perbacco! Non ti piace nulla di nulla?” – incalza Agostino. Infatti si notano moltissimi periodi corti e fratti. Alla base di questo male vi è un desiderio che non riesce ad individuare un oggetto preciso e resta sempre inappagato e inquieto. ti affliggono tutte” . Con Petrarca il tema entra nella letteratura italiana. proprio come nel sonetto “le cose … passate / . rivolge particolare attenzione al prorio io. Si noti: all’interno di una metafora bellica (la fortuna assedia e colpisce per espugnare). né soccorsi. ottenuta tramite una qualsivoglia attività lavorativa o ricreativa. nelle Confessioni.. Or io t’insegnerò. senza passioni. Il poema aveva per argomento la descrizione della giornata di un Giovin signore della nobiltà milanese e nel suo progetto originario doveva articolarsi in tre parti: il Mattino. secondo la quale viene affermato il contrariodi ciò che si vuole far intendere. 201. Il Giorno è un poema in endecasillabi sciolti che mirava a rappresentare satiricamente l’aristocrazia milanese di fine settecento. vengono celebrati in modo eccezionale. A questo proposito sarebbe interessante analizzare il proemio del Giorno (vv1-32). it A. In realtà da questa descrizione a tratti realistica a tratti iperbolizzata appare la vera essenza di quel mondo. Qui compare l’intento satirico di Parini. Innazitutto non viene scelta un giornata particolare. con il poema il Giorno di Parini. Pensieri trad. poche ore. Come ingannar questi nojosi e lenti Giorni di vita. perciò la vita futile e vuota della nobiltà viene celebrata in termini iperbolici. Già questo basta a dare il senso di una vita banale. le medesime parole. Inoltre il tempo in cui si collocano gli avvenimenti è abbastanza breve. La critica pariniana si avvale anche di altri strumenti. la propria dipendenza.Bausola. la disperazione. che si segnali per qualceh accadimento di riliev. la noia ci spinge a cercare un mezzo solido per uscirne. senza faccende. il proprio abbandono. eppure alla lettura si ha l’impressione di un tempo lunghissimo: l’effetto è creato dall’indugio descrittibo estrememente lento. Pascal. Il prrecettore finge di accettare il punto di vista del Giovin signore e del suo mondo. l'umor nero. il cruccio. L’unica cosa che può consolare l’uomo dalle sue miserie è la più grabnde delle sue miserie: la noia stessa. quali la Sera Esser debban tue cure apprenderai. Il discorso del “precettore” è fondato sulla figura dell’antifrasi. o a te scenda per lungo Di magnanimi lombi ordine il sangue Purissimo. alcuni secoli dopo.22 Il tema avrà dei risvolti interessanti. il Mezzogiorno e la Sera.stessi. il dispetto. dove non succede mai nulla di importante. E le adunate in terra o in mar ricchezze Dal genitor frugale in pochi lustri. Niente è insopportabile all'uomo quanto di essere in un completo riposo. nel tentativo illusorio di raggiungere una situazione di completo appagamento non genera certo felicità . degno di essere ricordato. Giovin Signore. privo di senso e dominato dalla noia. che intendeva colpire attraverso la letteratura un’aristocrazia ormai svuotata di tutti i valori che prima la contraddistinguevano. perciò gesti semplici e banali. ma di una giornata tipo. Avverte allora il proprio nulla. Quai dopo il Mezzodì. il proprio vuoto. cioè la sua vacuità frivola e insuslsa e dietro l’ironica enfasi celebrativa e alle spalle delle della figura servile del precettore Parini smaschera una classe sociale che non è capace di dar senso alla propria vita. Oltre ad essere un tempo lungo è anche un tempo vuoto in cui si ripetono monotonamente gli stessi genti. o in te del sangue Emendino il difetto i compri onori. senza divertimento. celeste. Così l’impostazione narrativa vale a rendere il senso di un mondo vacuo. che sì lungo. Quali al Mattino. Il Giorno rientra esteriormente nel genere didascalico (come il De rerum natura): Parini afferma di voler insegnare al Giovin signore come riempire le sue giornate oziose e noiose. Me precettor d’amabil rito ascolta. la tristezza. come ad esempio un particolare trattamento dello spazio e del tempo. Subito saliranno dal profondo dell'animo suo la noia. 22 B. tedio E fastidio insoffribile accompagna. come bere una tazza di caffè. di condividerne i gusti e i giudizi. senza un'occupazione. Bompiani 2006 . dal risveglio sino al tramonto. la propria insufficienza. eguale a tutte le altre. La poesia di Leopardi non nasce solo da un senso di inadeguatezza alla realtà. che ben folle è quegli Che a rischio de la vita onor si merca. in questi versi. E tu naturalmente il sangue abborri. Fan le capaci volte echeggiar sempre Di giovanili strida. Il tema del Taedium vitae ha con Leopardi il culmine della sua drammaticità. Parini. unito alla precisione scientifica tipica del Parini. dietro al velo dell’ironia. che intende insegnare al nobile aristocratico il modo di riempire i giorni vuoti e noiosi della sua vita. Ma nessun piacere fugace goduto dagli uomini è capace a soddisfare quest’esigenza e così nasce in lui un senso di vuoto e di insoddisfazione perpetua. Essa ha voluto. Già l’are a Vener sacre e al giocatore Mercurio. che altro non è se non il mistero dell'Essere. dolore universale e insieme profondamente intimo e personale. In van te chiama Lo Dio dell’armi. il dolore per la morte e soprattutto per la morte intesa in senso materialistico. il dolore per lo sfiorire rapido e inavvertito della giovinezza. Il Giorno. Cangiate in mostri e in vane orride larve. Il giovane è sazio dei bordelli e delle case da gioco e respinge con orrore l’idea di dedicarsi alla armi e allo studio. sin dalle origini. il desiderio (dal latino sidera. egli in molte parti della sua opera tratterà di questo argomento. che va a sfociare nella noia. Al centro della produzione leopardiana vi sta la consapevolezza dell’infelicità dell’uomo. divisa e preda di dominazioni straniere. Ma il pessimismo non cancella il bisogno. l'Italia. nel vuoto esistenziale. Né i mesti de la dea Pallade studj Ti son meno odiosi: avverso ad essi Ti feron troppo i queruli ricinti. lo scorrere inesorabile del tempo. (G. Ove l’arti migliori e le scïenze. e l'Autore quasi se ne vergogna. la sua incapacità ad intraprendere delle occupazioni che dovrebbero esserle propire. L’uomo è. è inteso a colpire la corruzione e l’inutilità della classe aristocratica. ma il piacere stabile e definitivo. si presenta come un amabile precettore.Se in mezzo a gli ozj tuoi ozio ti resta Pur di tender gli orecchi a’versi miei. identifica la felicità col piacere sensibile e materiale. nel cosiddetto pessimismo cosmico tratto fondamentale della sua poetica. senza intenti moralistici o didascalici. per cui anche il "naufragar" può essere "dolce in questo mare". L’uso di un linguaggio alto e raffinato vuole sottolineare l’intento parodico dell’autore. come possiamo notare negli autori precedenti. ritornando sui suoi passi. vv1-32) Il poeta. necessariamente infelice. ma ha diverse vesti: il dolore per la propria patria. per lo meno nella prima fase della sua produzione è concepita da Leopardi come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature. Il tema del dolore appartiene sia al Leopardi che scrive lo Zibaldone che a quello dei Canti. per sua stessa costituzione. ma soprattutto da un dolore che è motore primario del fare poetico. Restando fedele ad un indirizzo sensistic. latineggiante. Ma l’uomo non desidera un piacere. per Leopardi. ne le Gallie e in Albione Devotamente hai visitate. Il brano inzia con un linguagio aulico. e porti Pur anco i segni del tuo zelo impressi: Ora è tempo di posa. Eppure da questo dolore traspare a volte l'avvertimento di un senso del destino come realtà positiva. Or primamente Odi. offrire alle . Egli arriva a ravvisare la causa prima dell’infelicità dell’uomo in alcune pagine fondamentali del suo Zibaldone. quali il mattino a te soavi Cure debba guidar con facil mano. Ma la natura. di sproporzione fra reale e sovrannaturale. infinito per estensione e durata.. dunque. stelle) di infinito insito in ogni uomo. Questo preambolo. come termine ultimo della vita. La massima parte degli uomini trova bastante occupazione in che che sia. e l'universo . erano più forti fisicamente e moralmente. per dir così. Di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia. e quando è del tutto disoccupata. ma rientra nel piano stesso della natura.sue creature un rimedia all’infelicità: l’immaginazione e le illusioni. la vede dominata dall’inerzia e dal tedio. invece. immaginarsi il numero dei mondi infinito. Comune è l'essere disoccupato. Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni. ovvero la sua malattia. Il progresso della civiltà e della ragione ha spento ogni slancio magnanimo e ha reso i modani incapaci di ogni azione eroica. Muta. ma nondimeno il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena. Non che io creda che dall'esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne. La natura è vista come causa del nulla e della noia. L’epoca moderna. era concepita come assenza di piacere in una dimensione psicologica ed esistenziale. perché ignoravano la loro condizione. considerare l'ampiezza inestimabile dello spazio. con la sua filosofia. Più può lo spirito in alcuno. e bastante diletto in qualunque occupazione insulsa. La natura mira alla conservazione della specie e per questo fine può anche sacrificare il bene dell’individuo e generare sofferenza. Questa concezione caratterizzerà tutta la produzione successiva al 1824. Per questa ragione gli uomini primitivi e gli antichi greci e romani. Pensiero LXVII) e La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. però. e fanno il volgo talvolta maravigliare e talvolta ridere. Non bisogna scordarsi. Il destino dell’uomo. Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. in modo da opporre un efficace rimedio al dolore. l’epoca moderna è egoista e disumana. penosa e terribile. in termini sensistici. ora l‘infelicità è causata da mali esterni a cui nessuno può sfuggire. che l’uomo è votato sempre e comunque all’infelicità e che la felicità antica era solo un dono della natura. La natura ha dato all’uomo un desiderio di felicità infinita. quando parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di parole. L’uomo deve perciò rendersi conto di questa realtà di fatto e contemplarla in modo distaccato e rassegnato. l’infelicità degli uomini è inevitabile indipendentemente dalle coordinate spaziali e temporali. dalla terra intera. con la sua scienza. grazie alle quali posso levare gli occhi dalla misera condizione in cui versano. e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio. non annoiato. Egli oscilla tra la necessità di appartarsi da un mondo che sente estraneo per immergersi nel proprio universo interiore ed il bisogno di consolare ed essere consolato. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita sull’antitesi tra natura e ragione tra modernità ed antichità. col suo progresso conduce gli uomini verso l’infelicità. Gli antichi nutriti di generose illusioni erano capaci di azioni eroiche e magnanime. Questa concezione della natura vista come una madre buona e dispensatrice di utili doni entra in crisi. che erano più vicini alla natura e quindi capaci di illudersi e di immaginare erano più felici. In questa fase non ci sono reazioni titaniche perché Leopardi ha capito che è inutile ribellarsi. Ne si deduce che il male non è un semplice accidente. ma che bisogna invece raggiungere la pace e l’equilibrio con se stessi. il numero e la mole maravigliosa dei mondi. come un saggio che pratica l’atarassia (per la dottrina epicurea "assenza di turbamento") e la lucida contemplazione del reale. è in fondo lo stesso per tutti. Leopardi reputa proprio la sofferenza la condizione fondamentale dell’essere umano nel mondo. né. Il taedium vitae è la noia che fa sentire l’uomo estraneo al mondo. arrivando perfino a dire che “tutto è male”. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. La condizione negativa del presente viene vista come un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. più la noia è frequente. soprattutto per l’Italia decaduta dalla grandezza del passato. che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita. o sfaccendato per dir meglio. non prova perciò gran pena. (Leopardi. così anche il senso dell’infelicità umana: prima. senza fornirgli i mezzi per soddisfarla. Cic. ma ricalcando la medesima opposizione. E’ pena del sentirsi vivere. e sotto Ogni clima. vv 70-87) Nel pellegrinaggio a cui lo costringe la necessaria ricerca di una condizione libera dalla noia. E non lo sguardo tenero. è il dramma di una ricerca senza oggetto. Peregrinando aggiunge. 2433-2434. che si vegga della natura umana. Non si può cambiare luogo per fuggire la tristezza dell’animo. avviando così una spasmodica ricerca di novità e di movimento: tutto il contrario della quiete agognata. XXII “vita vitalis”. Di due nere pupille. la noia sarebbe il male più comune. è assenza di ogni scopo. di essa si può dire che è il capovolgimento di quel massimo di passione che è l’entusiasmo e del suo fiorire: il sublime. e non la crolla Dolce parola di rosato labbro. Al conte Carlo Pepoli. tremante. . ogni confine Degli spazi che all'uom negl'infiniti Campi del tutto la natura aperse. di cui però la noia è l’esito infecondo e mortifero. per un verso. immota Come colonna adamantina. Canti. La più degna del ciel cosa mortale. assenza di ogni sentimento particolare. è il contrario della “vita vitale”23 è desiderio di felicità privo di appagamento e distrazione. si chiama indarno Felicità. Noia ed entusiamo condividono la medesima radicalità. incontro a cui non puote Vigor di giovanezza. Quindi la noia è sostanzialmente indeterminazione. che sia fuga dall’uniforme. salda. continuamente oscillante tra movimento e riposo. Proprio perché la noia è il più sublime dei sentimenti umani. per un altro verso. De am. Altri. Agli occhi di Leopardi il dramma dell’uomo sta tutto nel suo essere in-quietus. per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere 23 Zib. la noia è indicata come la più sterile delle passioni e come il più sublime di tutti sentimenti. ma il riposo si trasforma ben presto in tedio. In altri termini. e sentire che l'animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo. ogni ciel. e pochissimo o nulla agli altri animali.infinito. grave. vive tristezza e regna. e però noia. l’uomo incontra il suo ultimo confine il limite. sarebbe esclusiva delle anime più grandi. il caro sguardo. Con la noia la vita diviene insipida e perde ogni valore. siede Noia immortale. (Leopardi. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento. in cangiar terre e climi L'età spendendo. e sempre accusare le cose d'insufficienza e di nullità. La noia coincide con l’incapacità che le cose hanno di appassionare. Ahi ahi. Nell'imo petto. Leopardi. è un sentimento di un atto di essere che va a fare i conti con la finitudine della vita e degli enti. pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà. dall’uguale. (G. Pensiero LXVIII) La critica ha ravvisato due visioni leopardiane della noia. il medesimo sublime rapporto con una grandezza “senza norma”. inizia così un movimento. se. La noia è vuoto dell’anima e mancanza di piacere. e mari e poggi errando Tutto l'orbe trascorre. e patire mancamento e voto. s'asside Su l'alte prue la negra cura. quasi a fuggir volto la trista Umana sorte. cambiar clima ( qui viene in mente Il dialogo della Natura con Islandese: “mi posi a cangiar luoghi e climi. non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai. oh te beata Che la miseria tua. E pur nulla non bramo. Quando tu siedi all'ombra. sovra l'erbe. né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi. . sedendo. e fatta esperienza di quasi tutti i paesi. e di procurare la sola tranquillità della vita. Me. s'io giaccio in riposo. se non il meno che io potessi. infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. di non dar molestia alle altre creature. all'ombra. O greggia mia. L’esula non può fuggire / che da se stesso? Una preoccupazione viziosa. via di scampo dall’infelicità e la natura in quasisi luogo del mondo non provvede al bene della sue creature. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici. rappreso dal freddo verso i poli. ed uno spron quasi mi punge Sì che. ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco. io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell'agio. credo. Ogni estremo timor subito scordi. / sconvolge anche le navi da guerra e l’orda dei cavalieri). ozioso. perché cercando altre terre / cambiamo cielo. assimilabile alle Operette Morali( il poeta analizza il suo stato d’animo ed enuncia il proposito di dedicarsi interamente all’investigazione dell’acerbo vero). più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Quel che tu goda. o quanto. La cura (latinismo) s’annida sulle navi attraverso le quali si cerca di fuggire ( è una bellissima immagine oraziana: Carm II 16 18-22)24 alla propria infelicità. E gran parte dell'anno Senza noia consumi in quello stato Ed io pur seggo sovra l'erbe. lo stesso genere letterario delle Epistole di Orazio che abbiamo citato. Ch'ogni stento. sempre osservando il mio proposito. S'appaga ogni animale. (perché forti a tante cose miriamo / in un breve tempo. che provoca tempste. E non ho fino a qui cagion di pianto. afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria. il tedio assale? 24 Quid brevi fortes iaculamur aevo multa? Quid terras alio calentis sole mutamus? Patriae quis exul se quoque fugit? Scandit aeratas vitiosa navis cura nec turmas equitum relinquit. Non c’è. però.offeso. Tu se' queta e contenta. La situazione esposta è del tutto simile a quella tratta nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia nei versi 105-132: O greggia mia che posi. Questo canto. ogni danno. E un fastidio m'ingombra la mente. è un’epistola in versi. Non so già dir. e non godendo non patire…” e “Quasi tutto il mondo ho cercato.”) perché la noia e il male risiedono in qualsiasi luogo della terra. Ma più perché giammai tedio non provi. Quindi la vita con la noia nonvale la pena di essere vissuta. Il dolore stesso. così veemente. da un tedio che io provo. Nel Canto notturno al pastore. e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. Operette Morali. ancora del corpo. ma tutti i sentimenti. si vive. ma vedere. anche. quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale. non è mai vanità.) Vediamo come in entrambe le opere si ripresenti sempre lo stesso termine: fastidio. da un certo non solamente conoscere. come se punto da uno sprone. una candizione da cui allontanarsi presto. per porre fine alla vita spesa tra le vanità delle cose. volgerommi indietro. la qual nasce sempre dalla vanità delle cose. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia vv 105-132) L’uomo aspira al tutto o al nulla e si rivolge alla luna supponendola fornita di quella conoscenza suprema. rimote dalla ragione. ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. in qualunque maniera. La noia compare anche in un’altra lirica leopardiana: Il passero solitario. parlo di quel dell'animo. alla noia riducasi. ovvero che io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita. E nessuna cosa è più ragionevole che la noia. sono (per un modo di dire strano. gustare. Porfirio si rende conto che tutto ciò che accade in una giornata è vano e anche gli stessi piaceri lo sono. Canti. Ma sconsolato. ella è di poca realtà o di nessuna. non inganno. Ma ella nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa. si rivolge. il simile della speranza. (G. Che parrà di tal voglia? Che di quest'anni miei? che di me stesso? Ahi pentirornmi. la definizione di noia data nel Dialogo di Plotino e Porfirio: Anzi incomincerò io stesso. Leopardi. egli invece è costretto. poeta è contrapposta la greggia che trova pace e non ha alcun senso di noia. La noia porta a considerare la vita come un fastidio. a considerarla bene. e in lei consista. per le quali. Quando muti questi occhi all'altrui core. Il passero solitario vv 50-59) . e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro. Il tedio è un sentimento di malcontento che non dà requie all’uomo e lo tormenta da mattino a sera. Il simile dico del timore. I piaceri sono tutti vani. Leopadri. A me. se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro.(G. ed è meglio lasciarla subito. per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia. Dialogo di Plotino e Porfirio cit. sono. toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella giornata. Anche lo stesso dolore è vano è nulla poiché la sua causa ha poco valore. a cambiare luogo a essere inquieto. qual più qual meno. E qui primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Soltanto la noia non è vana. poi. Nell’operetta. Canti. Leopardi. Di maniera che non solo l'intelletto mio. mai non è fondata in sul falso. essendo tutto l'altro vano. che si assomiglia a dolore e a spasimo. E lor fia vóto il mondo. E’ bene ricordare. invece. e ti dirò che questa mia inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta. E si può dire che. questo fastidio divine la causa per il suicidio. (G. e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche sostanza. Solo la noia. alla greggia invidiandole il riposo che viene dall’incoscienza. e spesso. Sicché la vita umana. e donde un corpo si parte. così nella vita nostra non si dà vòto. non si annoia per niuna maniera. toltomi eziandio lo scrivere. non soddisfatto dal piacere. Alla condizione arida e disillusa dei tempi maturi è accostata la noia causata dalla caduta di ogni illusione e dalla consapevolezza dell’arido vero. come tu sai. Laddove in questa prigionia. non si dà vòto alcuno. annoverare i correnti. Così tutti gl'intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri. e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro. Il qual desiderio. Genio E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli. parte di noia. ridotto a notare per passatempo i tocchi dell'oriuolo.si veda la teoria del piacere. E però. Nell’operetta sono stati ravvisati dei mezzi con i quali poter superare lo stato di tedio che affligge Torquato Tasso rinchiuso nel carcere di Sant’Anna. e non offeso apertamente dal dispiacere. come nel mondo materiale. non è mai soddisfatto. Tasso In cambio di cotesta medicina. la quale anco è passione. Tasso Che rimedio potrebbe giovare contro la noia? Genio Il sonno. come quello a cui l'essere vacuo da ogni piacere e dispiacere. perché non ci reca diletto vero. delle occupazioni e dei sentimenti. ma comune di tutti gli uomini. alcuna diversità nel fastidio che ella ti .ma vi sono termini negativi). non altrimenti che il dolore e il diletto. e il piacere propriamente non si trova. e il dolore. Genio Non conosci tu dal primo giorno al presente. l'oppio. contuttociò la solleva ed alleggerisce. A me pare che la noia sia della natura dell'aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali. io mi accontento di annoiarmi tutta la vita. per modo di dire. La vecchiaia è l’età del vero ( e già lo si vede a livello lessicale. le fessure e i tarli del palco. come dicevamo poco innanzi. Per tutto il resto del tempo. tenuissima. io non ho cosa che mi scemi in alcun parte il carico della noia. trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza. si trova contenere qualche passione. La formulazione più bella e completa del tema della noia è Leopardi è stata fornita nel Dialogo di Torquato Tasso col suo Genio familiare. Genio Che cosa è la noia? Tasso Qui l'esperienza non mi manca. se bene non ci libera dalla noia. e composta e intessuta. parte di dolore. quivi ella succede immediatamente. E questo non è tuo destino particolare. così la noia penetra in quelli da ogni parte. in questa ultima parte dell’ultima strofa in cui sono cadute tutte le illusioni della giovinezza mancano termini vaghi e allusivi. e altro non gli sottentra. dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra. E questo è il più potente di tutti: perché l'uomo mentre patisce. condurre quasi tutte le ore a un modo. se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l'uso del pensiero. sono occupati dalla noia. perciò come l'aria in questi. Ma pure la varietà delle azioni. e li riempie. importa essere pieno di noia.Leopardi in questi versi rappresenta l’inaridimento sentimentale e fantastico della vecchiaia. considerare il mattonato del pavimento. radissima e trasparente. secondo i Peripatetici. Genio Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita? Tasso Più settimane. separato dal commercio umano. da soddisfare alla tua domanda. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità. l'animo considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo. è il più forte rimedio alla noia. breve. mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima. Schopenhauer pone una terza situazione esistenziale: la noia. e questa è l’immagine più bella che ci viene data della noia. Leopardi. Il piacere è una funzione derivata dal dolore che vive unicamente a spese di esso. la soddisfazione di questa brama è. Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare. non è indispensabile che vi sia uno stato di piacere affinché vi sia dolore. Tuttavia l’uomo non può mai raggiungere il piacere e resta sempre in preda alla noia nei momenti di intermittenza dal dispiacere. La brama è durevole. Di conseguenza la vita non è che un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia. e le esigenze tendono all'infinito: la soddisfazione è breve e avaramente misurata. che non sia alienante o dolorosa. più efficace del sonno e dell’oppio: l’uomo mentre prova dolore non sente la noia. ma questo non è valido al contrario. il male. l’oppio e il dolore. La soddisfazione vi mette un termine. Tale soluzione è il continuo cambiamento di luogo.reca? Tasso Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente. tuttavia tale soluzione non è definitiva. Egli afferma che la vita non è che la manifestazione di un’infinita volontà di vivere. gli uomini e le altre creature vivono solo per continuare a vivere. invece. Operette Morali. Anche lo stesso Tasso ha trovato una via di scampo dalla noia. anche se non è posto come soluzione alla noia. ma alleggerisce l’animo umano. e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero. Vi è un altro autore ottocentesco molto vicino a Leopardi per toni e contenuti: Schopenhauer. A questo proposito. che è una realtà durevole e al piacere che è qualcosa di momentaneo. L’aria della noia penetra nell’inconsistente trama dei piaceri vani. Ogni volere proviene da un bisogno. Leopardi già in un passo dello Zibaldone incomincia a vedere la noia come l’aria che riempie tutti gli intervalli degli altri oggetti. per di più. Il dolore è una costituente fisica dell’uomo. inconsistenti.) La noia è come l’aria che riempie gli spazi dell’esistenza lasciati vuoti dal dolore ( e qui ci viene in mente Schopenhauer). Ma l'appagamento finale non è poi che apparente: ogni . Il brano è un susseguirsi di immagini tenui e leggere. passando attraverso l’intervallo fugace. Essa riprende la levitas sencana. tale. Volere significa desiderare e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione per la mancanza di qualcosa che si ha e si vorrebbe avere. e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa. Perché vi sia piacere bisogna per forza che vi sia un precedente stato di dolore. per un desiderio appagato ve ne sono moltissimi altri inappagati. A confronto con gli altri autore e con le sue stesse opere qui il cambiamento di luogo non è apertamente condannato. Dal momento che il piacere non si può raggiungere la vita resta in preda al dispiacere o alla noia. Essa subentra quando vien meno l’aculeo del desiderio ( lo spron leopardiano) oppure il frastuono delle attività o il pungolo delle preoccupazioni. Non si può sfuggire al dolore. non occupata da altro e non isvagata. (G. esso rimarrà sempre e il piacere è soltanto momentaneo. poiché non esiste una soluzione vera. la coomutatio loci. cioè da una privazione. e per di più illusorio. entrambi hanno rappresentato il tedio attraverso immagini leggere e volubili. del piacere e della gioia. Questo stato di desiderio coincide con il dolore. cit. ma per un desiderio che viene soddisfatto. Il dolore. dal rarefarsi aereo di quelle riferite alla noia è scaturita un’immagine dei piaceri simili a ragnatele. ce ne sono dieci almeno che debbono esser contrariati. mi basta a farne tra me e me una gran diceria. Ma. ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine. anzi di cicalare. accanto al dolore. infinita. Come non ricordarsi della teoria del piacere di Leopardi. da una sofferenza. il motivo conduttore del nostro percorso intertestuale. che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando. In questa operetta si trovano delle soluzioni al male esistenziale della noia: il sonno ( il motivo del sonno consolatore sarà ripreso nell’operetta del Cantico del gallo silvestre). ove spesso si istituivano delle similitudini con essa. Dunque la sua vita oscilla. che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza. in una parola. La natura viene rappresentata per la prima volta nei poemi omerici. e nero subito il flutto/ si gonfia. e molta alga riversa lungo la linea del mare: / così l’animo era diviso nel petto di tutti gli Achei. che gli salva la vita oggi per prolungare i suoi tormenti sino all'indomani. per il cielo. / quando arrivano all’improvviso. è in realtà la stessa cosa. questa verità si rende manifesta in modo ancor più eloquente. è come l'elemosina che si getta a un mendicante. l'inquietudine di una volontà sempre esigente.desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio:il primo è una disillusione riconosciuta. Giovanni Cerri). τώ τε Θρῄκηθεν ἄητον ἐλθόντ' ἐξαπίνης· ἄµυδις δέ τε κῦµα κελαινὸν κορθύεται. dopo ricacciati nell'inferno dolori e supplizi. ora. nessun vero benessere è possibile. ὡς δ' ἄνεµοι δύο πόντον ὀρίνετον ἰχθυόεντα βορέης καὶ Ζέφυρος. Ogni volere si fonda su di un bisogno. [. le diverrebbero un peso insopportabile. (Trad.] Già nella natura incosciente. il secondo una disillusione non ancora riconosciuta. fra il dolore e la noia. / Zefiro e Borea che soffiano entrambi di Tracia. it. riempie ed agita incessantemente la coscienza. questa è la loro essenza. nel bruto e nell'uomo. Ad esempio nei versi 1-8 del nono libro dell’Iliade l’angoscia e lo sconvolgimento degli Achei sono riflessi attraverso l’immagine dell’onda nera del mare sconvolta che pesante si leva e riversa molte alghe sui lidi. Iliade IX vv 1-8)25 e ancora οὐδέ τί µοι περίκειται. suoi due costitutivi essenziali. siamo soggetti del volere. Inseguire o fuggire. ( A. non ci saranno concessi ne felicità duratura ne riposo. la sua essenza. a cura di C. costatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa. invadeva intanto gli Achei / un terribile impulso alla fuga compagna di fredda paura. che gli uomini. / come due venti diversi sconvolgono il mare pescoso. . 2-3 Il rapporto tra l’uomo e la natura. ὡς δ' ὄρνις ἀπτῆσι νεοσσοῖσι προφέρῃσι 25 I troiani così facevano guardia.. senza tranquillità. ἐπεὶ πάθον ἄλγεα θυµῷ αἰεὶ ἐµὴν ψυχὴν παραβαλλόµενος πολεµίζειν. Nessun voto realizzato può dare una soddisfazione duratura e inalterabile. par 38. / e da un immenso dolore erano presi tutti i migliori fra loro. non trovarono che restasse. Schopenhauer.. Volere e aspirare. una sete inestinguibile. niente all'infuori della noia. come un pendolo. Riconda). temer la sventura o anelare alla gioia. su di una mancanza. Finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà. πολλὸν δὲ παρὲξ ἅλα φῦκος ἔχευεν· ὣς ἐδαΐζετο θυµὸς ἐνὶ στήθεσσιν Ἀχαιῶν. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto. finché. (Omero. Il mondo come volontà e rappresentazione. Donde lo stranissimo fatto. su di un dolore: quindi è in origine e per essenza votato al dolore. finché ci abbandoniamo all'impulso dei desideri con la loro alternativa di timori e di speranze. in qualunque forma si manifesti. Ὣς οἳ µὲν Τρῶες φυλακὰς ἔχον· αὐτὰρ Ἀχαιοὺς θεσπεσίη ἔχε φύζα φόβου κρυόεντος ἑταίρη. πένθεϊ δ' ἀτλήτῳ βεβολήατο πάντες ἄριστοι. appena l’ha preso. era infatti quello di mantenere viva l'immagine degli eroi. ho passatoa far guerra giornate di sangue. (Trad. per la poesia greca. e nello stesso tempo "qualcosa di profondo. viene assieme. celato ai sensi". per gli scomparsi) ciò che non è più visibile.quello dei sentimenti interiori. 26 Né mi resta qualcosa dopo che tanto ho sofferto. è l'espressione di qualcosa che è nascosto. Giovanni Cerri) . per non dimenticarli. ἤµατα δ' αἱµατόεντα διέπρησσον πολεµίζων ἀνδράσι µαρνάµενος ὀάρων ἕνεκα σφετεράων. ciò che è morto: lo scopo del poeta. ὣς καὶ ἐγὼ πολλὰς µὲν ἀΰπνους νύκτας ἴαυον. la natura è vista come ostile alla natura umana. che non si vede. dall'altro è una forza (enérgheia) che agisce nel profondo di ciò che appare.µάστακ' ἐπεί κε λάβῃσι. / battendomi contro i nemici per le donne degli altri. l'unico sistema era la rappresentazione poetica. (Omero. nascosto. ni vis humana resistat vitai causa valido consueta bidenti ingemere et terram pressis proscindere aratris. la Natura per il greco è duplice nel senso dell'ambiguità: da un lato è ciò che appare. L'immagine naturale è a-lethe.quello della figura così come appare . hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis. quod super est arvi. quod late terrarum distinet oras. che è "uscito fuori". Per la mentalità greca. tamen id natura sua vi sentibus obducat. naturale . κακῶς δ' ἄρα οἱ πέλει αὐτῇ. Sarà proprio Aristotele a dare la sistemazione concettuale definitiva di questa concezione. Già dal verso 146 confuta che gli dei abbiano creato la natura per gli uomini. che già aveva dimenticato i significati originari delle parole. Per il greco omerico. che non-è-più-nascosto. Nel brano in questione. ma in quanto non più presente. Ma così facendo.l'altro non-evidente . tenent rupes vastaeque paludes et mare. non più evidente. inde avidam partem montes silvaeque ferarum possedere. la parola che rendeva presente l'immagine viva. A partire dalla similitudine. it. della poesia. Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint. la poesia scoprì che "l'evidente". lethe. per non dissolversi nel nulla. Nel libro V del De rerum natura sviluppa in modo chiaro il suo discorso sulla natura ribadendo che a ragione essa può essere definita madre perché ha dato origine ad ogni essere vivente. e qui si concretizza la critica al finalismo antropocentrico della poesia lucreziana. che andremo ad analizzare. / così anch’io ho vegliato tante notti insonni. ciò che è svelato. l'effettivo. La mancanza di una fede nell'al di là faceva della morte la fine di tutto. condizionati da un greco filosofico posteriore. del defunto. inde duas porro prope partis fervidus ardor adsiduusque geli casus mortalibus aufert. I vocabolari traducono "lethe" con "oblio" e "aletheia" con verità. / mettendo sempre la vita a repentaglio in guerra. principio quantum caeli tegit impetus ingens. e a lui non tocca mia nulla. si dimentica (l'oblio per i defunti. Iliade IX vv 321 327)26 La similitudine fu la prima tecnica linguistica alla base del pensiero astratto o filosofico: essa consiste molto semplicemente nel mettere a contatto tra loro due piani del significato: uno evidente . il Lethe è sì oblio. Dunque è una contraddizione solo apparente l'immagine di una "Natura" che è "l'evidenza immediata di ciò che ci circonda". nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa. / Come un uccello porta ai suoi piccoli implumi / il boccone. cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit. / né abbisognano di ninnoli. e a fendere la terra con un pesante aratro. ma se ne stanno distanti.. / o li guastano piogge e gelide brine. Tanta stat praedita culpa l’intrepretazione di questa breve sentenza posta a fine del verso in posizione enfatica è ababstanza controversa. Si tratta di difetti. / né cercano varie vesti a seconda del clima . et tamen inter dum magno quaesita labore cum iam per terras frondent atque omnia florent. / a chi costretto a patire in vita tanti mali. quando omnibus omnia large tellus ipsa parit naturaque daedala rerum. né occorre che alcuna / balia canti loro qualche ninna nanna. / Se volgendo le zolle di terra con il vomere / e domando il suolo non lo spingiamo a elargire frutti / nulla crescerebbe e nulal vedrebbe il sole. denique non armis opus est. / E crescono bene le greggi . non moenibus altis. / Poi due parti l’arido deserto e / il gelo tolgono ai mortali. (Lucrezio De rerum natura V 195-234)27 Lucrezio in questi versi dimostra che il mondo non è stato creato dagli dei per gli uomini. / ciò che rimane da coltivare. mancante di ogni aiuto vitale / non appena la natura lo getta dal grembo materno / sulla terra con grandi dolori. in luoghi sereni. di alte mura. / o il sole li arde etereo con eccessivo calore. poiché la terra stessa / e la natura creatrice producono tutto in granb copia per tutti. gli armenti. sponte sua nequeant liquidas existere in auras. qui sua tutentur. come un naufrago / sospinto da delle violente onde. come è giusto. / con un vagito lugubre riempie il luogo. le fiere. / e tuttavia ottenuti con grande fatica. . / una parte ingente la occuparono i monti e le selve abitate dalle bestie / una parte la possiedono le rupi e le vaste paludi / e il mare che vasto separa le rive delle terre. che conferiscono al brano un ritmo grave. se l’opera umana non / resisterebbe avvezza a gemere sul forte bidente. / proprio per poter sopravvivere.si non fecundas vertentes vomere glebas terraique solum subigentes cimus ad ortus. aut nimiis torret fervoribus aetherius sol aut subiti peremunt imbris gelidaeque pruinae flabraque ventorum violento turbine vexant. ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum. giace a terra / incapace di parlare. carenze? o di attegiamenti colpevoli nei confronti degli uomini? Tenendo conto della polemica in corso contro chi vede nelle cose umane un intervento divinoprovvidenziale ci sembra che la culpa sia imputata alla natua e la visione angosciosa delle 27 E se ignorassi quali siano i primordi delle cose / oserei confermare. ut saevis proiectus ab undis navita. Nelle prima righe emerge il clima cupo di tutta la trattazione grazie al massiccio uso di spondei. / o li schiantano raffische di vento con un improvviso turbine. praeterea genus horriferum natura ferarum humanae genti infestum terraque marique cur alit atque auget? cur anni tempora morbos adportant? quare mors inmatura vagatur? tum porro puer. dalla stessa fenomenologia celeste / e da molti altri fatti arguireche/ la natura non è stata creata da un dio per noi: / ha tante carenze nella sua stessa struttura. / che presidino le loro cose. quando già per lette sono rigogliose le fronde e tutto fiorisce. né hanno bisogno di armi. at variae crescunt pecudes armenta feraeque nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast almae nutricis blanda atque infracta loquella nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli. gli dei non intervengono provvidenzialmente nelle vicende degli uomini. nudus humi iacet infans indigus omni vitali auxilio. vagituque locum lugubri complet. / In primo luogo quanto spazio ricopre la grande volta del cielo. / e perché la natura sostiene e alimenta / per terra e per mare il genere delle ferici bestie / orribile e infesto all’uomo? / Per quale ragione una morte prematura imperversa? / Così un fanciullo. la natura / di sua spontanea volontà lo coprirebbe di rovi. Tutti devono prendere atto della finitezza della vita. atque etiam potius. si tibi non annis corpus iam marcet et artus confecti languent. non potius vitae finem facis atque laboris? nam tibi praeterea quod machiner inveniamque. Successivamente. mortalis. La requisitoria della natura. Nel dare voce alla natura. cur non ut plenus vitae conviva recedis aequo animoque capis securam. stulte. La piccola parte restante della terra necessita di molte fatiche per essere lavorata e per poter fruttare e quindi essere utile agli uomini. né vesti. L’aultimo verso restituisce generosità alla natura che è provvida per tutti gli esseri. La forza umana reagisce contro la terra che lasciata a se stessa si coprirebbe di rovi. che dopo Platone che diede la parola alle leggi nel Critone di personificazioni . tranne l’uomo. mittat et hoc alicui nostrum sic increpet ipsa: 'quid tibi tanto operest. Lucrezio si inserisce in una tradizione. non difendono i loro possedimenti. Negli ultimi versi viene contrapposta la situazione umana a quella delle bestie. visto come un naufrago sballottato dalle onde. ancora un’immagine della natura formente negativa. omnia si perges vivendo vincere saecla. Lucrezio accentua molto la fatica derivante dalla misera coltivazione della terra attraverso un abile uso di iperbati ed enjambements. che riescono a vivere feliceemente sulal terra senza bisogno di alcuna consolazione e o di alcun supporto. successivamente. attraverso la figura della prosopopea. quod nimis aegris luctibus indulges? quid mortem congemis ac fles? nam [si] grata fuit tibi vita ante acta priorque et non omnia pertusum congesta quasi in vas commoda perfluxere atque ingrata interiere. dalle selve e rnde impossibile la vita. La dimostrazione della culpa della natura si svolge in tre parti sacandite da dei nessi argomentativi. nihil est. giochi di allitterazioni. è contrassegnata da termini tecnici della lingua giuridica. anzi loro non hanno nulla a cui badare e di cui preoccuparsi. quietem? sin ea quae fructus cumque es periere profusa vitaque in offensost. Chi è prossimo a morire e ha già goduto la vita deve ritirarsi come un commensale sazio. in realtà si è reso la creatura più inadatta a viversi. Gran parte della terra è inospitale per gli uomini è dominata dal ghiaccio. L’uomo appena nato è. che avrà largo seguito nella letteratura latine ed europea. La dolce immagine ricorrente delle luminose regioni del cielo è qui deformata in un’ottica pessimistica. L’uomo sin dalal nscita si trova a patire dolori e tormenti.difficoltà esistenziali che si prospettano agli uomini fi dalla nascita siano proposte dal discorso lucreziano in un ottica di parte. assonanze a sottolineare la drammaticità della situazione. per la sua incapacità di limitarsi ai bisogni esistenziali che la natura soddisfaceva e per l’insaziabilità degli agi e dei possessi sempre nuovi. Tuttavia ciò che l’uomo strappa alla terra viene distrutto dalla forza della natura non curante degli sforzi. cur amplius addere quaeris. Denique si vocem rerum natura repente. chi ha vissuto tra i disagi non ha ragione di dover prolungare la sua vita. attrverso delle drammatiche domande retoriche. Non usano armi. In tutti questi versi si susseguono enjambements. calma e allo stesso momento gelida. non oggettiva. il poeta elenca i mali i vari mali da cui l’uomo si sente afflitto e che non avrebbero ragion di esistere in un universo creato apposta per gli uomini. eadem sunt omnia semper. rursum quod pereat male et ingratum occidat omne. il quale è sciocamente illuso che il mondo sia stato creato per lui. La natura stessa che regola il destino della vita e della morte è personificata in un brano del libro III. quod placeat. essa intenta una sorta di processo all’uomo del quale biasima il meschino attaccamento alla vita. eadem tamen omnia restant. si numquam sis moriturus' . Anche Leopardi si sofferma molto nella sua opera sul rapporto tra uomo e natura. che altro motivo forse non ha che l'essere esso un pensiero pensante. che nega la possibilità all’uomo di essere felice. tutte le cose tuttavia rimangono uguali / anche se vivendo cercassi di vincere ogni secolo / e anche di più se non fossi mai destinato a morire. perché non è data loro la possibilità di ritornare sulla terra. Natura Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture. tal quale la vedevano gli antichi: […] quell'albero. come lo sono tutte le poetiche "stabilite" e "saggistiche" degli scrittori che non hanno amato la filosofia. non riposi? / Se invece tutto ciò di cui ha goduto sono andate via / e la vita ti è venuta a noia. proprio per tale sua condizione li esorta a vivere in modo da non aver rimpianti. e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti… (Discorso sopra la poesia romantica). La persuasione dell’infelicità radicale di ogni essere vivente fa apparire vano ogni sforzo volto a migliorare le condizioni di vita. o stolto. quell'uccello. tutto da sé… (Zibaldone). sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Così nel brano si susseguono luoghi comuni alla filosofia classica come quello del banchetto ( si veda il Manuale di Epittetto) o i versi 118-119 della prima Satira del primo libro di Orazio o le Tuscolanae disputationes di Cicerone . trattone pochissime. qual canto. Di che natura sta parlando Leopardi? Per rispondere a questa domanda. cioè vivo. quella selva. La stranezza consiste in questo: nel giro di pochi mesi . purissima. quel monte. sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi.Leopardi scrive sulla "Natura": La Natura. tutte le cose sono sempre uguali. La voce della Natura qui è gelida e non dà nessuna via di scampo agli uomini e nessuna speranza. / Se a te il corpo non è marcito negli anni e gli arti/ spossati non languiscono. ispiratrice di illusioni. Anche Leopardi giunge alla consapevolezza che la natura non è fatta per gli uomini che la abitano. e non un sistema combinatorio di luoghi comuni. Quando io vi 28 E poi se la natura repentinamente prendesse parola / e a qualcuno di noi così muovesse un rimprovero: / “Che cosa o mortale è per te tanto importante. Superato il momento dell’esaltazione della natura quale madre benigna. Leopardi giunge a una concezione opposta: la natura vista come matrigna.fine del '17 fine del '18 . poi. Questi pochi versi di Lucrezio sono permeati di un pessimismo cupo e profondo: nella natura nulla è destinato a mutare e gli uomini saranno sempre in affanno a cercare di sfuggire al loro comune destino. … e in fatti la natura non si palesa ma si nasconde. che si collocano cioè alle origini della riflessione occidentale sulla Natura.(Lucrezio De rerum natura III 931-949)28 Nel grande meccanismo della natura tutto rimane uguale ed è destinato a ripetersi in un eterno ciclo di aggregazione e di disgregazione. Come punto di partenza di questo percorso sulla critica dell’antropocentrismo finalistico analiziamo la parte finale del Dialogo della Natura e di un Islandese. partiremo da due enunciati che appartengono alla cultura greca. / che ti lasci andare a così grandi tristezze / Perché temi la morte e piangi? / Infatti se la vita passata ti è stata gradita tutti i piaceri come / in un vaso incrinato non sono scivolati via e non sono scomparsi senza dare gioia / perché non ti allontani come un commensale sazio della vita / e con animo tranquillo. è la natura stessa che ci appare. . tal qual è. negli ordini e nelle operazioni mie. sarebbe cercare di dimostrare che la natura è […] [poiché] ogni volta che siamo di fronte a un ente di natura. La lunga riflessione di Leopardi sulla "Natura" si apre nel 1818 in un modo assai strano e problematico quasi come un segnale della profonda "stranezza" del pensiero leopardiano (nel senso di apparente contraddittorietà e oscillazione continua). in cammino. quell'Edifizio. perché cerchi di aggiungere / ciò che ancora morirà malamente e scomparirà senza che lo si possa godere / e non metti fine piuttosto alla vita? / Infatti non vi nulla di ciò che io escogiti o inventi / che ti possa piacere. e che non si interessa minimamente della loro felicità. La natura sta al di sopra della morte e della vanità delle azioni umane. Aristotele scrive nella Fisica: Ridicolo. bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi. e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me. tu stessa. io non me ne avvedrei. Leopardi. si tennero in vita per quel giorno. con grande instanza. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Islandese Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. e quel che distrugge. fetida.) . Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento. io non lo so. dicolo degli altri animali e di ogni creatura. Operette Morali. dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo. cit. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa. quelle tali cose. e narrano che un fierissimo vento. collegate ambedue tra sé di maniera. E finalmente. Dialogo della natura e di un Islandese. patisce. minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli. che io. almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato. non è egli dunque ufficio tuo. e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare. dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso. se io vi diletto o vi benefico. per tuo servigio? e. e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo. come fecero. o non fo quelle tali azioni. Islandese Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa. e divenuto una bella mummia. e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente. il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro. e di farti le buone spese. e contro tua voglia? Ma se di tua volontà. aperta al vento e alla pioggia. levatosi mentre che l’Islandese parlava. se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno. non ti si appartiene egli di fare in modo. fu poi ritrovato da certi viaggiatori. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti. schernire. ed alla conservazione del mondo. se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie.offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo. così rifiniti e maceri dall’inedia. che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese. e a poco andare è distrutto medesimamente. così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma sono alcuni che negano questo caso. che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio. Ora domando: t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente. non gode. colle tue mani. umida. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori. e questa mia gente. Natura Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione. e presone un poco di ristoro. dicolo di tutto il genere umano. per dilettarvi o giovarvi. amico. Egli. ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità. che ciascheduna serve continuamente all’altra. lo stese a terra. io non me n’avveggo. se non rarissime volte: come. ordinariamente. mi vi hai collocato. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. e senza mia saputa. e io per compiacerlo vi andassi. Ma poiché quel che è distrutto. quanto è in tuo potere. per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi. come credete voi. a questo replicherei: vedi. e non ho fatto. verrebbe parimente in dissoluzione. (G. e collocato nel museo di non so quale città di Europa. conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni. Luna Né bestie né uomini. obbiettive. approda a un materialismo assoluto e un pessimismo cosmico che abbraccia tutti gli uomini di tutti i tempi. io non ho compreso un’acca. non ha alcuna intenzione di provvedere al bene. che vedeva meglio di Linceo. Ma la Luna risponde che non vi sono né uomini né bestie. obbedisce a leggi meccaniche. colla punta delle quali ti vengo mirando. Anzi il dolore. a quel che io stimo. chiede ancora se non essendoci uomini vi siano delle bestie. La terra. Operette Morali. come io non conosco le tue. a uso di lumacone. che tu non conosci. Luna Delle tue corna io non so che dire. La natura fa il male degli uomini senza accorgersene. che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l’altre. che gli uomini chiamano monti e picchi. il mondo non è fatto per gli uomini. Leopardi giunge alla stessa drastica conclusione di Lucrezio: la natura. Terra Di che colore sono cotesti uomini? Luna Che uomini? Terra Quelli che tu contieni. in proposito. non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio. è così in curiosità che cerca di protendersi fisicamente verso la luna. L’infelicità non è dovuta solo a cause psicologiche ma anche a cause materiali alle leggi fisiche della natura che non sono benigne per gli uomini. che spandevano un bucato al sole. Terra Ma che sorte di popoli sono coteste? Luna Moltissime e diversissime. Gli uomini. ma non riesce a vedere se vi sia qualcosa o qualcuno. come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni. credono di essere al centro dell’universo e ignorano che sono ben poca cosa e la natura non si cura di loro. da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna. E già di parecchie cose che tu mi sei venuta accennando. la distruzione sono elementi essenziali di quel grande meccanismo che è la natura L’uomo si trova vittima di quel meccanismo di continua morte e rinascita e non può far nulla per scampare a quel suo destino fortemente connaturato nell’essenza stessa della vita. La Terra ha creduto di liberarsi dai suoi . anzi lei non ha mai sentito parlare di quelle creature. Non dici tu d’essere abitata? Luna Sì. un’intenzione. in lei non c’è un fine. La Luna è incredula perché non ha mia sentito parlare di uomini. La Luna risponde che sulla sua superficie vi sono delle forme di vita. e per questo? Terra E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.Leopardi. Dimmi: sei tu popolata veramente. degli uomini.) La terra chiede alla Luna se sia abitata da qualche essere vivente ( accennando così il tema dell’infinità dei monti già enunciato da filosofi come Lucrezio o Bruno). invece. in questa operetta. la terra ancora incuriosita chiede come siano fatte le creature che ivi abitano e le chiama uomini. Fatto sta che io sono abitata. non sa di che cosa si tratti. Dialogo della Terra e della Luna cit. ovviamente credendo che le categorie terresti si possano applicare anche al di fuori di essa. ne scoperse una volta certi. Terra Dunque mutiamo proposito. Leopardi. Questo tema è stato sviluppato con grande forza e ironia nel Dialogo della Terra e della Luna. (G. I difetti di gran lunga. poi. il naso. come se la stessa nozione di bestia non fosse inseparabile da una dimensione terrestre. Si. i pregi o i difetti? Luna. La rivoluzione astronomia agli occhi di Leopardi è parso l’evento più decisivo della storia del pensiero. La critica all’antropocentrismo si fa più dura in un altro punto dell’operetta. Leopardi. monna Terra.limiti concettuali ammettendo l’esistenza di bestie lunari. non è così importante. esse sono accumulate dal comune motivo della sofferenza. Dialogo della Terra e della Luna cit. la bocca. E generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici? Luna. Perdona. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue. in un modo negativo. (G. poiché è solo un granello di polvere abitato da degli esseri che credono di essere il fulcro di ogni cosa. Quali prevalgono ne' tuoi popoli. che lo ha portato a supporre l’esistenza di creature definibili solo negativamente (né bestie né uomini). che io non so dove me gli abbia. non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de’ tuoi popoli. Operette Morali. Di mali senza comparazione. ma solo entro i confini terrestri. e tu da questo conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. come io sono. perde il suo posto centrale nell’universo.) Un simile tema era stato esposto anche nel Copernico dialogo (sopra la nullità del genere umano). che scuoprono in me gli occhi. Ma in questo caso ha superato il topos tradizionale e ha rinunciato a descrivere comunità di primitivi non contatiti dalla civiltà o di giganti o animali concepiti secondo delle categorie umane. La grande rivoluzione segnata dal lento prevalere dell’eliocentrismo sul geocentrismo è rappresentata mitologicamente come se il sole avesse deciso improvvisamente di non muoversi più. che è universale e colpisce tutto ciò che esiste in qualsiasi forma e in qualsiasi luogo dell’Universo. Io dico di essere abitata. Il sole è stanco di ruotare attorno alla terra per poter scaldare “quattro animaluzzi che vivono in su un pugno di fango”. Il medesimo è qui. (G.) Leopardi ha seguito il procedimento tipico degli scrittori utopisti che consiste nel supporre l’esistenza di esseri diversi dall’uomo civile o dall’uomo stesso e perciò non turbata da alcun dolore. L’operetta si conclude. Leopardi. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose. Terra. che io non mi scambierei col più fortunato di loro. in questa mi sei conforme. Tanto infelici. alla conclusione che vi sono creature diverse che abitano ambienti diversi e queste creature sono sconosciute al di fuori dei luoghi in cui risiedono. Ti avverto che non sono. Gli uomini . però. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose. io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli. ciò a vale e a sottolineare la piccolezza dell’uomo. Se le creature terresti e quelle lunari sono diverse in tutto e non si possono pensare e descrivere attraverso comuni categorie. Terra. Terra. L’insistenza a negare gli attributi terreni della Luna va a sbaragliare la presunzione della Terra. Operette Morali. e tu consentendo che sieno altre creature. se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca. Terra. e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Vi è un radicale rifiuto dell’antropocentrismo. Ne risulta che il mondo dal punto di vista del sole è fortemente ridimensionato. come se la natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. di beni o di mali? Luna. Dialogo della Terra e della Luna cit. Essa viene messa di fronte alla realtà: la terra non sta al centro dell’universo e le sue creature non sono note in ogni parte dello Spazio. Di quali hai maggior copia. e di quei vermicciuoli che splendono. e per illuminare le strade. o proveggano in altro modo. se ne morranno tutti al buio. cammini ella e adoprisi per averla: che io per me non ho bisogno di cosa alcuna dalla Terra. lontane da me i milioni delle miglia. Sole. vuole ella che ci trovino i poverini? E a dover poi mantenere le loro lucerne. Sole. sarai della notte. prima che gli uomini ritrovino quel rimedio: e intanto verrà loro manco l'olio e la cera e la pece e il sego. Che se fosse già ritrovato di fare quella certa aria da servire per ardere. e le loro . sai che è? io sono stanco di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi. o provvedere tante candele che ardano tutto lo spazio del giorno. E al freddo come provvederanno? che senza quell'aiuto che avevano da vostra Eccellenza. se facciamo che ella corra. allora direi che il caso fosse manco male. è costretta a rinunziare alla propria centralità e ad ammettere la sua piccolezza ruotando attorno al sole. in capo a pochi anni.senza il sole che porta loro luce e calore sarebbero costretti a morire lentamente per mancanza di cibo e per il freddo. e non avranno più che ardere. che ella si affanni di continuo. e che se gli uomini vogliono veder lume. e non possono reggere al freddo. sono io la balia del genere umano. E che modo. se io debbo anco servir. per sopravvivere. è la più vicina a una rappresentazione teatrale) vi è una metafora molto tenera che rinvia al clima umile e famigliare del focolare domestico. che tengano i loro fuochi accesi. si perderà il seme di quei poveri animali: che quando saranno andati un pezzo qua e là per la Terra. non basterà il fuoco di tutte le selve a riscaldarli. le cantine e ogni cosa. le botteghe. che volendo la famiglia scaldarsi. in fine. sarà una spesa eccessiva. e tu e le tue compagne starete in ozio. non lo arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di non volere altra fatica per questo. Andranno a caccia delle lucciole. e spenta l'ultima scintilla di fuoco.) Nell’ultima battuta del Sole ( infatti questo dialogo . Se non sarai del giorno. Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di mezzo. di dover star dietro a una razza di animali così piccola. è ragionevole. Che importa cotesto a me? che. cercando di che vivere e di che riscaldarsi. a tastone. Per questo. che ella divenga del numero dei pianeti. che vivono In su un pugno di fango. ghiacciati come pezzi di cristallo di roccia. consumata ogni cosa che si possa ingoiare. Ma il fatto è che ci avranno a passare ancora trecento anni. Sole. perché io cerchi di lei. senza la luce mia? E poi. che eseguisca quel tanto. che io. poco più o meno. venga essa intorno del focolare. Metafora atta sempre a smorzare i toni e a rendere la terra più piccola. che cela una sostanza terribilmente seria. L’Operetta è tutto permeata di una profonda ironia. di stufa o di focolare a questa famiglia umana. Oltre che si morranno anco dalla fame: perché la terra non porterà più i suoi frutti. Ora prima. finalmente. Il sole si rifiuta di dover far da balia al genere umano. (G. tanto piccino. Eccellenza. non veggono. che si è fatto di qui addietro dagli altri globi. nelle mani di una natura spietata e terribile. sarebbero. E così. se alla Terra fa di bisogno della presenza mia. che gli abbia da stagionare e da apprestare i cibi? e che mi debbo io curare se certa poca quantità di creaturine invisibili. Operette Morali. e il tutto con poco dispendio. che non può neanche essere vista da lunghe distanze. Leopardi. né più né meno. che ho buona vista. Perché. e non che il focolare vada dintorno alla casa. come dire. che ella si voltoli. Ora prima. questo porterà seco che sua maestà terrestre. tra le Operette. dunque. La terra . Il Copernico dialogo cit. ovvero le Ore della notte faranno l'uffizio doppio. o forse il cuoco. le camere. che diritto hanno gli abitanti della Terra di considerarsi i detentori della vera religione? E come può la chiesa credere. non solo vorranno sedere ancor esse e riposarsi. in età moderna. dovranno sgomberare il trono. riguardo il senso della vita e dell’esistenza. Il Copernico dialogo cit. In questo universo infinito il Sole si trovava in un luogo qualsiasi e la Terra era un minuscolo pianeta come tanti altri. che solo a lei è stata rivelata la vera parola di Dio? Finché la Terra è creduta al centro dell’universo è quasi logico che Dio ci abbia concesso di conoscere la sua vera natura. che non sono poche. Ma nell’universo ipotizzato da Bruno. ciascuna i suoi propri. sorge spontaneo un interrogativo.) Nelle successive battute del dialogo Copernico e il Sole andranno a trattare del tema dell’infinità del mondi. vedendo che voi vi siete posto a sedere. Ma in tale universo. Ritornando al confronto col passo lucreziano sulla natura matrigna. Il Pastore si lascia andare ad un desolato lamento riguardo la condizione di sofferenza universale dell’uomo. restandosene però tuttavia co' loro cenci. condizione dalla quale non vi è via di scampo. fu il primo ad asserire l’infinità dei mondi e anche questo gli costò la vita. privo di luoghi privilegiati. Leopardi. quante saranno le stelle coi loro mondi. E qui non vi starò a dire del povero genere umano. simbolo della natura immutabile. Quindi. e colle loro miserie. sia lo stesso sole perderanno d’importanza. Ma ciò.maestà umane. e vedrà nascere ancora un altro scompiglio. se vi sono infiniti universi e soli. impassibile. Nel Canto notturno un pastore rivolge delle domande alla Luna. eterna. ognuno di essi poteva essere considerato il centro dell’universo. Così anche quello che diviene il centro del nuovi sistema perde di importanza. ma in trono. dico che per insino a ora voi siete stato. L’uomo sin dalla nascita prova pena e tormento e non si può far nulla per consolarlo. Ma pensi vostra signoria illustrissima un poco più oltre. Doveva esistere una infinità di mondi abitati. Operette Morali. se non primo nell'universo. Giordano Bruno. anzi. Il Copernico dialogo cit. vorrei proporre alla lettura dei brani stralciati dal Canto notturno e dalla Ginestra. ci hanno a essere i sudditi: però vorranno avere i loro pianeti. simili e dissimili dalla Terra. anche Lucrezio scrisse a proposito alla fine del libro II. Ma considerando solamente l'interesse vostro. contraddiceva la natura dello spazio copernicano. Essendo tutti i punti dello spazio copernicano uguali. atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in questo nuovo stato dell'universo avrete tanti uguali. (G. che in questo punto differisce sostanzialmente dall’universo di Copernico. come avrete voi. Bruno capì che non esisteva alcun motivo perché l’universo copernicano dovesse essere finito: il Sole poteva stare ovunque. era inutile. La nozione stessa di centro dell’universo. in maniera che non ci sarà una minutissima stelluzza della via lattea. divenuto poco più che nulla già innanzi. e non avete avuto nessuno uguale. dove la Terra è un insignificante granello di polvere. Operette Morali. Sicché guardate che questa mutazione che noi vogliamo fare. (G. a che si ridurrà egli quando scoppieranno fuori tante migliaia di altri mondi. perché . ma vorranno altresì regnare: e chi ha da regnare. concludeva Bruno. tutti gli infiniti pianeti hanno il medesimo diritto di considerarsi al centro e i loro abitanti hanno i nostri stessi privilegi. converrà che sieno anche abitati e adorni come è la Terra. Leopardi. non sia con pregiudizio della dignità vostra. e lasciar l'impero.) Il tema dell’infinità dei mondi è presente già nella filosofia con Democrito ed è divenuto centrale nelle riflessioni dei filosofi materialisti. Che le stelle. allora sia la terra. per Bruno. poiché la natura non può far nulla per alleviare le sofferenze umane. diviene piccolo e si ridimensiona. e che avete dintorno questa bella corte e questo popolo di pianeti. in rispetto a questo mondo solo. certamente secondo. I quali pianeti nuovi. e non già su uno sgabello. La teoria di Copernico pose il Sole al centro di un universo finito e sferico. non necessariamente al centro. poteva accadere solo in uno spazio infinito. in un universo infinito. che non abbia il suo. cioè a dire dopo la Terra. il sospirar. Nasce l'uomo a fatica. Leopardi. e vedi il frutto del mattin. Ma tu mortal non sei. che come primo atto terreno piange di dolore. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia vv 37-71) La luna potrebbe svelare tutte le domande riguardanti il mistero dell’esistenza. e forse del mio dir poco ti cale. l’autore latino rimane calmo e pacato nella sua argomentazione. invece l’autore italiano spezza il ritmo della poesia con laceranti domande retoriche. perché da noi si dura? Intatta luna. Vergine luna. questo supremo scolorar del sembiante. Pur tu. e consolarlo dell'umano stato: altro ufficio piú grato non si fa da parenti alla lor prole. questo viver terreno. è interessante notare come sia Lucrezio. che abbiamo enunciato all’inizio del primo percorso. che sí pensosa sei. Leopardi supera Lucrezio in drammaticità. perché reggere in vita chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura. eterna peregrina. E tu certo comprendi il perché delle cose. ma non essendo umana non lo fa. I due poeti descrivono come sia difficile la vita già dai primi momenti. amante compagnia. del tacito. solinga. qui si ritorna alle radici del pessimismo greco. (G. tale è la vita mortale. della sera. Anche Lucrezio arriva a dire che il nascituro sarà destinato a patire pene e sofferenze: cui tantum in vita restet transire malorum (v 227). e venir meno ad ogni usata. Canti. tale è lo stato mortale. infinito andar del tempo.bisognerebbe nascere se poi in vita bisogna soccombere sotto il peso del dolore. che sia questo morir. sia esso psicologico e . l'uno e l'altro il sostiene. alla natura non importa del dramma degli esseri umani. Prova pena e tormento per prima cosa. Ma perché dare al sole. e perir dalla terra. Tuttavia. che sia. sia Leopardi utilizzino l’immagine di un essere appena nato che è catapultato nel mondo del dolore e della sofferenza. e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene. e via pur sempre con atti e con parole studiasi fargli core. il patir nostro. come sia disagevole l’atto stesso della nascita. tu forse intendi. ed è rischio di morte il nascimento. Così gli affari e le sofferenze degli uomini sono piccole rispetto all’ordine dell’universo e delle natura. In questi versi. Cui la dura nutrice. l’unico progresso cui l’uomo può godere è l’accettazione della forza distruttrice della natura e la piccolezza dell’uomo. A ciò si oppone la ginestra. Leopardi. E’ negato ogni paesaggio idilliaco. (G. la natura è vista come una nutrice dura. obiettivazione sensibile del destino delle creature vittime della potenza edace della natura. Da qui una serena accettazione del fragile stato mortale. spietate. un ampio poemetto in cui convergono i temi e i toni più diversi in un’orchestrazione che si può definire sinfonica. Le estreme considerazioni sulla natura sono contenuta nella Ginestra o fiore del deserto. pronunciato con uno scetticismo ironico e amaro. primum Graius homo mortalis tollere contra . che abbellisce luoghi di morte e di distruzione. in questi luoghi deserti e aridi gli esseri umani sono denudati di ogni forza e si trovano inermi dinnanzi a ciò che non possono controllare. Canti. che richiama l’azione corrosiva del tempo e l’inesorabile perire di tutte le cose. La poesia si apre con l’immagine arida del Vesuvio dove riesce a sopravvivere solo la ginestra. Ai due poli dell’opposizione corrispondono tonalità e mezzi contrapposti. come in altri della lirica è sottesa una grande critica rivolta a chi da posizioni ottimistiche esalta l’uomo come creatura privilegiata e signore del mondo destinato a un futuro di straordinaria felicità. Non è possibile progredire e raggiungere una felicità. Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive. ov’ei men teme. si può dire che la ginestra. le “erme contrade” intorno a Roma. Con lieve moto in un momento annulla In parte. che esprime con forza la carica distruttiva della natura. Da qui anche l’ultimo verso: Le magnifiche sorti e progressive che è una citazione di una suo cugino: Terenzio Mamiani. La ginestra o fiore del deserto vv 41-51) La natura può distruggere gli esseri umani senza preavviso e senza sforzo. Bellissime le scelte lessicali. nella lirica vi regnano l’aridità e la sterilità del suolo vulcanico. terribile e altrettanto suggestivo è il verbo annichilare ( vi vaga ascendenza lucreziana). come nei versi della strofa successiva si può leggere una critica a tutta la sua società contemporanea e a tutta la filosofia ottimistica (questa critica viene mossa anche da Schopenhauer nei confronti del sistema filosofico ottimistico di Hegel). il fiore del deserto rappresenti la pietà verso la sofferenza degli esseri umani perseguitati dalla natura. una novella età dell’oro. Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra29 29 Riferimento lucreziano. l’immagine di desolazione ed abbandono.fisico. I versi dedicati alla ginestra sono caratterizzati da una delicata musicalità. ai versi 65-67 del libro I: horribili super aspectu mortalibus instans. …E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell’uman seme. Qui. musicalità che costituisce il linguaggio della pietas. L’immagine del monte distruttore e dei deserti di cenere e di lava tende a una sublimità grandiosa e orrida. Il paesaggio si specifica in tre quadri: il “formidabil monte” in cui si concretizza l’immagine della natura distruttrice. le “ceneri infeconde” e l’ “impetrata lava” immagini di morte. e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Canti. le nostre stelle O sono ignote. ancor più gravi D’ogni altro danno. un punto Di luce nebulosa. E poi che gli occhi a quelle luci appunto. La vista del cielo stellato provoca nel poeta una meditazione sulla nullità della terra e dell’uomo nell’universo. e quando miro Quegli ancor più senz’alcun fin remoti Nodi quasi di stelle. in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente. Nulla al ver detraendo. E sono immense. a cui L’uomo non pur. e conversar sovente Co’ tuoi piacevolmente. e poi dall’altra parte. ai saggi insulta Fin la presente età. a cui non l’uomo E non la terra sol. Ch’a noi paion qual nebbia.Al comun fato. Del numero infinite e della mole. La ginestra o fiore del deserto vv 111 -125) Nella strofa quarta l’io lirico del poeta entra in contatto con la natura brulla del vulcano in un paesaggio notturno e osserva la grande volta celeste. ma dà la colpa a quella Che veramente è rea. Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E il basso stato e frale. il qual di terra ha nome. e che i derisi Sogni rinnovellando. accresce Alle miserie sue. . nè gli odii e l’ire Fraterne. Quella che grande e forte Mostra se nel soffrir. al pensier mio Che sembri allora. che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. o così paion come Essi alla terra. Leopardi. o prole Dell’uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù. (G. ma questo Globo ove l’uomo è nulla. di cui fa segno Il suol ch’io premo. Che te signora e fine Credi tu data al Tutto. e che con franca lingua. ma tutte in uno. Ch’a lor sembrano un punto. che in conoscenza est oculos ausus primusque obsistere contra. dell’universe cose Scender gli autori. e quante volte Favoleggiar ti piacque. l’uomo incolpando Del suo dolor. in questo oscuro Granel di sabbia. Sconosciuto è del tutto. Con l’aureo sole insiem. giungendo a conclusioni simili a quelle del Copernico. Per tua cagion. Ed in civil costume Sembra tutte avanzar. Quando la possiede l’uomo diviene saggio e felice. (G. sottolineare ancora una volta tutta la forza distruttrice della natura. D’un popol di formiche i dolci alberghi. Cui là nel tardo autunno Maturità senz’altra forza atterra. invece quando non la . ricoperse) in cui il polisindeto sottolinea la rapidità fulminea delle fasi. infusa Di bollenti ruscelli. Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina. O pel montano fianco Furiosa tra l’erba Di liquefatti massi E di metalli e d’infocata arena Scendendo immensa piena. Schiaccia. Le cittadi che il mar là su l’estremo Lido aspergea. o qual pensiero Verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietà prevale. La ginestra o fiore del deserto vv 167 -201) La critica alla società attuale e comunque a tutte le filosofie positive si fa asprissima. Lucrezio trova una soluzione ai mali dell’uomo. e l’opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l’assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo. infranse. Leopardi. Canti. Dall’utero tonante Scagliata al ciel profondo. Canti. La ginestra o fiore del deserto vv 202-226) La sesta strofa è tutta costruita su un grandissima similitudine e vuole. Il sentimento che prevarrà nella poesia sarà quello della pietà. diserta e copre In un punto. su un granello di polvere (viene in mente l’atomo opaco del male dell’Assiolo di Pascoli) per prendersi cura del genere umano piccolo e inconsistente. Come d’arbor cadendo un picciol pomo. Mortal prole infelice. qual moto allora. Il poeta si trova indeciso se ridere per la stupidità degli altri uomini che credono di stare al centro dell’universo o aver pietà di loro poiché credono di essere al centro dell’universo. A questo frutto viene paragonato il flusso di lava che scaturisce dal vulcano e distrugge ogni essere umani che si trovi sulle pendici di esso. Il frutto che a noi sembra piccolo e insignificante per i piccoli animali è letale. Il semplice processo di maturazione fa precipitare senza alcun sforzo a terra un piccolo frutto che va a distruggere il nido delle formiche costruito con grande fatica. E’ stolto colui che crede che gli dei siano scesi sulla terra. Leopardi. confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: … (G. che è la conoscenza razionale dei fenomeni fisici che governano il mondo. così d’alto piombando. La dinamicità della scena è data da un ampio movimento sintattico (vv212-226) che va a precipitare in tre rapidi versi principali (confuse. Cavati in molle gleba Con gran lavoro. ma vi ha aggiunto la sua immaginazione poetica . nulla ritorna al nulla. in cui la conoscenza del mondo dienta dissoluzione della compattezza della materia. La negazione del finalismo dell’universo e in generale di ogni ordine che non consista nella semplice distribuzione delle parti materiali nello spazio. La struttura atomica della materia. invece da precise condizioni genetiche. in un passo di estrema bellezza.àtomos -. Questa materia è in realtà composta di atomi sottilissimi e invisibili. Il materialismo metodologico. di alcuni sensiti e di numerosi positivisti dell’ottocento. Eschilo. unione di ἄ . La dimostrazione che nulla ridona al nulla è parallela e opposta alla precedente dimostrazione. Per questo proposito nulla nasce dal nulla. Per Leopardi tutti gli uomini soffrono e la natura in nessun luogo consola gli uomini alleviando i patimenti della vita. Il termine materialismo fu usato per la prima volta da Robert Boyle nel 1674. Sempre e comunque l’uomo soffre. senza mai distruggerlo completamente. ambientali. indivisibile. Tale brano. Il materialismo psicofisico che è quello che ammette la stretta interdipendenza dei fenomeni psichici con quelli fisici. il nostro poeta cerca di spiegare l’esistenza degli atomi e di giustificare la loro invisibilità. climatiche che permettono l’unione fecondatrice dei semi: i primordia rerum.[alfa privativo] + τοµή tomé . poiché gli atomi sono indistruttibili (dal greco ἄτοµος .[divisione]). Sulla scorta dei poeti e dei filosofi antichi ( Anassaogora. che si identifìca con l’atomismo filosofico. I capisaldi della teoria atomistica vengono esposti da Lucrezio nei primi due libri del poema. nell’età moderna in quelle di alcuni illuministi. su questa base. distinguere quattro tipi di materialismo (senza contare il materialismo storico marxiano): il materialismo metafisico o cosmologico. tale principio. Cos’ come nulla nasce dal nulla. Il materialismo cosmologico è caratterizzato dalle seguenti tesi: il carattere originario o inderivabile della materia. tanto che il brano ( che verrà presentato) è stato considerato uno dei più belli del poema. La natura disgrega ogni essere nei suoi elementi costitutivi. l’opera di Lucrezio si basa su ciò che infinitamente piccolo e leggero. che deriva dall’ignoranza delle vere cause dei fenomeni naturali. La presenza nella materia. agli atomi.si ha sii tende a vivere senza uno scopo e senza una ragione soffrendo e dolorando. era accettato da tutti i filosofi antichi. quindi neli atomi. che precede ogni altro essere e ne è la causa. presente nel secondo libro è stato definito da molto critici il capolavoro dell’immaginery lucreziana: l’utilizzo di imamgini per esemplificare dei concetti astratti di difficile comprensione. In questa forma il materialismo si è presentato nelle dottrine di Democrito ed Epicuro. cioè il sensismo. secondo Aristotele. La riduzione dei poteri spirituali umani alla sensibilità. 2-4 Il materialismo tra Lucrezio e Foscolo. La tenebre dell’ignoranza e della superstizione devono essere sconfitte dalla conoscenza razionale delle leggi della natura. secondo il quale l’unica spiegazione possibile dei fenomeni è quella che fa ricorso ai corpi e ai movimenti. ogni dottrina che attribuisca la causalità soltanto alla materia. come non sarebbe necessario se essi nascessero dal nulla. Il termine designa. Sopportando la natura matrigna tutti gli uomini si dovrebbero unire senza sprecare il loro tempo in vane lotte. I versi dal 146 al 158 del libro primo collegano la fisica all’etica. essendo il concetto della creazione spontanea estraneo al razionalismo greco. in generale. Come affermava già Calvino. Per la crescita e il pieno sviluppo degli esseri occorre tempo. La nascita di ogni cosa dipende. Si possono. Il nostro poeta ha sicuramente desunto tale concezione filosofica da Epicuro ( Sulla fisica e Lettera ad Erodoto 39).a . la crescita e la morte degli esseri ai semina rerum. Nelle sue ultime pagine il poeta di Recanati allenta il suo pessimismo e cerca di reagire al dolore della vita. l’unico rimedio che può fare è resistere come la ginestra che si lascia travolgere dalla lava del vulcano. Il materialismo paratico quello che riconosce nel piacere l’unica guida della vita. Questo principio fondamentale esclude l’atto creatore di una volontà divina e libera dal preconcetto dell’intervento degli dei. Euripide) Lucrezio parte dalla concezione del cielo padre che tramite la pioggia feconda la terra madre per giungere. poi. attraverso una serie di . la prima della quali è che nulla mai si genera dal nulla. di una forza capace di farli muovere è combinarsi in modo da farli muovere e combinarsi in modo tale da dare origine alle cose. Nei versi successivi attribuisce la nascita. mortali corpore quae sunt. ex oculis res quaeque repente erepta periret. haud igitur possunt ad nilum quaeque reverti. hinc fessae pecudes pinguis per pabula laeta corpora deponunt et candens lacteus umor uberibus manat distentis. . si penitus peremit consumens materiem omnem. haud igitur redit ad nihilum res ulla. quod si in eo spatio atque ante acta aetate fuere e quibus haec rerum consistit summa refecta. quorum contextum vis deberet dissolvere quaeque. inmortali sunt natura praedita certe. quod nunc. Praeterea quae cumque vetustate amovet aetas. incolumi remanent res corpore. quae partibus eius discidium parere et nexus exsolvere posset. hinc laetas urbes pueris florere videmus frondiferasque novis avibus canere undique silvas. nulla vi foret usus enim. at nitidae surgunt fruges ramique virescunt arboribus. quae res diverberet ictu aut intus penetret per inania dissoluatque. donec vis obiit. aeterno quia constant semine quaeque. sed omnes discidio redeunt in corpora materiai. tactus enim leti satis esset causa profecto. inter se quia nexus principiorum dissimiles constant aeternaque materies est. at nunc. aut redductum daedala tellus unde alit atque auget generatim pabula praebens? unde mare ingenuei fontes externaque longe flumina suppeditant? unde aether sidera pascit? omnia enim debet. nam siquid mortale e cunctis partibus esset. nullius exitium patitur natura videri. inter se nexus minus aut magis indupedita. dum satis acris vis obeat pro textura cuiusque reperta. haud igitur penitus pereunt quaecumque videntur. Huc accedit uti quicque in sua corpora rursum dissoluat natura neque ad nihilum interemat res. crescunt ipsae fetuque gravantur. hinc alitur porro nostrum genus atque ferarum. unde animale genus generatim in lumina vitae redducit Venus. nisi materies aeterna teneret. al concetto della continuità della natura con una lucidità che richiama il sensismo. hinc nova proles artubus infirmis teneras lasciva per herbas ludit lacte mero mentes perculsa novellas. ubi eos pater aether in gremium matris terrai praecipitavit.efficacissimi quadri. infinita aetas consumpse ante acta diesque. postremo pereunt imbres. quippe ubi nulla forent aeterno corpore. Denique res omnis eadem vis causaque volgo conficeret. / la natura non sopporta vedere alcuna fine. / Non del tutto muoiono le cose che si vedono / quando la natura ricrea qualcosa da qualcos’altra. / Inoltre qualsiasi cosa cancelli il tempo per la vecchiaia / se estingue e consuma del tutto la sua materia / donde Venere riduce le specie animali per razze alla luce / o dove. / Infine la stessa forza e la stessa causa apertamente distruggerebbe / tutte le cose. / Se qualcosa fosse mortale in ogni sua parte / qualsiasi cosa rapita dagli occhi morirebbe immediatamente. vuol dire che sono eterni e quindi. / il cui intreccio una forza adeguata dovesse distruggere. qui la novella prole / lasciva gioca per le tenere erbe con gli arti ancora infermi / con le giovani menti inebriate dal latte puro. In realtà essere. / quiu gli stanchi armenti pingui / si distendono sui lieti pascoli e mandano dagli uberi ricolmi / il candido umore del latte. / Infine le piogge si disperdono quando il Padre cielo / le fa precipitare nel grembo della madre terra. (Lucrezio De rerum natura I 215-264)30 La dimostrazione nel complesso è abbastanza rigorosa e non priva di qualche pesantezza didascalica nella gestione delle prime tre prove. fornite per assurdo e in un modo abbastanza schematico (come dimostra. ma solo la sua disgregazione. La quarta prova racchiude in sé tutta la capacità poetica di 30 A questo aggiungi che la natura disgrega ancora qualsiasi cosa / nei suoi elementi essenziali e non riduce le cose al nulla. menzionata nella prima prova. poiché esistono connessioni diverse di atomi / e la materia è eterna. se non in seguito alla morte di un altro essere. se non le tenesse la materia eterna / connessa a se stessa con più o meno vigore.quando alit ex alio reficit natura nec ullam rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena. La terza prova riprende la prima (come la quarta riprenderà la seconda). al momento di concludere insiste sul fatto visivo. I 82). / Quindi nessuna cosa ritorna al nulla. / Non avrebbe bisogno di alcuna forza che dalle sue parti / possa disgregare e scioglierne i legami. si disgregano gradualmente per opera di una forza che vi penetra dall’esterno. Gli antichi credevano che nel mare vi fossero delle sorgenti dette ingeui (da in privativo e genuo generare). qui. La morte di un essere non è che la disgregazione degli atomi che lo compongono. Ma negli ultimi versi la fantasia del poeta s’accende e anima i versi con immagini desunte da osservazioni dirette della realtà. perché solo così essa li può disgregare. poiché tutte le cose consistono di atomi eterni. e ora. In natura non esistono cose. Aeterno…semine l’iperbato tende a ad allargare ed ad accentuare il concetto espresso. / E ciò ora. / Ma ora. poiché la materia è eterna. / certamente sono dotati di natura immortale. Tale concezione dell’αἰθήρ (zona che arde) può essere stata ripresa da Platone o Aristotele. ma tutte / per la dissoluzione ritornano sotto forma di atomi. / fino che vi giunga una forza che disgreghi le cose con un colpo. che morendo. deve essere proporzionata alla capacità di coesione degli atomi. che sono costituite di elementi eterni. sarebbero strappate ex oculis. Lucrezio afferma che. ma si conserva. la terra industriosa / alimenta e accresce per razze gli armenti offrendo lieti pascoli? / Dove le fonti vergini e i fiumi lontani / alimentano il mare? Dove il cielo ristora le stelle? / tutto il tempo infinito delle età e dei giorni / deve aver estinto tutte le cose fornite di un corpo mortale. Se gli esseri scomparissero del tutto con la morte non ci sarebbe bisogno di una forza disgregatrice. dopo averli ricondotti. Si quid introduce un periodo ipotetico dell’irrealtà che è richiesto dall’argomentazione per assurdo. / qui si alimenta il nostro genere e quello delle belve / qui vediamo le città liete fiorire di fanciulli / le frondose selve risuonano ogni dove per il canto dei giovani uccelli. La seconda prova dimostra che la materia delle cose disgregate non va perduta. / E se in questo tempo e in passato ci furono dei corpuscoli. ma molto probabilmente è mutuata da Epicuro (Lettera a Pitocle 93). infatti se così non fosse. scompaiono improvvisamente. la natura non permette che si veda la fine di alcun essere. le cose non potrebbero più esistere perché mancherebbe la materia per farle rinascere. / Il semplice tatto sarebbe causa di morte. / né sopporta che alcuna cosa venga creata. che gli esseri non periscono nel nulla. se le cose morendo scomparissero del tutto. / che vi penetri e lo dissolva nel vuoto. ma . / e spuntano le fresche messi e i rami verdeggiano / sugli alberi crescono e sono gravati dal peso dei frutti. / poiché non vi sarebbero corpuscoli tanto eterni. non c’è la scomparsa totale di un essere. anche la ripetizione dell’ assunto di base alla fine di ogni gruppo di versi). . / dai quali questa somma di cose consiste ricreata. Si notino gli arcaismi tipici lucreziani v240 (indupedita per inpedita cfr. Nel passo notiamo il tipico stile argomentativo lucreziano: scarno e oggettivo. La forza in questione. le cose rimangono in un corpo incolume /finché una forza abbastanza violenta va a collidere contro i vincoli di ciascuno. La logica conclusione ribadisce la tesi che si voleva dimostrare: se gli elementi costitutivi dei vari esseri hanno resistito al passare del tempo. Gli antichi credevano che le stelle trassero dall’etere il loro elemento costitutivo (bellissimo l’uso del verbo pascere). La stessa di cui il poeta si avvalse al momento di tradurre alcuni excerpta del poema latino. ha permesso di «ricostruire finalmente per intero quel “progetto” lucreziano» accarezzato dal Foscolo: il quale.n e[kuse gai'an ktl. genera gli uomini e le stirpi degli animali e per questo a ragione è stata considerata la madre di tutto. difficilmente ci spiegheremmo la lunga lista di luoghi foscoliani per i quali la critica ha da tempo identificato o fondatamente supposto ora possibili ascendenze lucreziane.tazione meccanicistica dell’universo che esclude qualsiasi teodicea). non si accontentò di conoscere il De rerum natura per il solo tramite del suo intermediario seicentesco. accolte le umide gocce. Della religione lucreziana). Il fantastico mito delle nozze del cielo con la terra era diffuso tra i filosofi (Anassagora) e poeti (Eschilo Fr. Ma ciò che più importa sottolineare in questa sede è l’esistenza di quei saggi di traduzione che il poeta appose. ora generiche consonanze tematiche e lessicali tra i due testi. 44 Nauck 1ss r. il quadro dei rapporti intrattenuti dal Foscolo con il De rerum natura si è fatto sensibilmente più sicuro e dettagliato. Il Foscolo. nela quale la morte di una cosa coincide con al nascita d’un’altra. perché in realtà la natura riaggrega in nuovi esseri le componenti minime che sembrano venir meno. il De rerum natura fu il viatico privilegiato verso una conoscenza meno superficiale dei temi cardine della dottrina epicurea (l’atarassia. ora vere e proprie allusioni e riprese puntuali del De rerum natura. la dottrina del piacere catastematico. Il rinvenimento. Questo passo appena analizzato è forse quello che ha lasciato maggiori tracce nelle opere di Foscolo. è il miracolo delle gocce d’acqua che sono andare a morire nel grembo della terra. fanno prosperare uomini e città floride contribuendo al ciclo perenne della natura. Da un fatto drammatico quale la morte (Lucrezio usa il verbo perire) si ha un tripudio di vita.~ oujrano. con una concentrazione maggiore nella lirica e nei Sepolcri. . gai'an lambavnei gavmou tucei'n: o[mbro~ d` ajp` eujnavento~ oujranou' pesw. La conclusione del brano si riferisce in particolare all’ultima prova adottata. quella. In questa sede ci limiteremo ad osservare due passi rispettivamente tratti dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis e dai Sepolcri. ma naturalmente investe tutto il brano: nulla perisce mai completamente. proprio tra il 1802 ed il 1803. Unico fra i passi tradotti ad avere ricevuto una doppia redazione è l’episodio della giovenca (II 352-366). La terra vastissima e l’etere di Zeus: questo è padre degli uomini e degli dei. non fu mai intrapreso.Lucrezio: le piogge si disperdono solo apparentemente nella terra. Se così non fosse. ma compulsò direttamente l’originale latino: e non già in una qualunque antologia ad usum scholarum. prolegomeni ideali a un lavoro sistematico di traduzione e commento al poema che. contenente alcuni saggi autografi e inediti di traduzione da Lucrezio.n aJgno. 32 Tum pater omnipotens fecundis imbribus Aether coniugis in gremium laetae descendit et omnis magnus alit magno commixtus corpore fetus. dunque. È stato osservato come. disseminate lungo un arco temporale che dall’Ortis del 1802 giunge sino alle Grazie (1813). insieme a note varie ed emende ortografiche. compose i tre celebri discorsi in prosa di argomento lucreziano (Della poesia lucreziana. di fatto. e[rw~ de. come marginalia alla versione lucreziana del Marchetti. il lettore quasi distoglie la sua attenzione dal fatto drammatico e la rivolge sui quei quadretti classicamente armoniosi. Questo tema delle piogge i cui atomi si trasformano in corpi diversi sarà ripreso nei versi 875-878 del libro secondo. reso celebre 31 ejra'i me. in realtà esse alimentano messi e frutti. Da una ventina d’anni a questa parte. l’interpre.31 e Virgilio georighe II 325 32732 ). Ma per il Foscolo il De rerum natura rappresentò qualcosa di più del semplice medium poetico con cui addolcire l’amara dottrina del Giardino. nell’evoluzione poetica e filosofica del Foscolo. ma nella pregevole edizione commentata del Reverendo inglese Thomas Creech. negli anni Ottanta. De’ tempi di Lucrezio.~ trw'sai cqovna. di un esemplare della traduzione del Marchetti appartenuto al poeta. Quello che possiamo leggere nella versione foscoliana è però un Lucrezio quantitativamente ridotto: quasi «ritagliato e arrangiato» a misura del traduttore. La compatta freddezza del ragionamento si libera nell’armonia di scene campestri e idilliache. e rivolgendomi intorno io cerco. .Ma poi dico: Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure. vale a dire la negazione di ogni valore superiore. La società apparve allora come un bellum omnium contra omnes una guerra di tutti contro tutti. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? . Io guardando da queste Alpi l'Italia piango e fremo. Ho vagato per queste montagne. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. 770-790). decisamente più fedele alla lettera dell’originale. . illusoria. e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a' destini. Jacopo. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime.dalle imitazioni virgiliane e ovidiane: di questo brano il poeta approntò due distinte versioni. le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. non erba.Là giù è il Roja. passività. ma Foscolo non riuscirà mai a superare queste visoni materialistiche. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis la posizione materialista emerge in modo chiaro nella lettera da Ventimiglia. non tugurio. Mi sono fermato su quel ponte. né trovo più la mia patria. Noi argomentiamo su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell'immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita normale. una in endecasillabi – conosciuta sin dall’Ottocento – ed una in prosa. L'universo si controbilancia. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero. in parte corredate da appunti a piè di pagina. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze. che ne scaturisce può generare indifferenza. e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire. A questo pessimismo contribuisce anche un’altra componente filosofica. un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi. son questi! ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. che lo inducevano a credere nell’originaria credenza nella malvagità dell’uomo. Così grido quand'io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano. che proveniente dalla cultura sensistica settecentesca. sopore di sepoltura. in perenne conflitto con gli altri uomini per poter imporre il suo dominio. 418-422.Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi. ma il pessimismo. aspri e lividi macigni. a queste posizioni è il possedere una concezione eroica della vita capace di ricuperare la dimensione ideale dell’esistennza. Tutto è bronchi. e invoco contro agl'invasori vendetta. e per quelle fauci invade il Mediterraneo.Che pace? stanchezza. nelle sue peregrinazioni per l’Italia. e qua e là molte croci che segnano il sito de' viandanti assassinati. A questa seconda tipologia rispondono poi le traduzioni di alcune sezioni del III libro (1-248. o trafficati come i miseri Negri. ma non eccitamento dell'antico letargo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa. o Italia. Proprio la vista dei confini gli suggerisce una serie di considerazioni pessimistiche sulla storia e sulla natura. ma le sciagure derivano dall'ordine universale. Non v'è albero.da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana. non solo. Però a Foscolo è ben presente il rischio di tali posizioni. le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. pajono talvolta gravi di straordinarie vicende. I tuoi confini. e caccia da questo suo regno tutti i viventi. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell'altra. e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista. e l'intelletto. ma la mia voce . e la voce. appena si vedono imposte su le cervici dell'Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde . il materialismo. La posizione di pensiero di Foscolo abbraccia le componenti più aspramente pessimistiche di Machiavelli e di Hobbes. ideale. L’unica soluzione. Alfine eccomi in pace! . e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie: poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia. come l’autore stesso ebbe ad ammettere. sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi. i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. fatalismo. e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi. è giunto a Ventimiglia l’estremo confine occidentale del Paese. finché un'altra forza non la distrugga. necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano.si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati. le madri. La Terra è una foresta di belve. i diluvj. prima derisi come frenetici. sappiamo compiangerli e soccorrerli. Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali sciagure della umanità. E perché l'umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra. che dopo avere sperimentati tutti gli errori. e gli uomini. finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri. Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. de' Costantini. manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. cercavano oltre a' mari e a' deserti nuovi imperi da devastare. e la peste sono ne' provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l'abbondanza per l'anno vegnente: e chi sa? fors'anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro. quando i Romani rapivano il mondo. e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti. fu dall'Oceano portato a contaminare d'infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. a cui se' caro. oh quanto sangue d'innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America. e de' Papi.tu ami . decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch'essi credono lor propria. e le astuzie di chi vuole regnare. de' Vandali. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan. e de' fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de' volghi si stimano saliti tant'alto per proprio valore. e dopo morte deificati. sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje. li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano della stessa religione e nipoti de' medesimi antenati. La fame. Abbandonato da tutti. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti. de' capisette. incatenevano principi e popoli liberissimi. Eccoti il mondo. si corrucciava che non vi fosse un altro universo. non chiedi tu ajuto dal . e dopo avere passando arsa gran parte della terra. manomettevano gl'Iddii de' vinti. de' Neroni. i furori. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. e sentiti tutti i guai della vita. e che fanno de' loro teschj sgabello al trono di chi la compie. allora sono obbediti e temuti. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de' conquistatori: e opprimono le genti con le passioni. e sono cieche ruote dell'oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura. e i figliuoli del popolo di Giuda. Lorenzo. Tu o Compassione. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de' Cesari. sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e sventurati. e sovente come malfattori. crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province. lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. Così Alessandro rovesciò l'impero di Babilonia. Sorgono frattanto d'ora in ora alcuni più arditi mortali. e niuno avrà compassione di te. ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose.te aspetta una turba di miseri. soli elementi dell'uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico . Questa è la razza degli eroi. in noi. non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto. per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo.dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse. e che forse sperano in te . poiché chi ha rubato per poter sfamarsi è mandato a morte. o mie selve.Ah no! Io tornerò a voi. Questo vale a dire che nessuna nazione può durare in eterno nel suo apogeo. come d’altronde nella Ginestra di Leopardi. ma non si accorgono che sono solo dei piccoli ingranaggi. L’altra opera dove compare in modo molto chiaro il pessimismo di Foscolo è il carme Dei Sepolcri. mentre chi ha commesso delitti e ingiustizie in virtù della sua posizione non viene punito. e ci consideri come i vermi e gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi. i massimi valori umani sono usati con astuzia da chi comanda. Si è ben lungi dalle immagine amene ed idilliache delle lettere del 14 maggio. La natura rappresentata in questa lettere da Foscolo sembra riflettere lo stato d’animo per personaggio del suo romanzo. che prime udiste i miei vagiti. l’anima dell’uomo entra in contatto con una natura minacciosa e per questa ragione viene elevata. ma le loro azioni sono determinate in modo “meccanico” da un “ordine naturale”. Così Jacopo mette a nudo anche tutti coloro che avendo avuto un po’ di fortuna sono riusciti a diventare eroi e condottieri. inaccessibile agli esseri umani. per poter governare con ingiustizia e durezza. O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati.Cielo? non t'ascolta. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie . L’unica virtù possibile è la compassione. ma che gl'interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto. ma all'are domestiche. Il paesaggio è aspro brullo. udirete il mio ultimo lamento. E giunge così a formulare una sentenza di gran pessimismo: la terra è una foresta di belve dove ognuno tende a cacciare il suo vicino.voi sole. avvenuta il 5 . Quindi. il mio spirito doloroso sarà confortato da' sospiri di quella celeste fanciulla ch'io credeva nata per me. ogni fede in un dio è vana. o sacre terre. Subito emerge la sua posizione materialista quando afferma che gli uomini non sono artefici del loro destino. dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti. questo è un ciclo che ha interessato tutti i popoli e tutte le nazioni sin dalla comparsa delle prime società organizzate. le infermità.va. La giustizia non ha più alcun valore. la prospettiva antropocentrica nella prospettiva geocentrica tende a ridursi notevolmente. Frattanto la virtù e la giustizia. Tale paesaggio è lo sfondo perfetto per le riflessioni estremamente pessimistiche di Jacopo riguardo la situazione politica dell’Italia all’epoca di Napoleone. Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis cit. poiché gli dei sono solo delle costruzioni umane atte a sopportare la durezza della vita. se null'altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte . La prospettiva storica in Foscolo non manca mai. insignificanti. e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? . Ogni speranza di concordia tra i popoli e le nazioni è frantumata. e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui . Inoltre tali costruzioni umane sono spesso usate dai vincitori per mantenere il controllo (questa visone ricorda molto quella marxiana della religione come oppio dei popoli). di un grande orologio che è l’”ordine universale”.e se le passioni vivono dopo il sepolcro. (U. Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri. Poiché tutto è vestito di tristezza per me.) Il brano citato si apre con un’immagine paesaggistica. poco avanti fa un’ampia digressione storica per affermare che ogni nazione sorge sulle ceneri di un’altra. dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Lo spunto per la composizione del carme fu dato al Foscolo dall'estensione all'Italia. la Natura sembra quasi che scacci ogni essere vivente. Ogni consolazione metafisica. che occorre che un paese soccomba affinché un altro cresca. dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate. prostrati. perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle. Vi prevale il sentimento del sublime. Il Foscolo si era trovato presente ad una di queste discussioni nel maggio del 1806 nel salotto veneziano di Isabella Teodochi Albrizzi e aveva affrontato il problema con Ippolito Pindemonte. né piú nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell'amore. I cimiteri. Alla morte contrappone l’illusione di una sopravvivenza dopo la morte che si attuerebbe in diversi modi. che stava lavorando ad un poemetto. L'estensione del decreto all'Italia aveva acceso vivaci discussioni sulla legittimità di questa legislazione di impronta illuministica che era contraria alle tradizioni radicate nel nostro paese. Questa grande slancio civile distingue il Carme dei Sepolcri dalla poesia cimiteriale inglese. ma non dal punto di vista teoretico. Più tardi. qual fia ristoro a' dí perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben. del culto dei morti e del ricordo perpetuo delle loro virtù. né da te. lo aveva contraddetto con considerazioni scettiche e materialistiche. All'ombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove piú il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d'erbe famiglia e d'animali. riesaminando la questione da un altro punto di vista. con il quale intendeva riaffermare i valori del culto cristiano. Ne era nata una disputa perché il Foscolo. in quell'occasione. Pindemonte! Anche la Speme. unico spirto a mia vita raminga. dell'editto napoleonico di Saint-Cloud (1804). Importante a questo proposito anche il contatto con la natura che si instaurerebbe attraverso l’ombra che un’arbore amica farebbe alla tomba.settembre del 1806. era nata in lui l'idea del carme che aveva voluto indirizzare “per fare ammenda del mio sdegno un po' troppo politico” al suo interlocutore di una volta. Dal punto di vista affettivo attraverso la tomba che preserverebbe la memoria del defunto all’azione edace del tempo. Durante la permanenza in Francia il Foscolo aveva infatti avuto occasione di seguire tutto un filone di discussioni che si erano sviluppate sull'argomento tra il 1795 e il 1804 e che tendevano alla rivalutazione dei riti e delle tradizioni funerarie. che stabiliva le regole per gli usi cimiteriali: oltre a proibire la sepoltura dei morti all'interno del perimetro della città. Così Foscolo opera un’ampia digressione storica dove prende in analisi i diversi modi di concepire il sepolcro nelle diverse civiltà. Numerosi sono in quest’ultima parte del carme gli echi omerici e lo stile si fa alto e sublime. Il ricordo delle persone defunte deve ingenerare nei vivi un desiderio di emulare le grandi azioni del passato. il valore civile della tomba sarebbe legato al ricordo di antiche istituzioni che vedevano in essa un altare per perpetuare il ricordo di un defunto illustre. . Foscolo nel Carme sembra superare dal punto di vista pratico la visione materialistica della morte come morte dell’anima. Le tombe sono anche un sinonimo di civiltà. udrò piú il verso e la mesta armonia che lo governa. Però. Alla funzione delle tombe di serbare la memoria si affianca quella della poesia. dolce amico. Da ciò nasce la forma esterna del carme che si presenta come un'epistola poetica al Pindemonte. permettendo una corrispondenza d’amorosi sensi. Quindi le tombe dei grandi debbono essere dei modelli d’azione per coloro che sono vivi. anche le tombe sono soggette al tempo distruttore essendo essere materiali. stabiliva per ragioni democratiche che le lapidi dovessero essere tutte della stessa grandezza e le iscrizioni controllate da una commissione apposita. Nell’opera si scorge il punto terminale della ricerca del superamento del nichilismo a cui avevano portato la delusione storica e il crollo delle speranze rivoluzionarie di fronte alla realtà dell’Italia post napoleonica. e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l'ore future. 35 E già vicino ai limiti Del tempo i piedi e l'ali Provan tra lor le vergini Ore. La morte non è che un momento di un ciclo naturale di perpetua trasformazione. L’instancabile moto della natura che travaglia tutte le cose è un concetto d’impronta lucreziana. Queste posizioni che escludono ogni idea religiosa di vita dopo la morte soo ribadite da Foscolo con assoluta convinzione: sono le idee in cui si è formato e costituiscono la base della sua visione della realtà. che a noi mortali Già di guidar sospirano Del secol. La continua trasformazione della materia non permette nemmeno la sopravvivenza del ricordo poiché cancella ogni traccia dell’esistenza. Però esse non lo soddisfano più interamente e le sostiene non più con lo slancio fiducioso e polemico che aveva nutrito il pensiero settecentesco ma con l’attegiamento dislluso edi chi si deve rassegnarsi dinnanzi a un’amara realtà. 34 αὐτόµαται δὲ πύλαι µύκον οὐρανοῦ ἃς ἔχον Ὧραι. che matura il primo dì. Molti critici (Gavazzeni) hanno ravvisato un collegamento diretto tra i versi 19-22 con i versi I 262-266 del De rerum natura. Inno ad Apollo 194-199) e Pindaro (Olimpiche IV 1-4) tra i moderni è utilizzato da Parini (Per l’inclita Nice. in aeternam clauduntur lumina noctem. l’immagine delle ore che danzano è d’origine remota: risale ad Omero (Iliade V 749-75134 . Foscolo. (U. τῇς ἐπιτέτραπται µέγας οὐρανὸς Οὔλυµπός τε ἠµὲν ἀνακλῖναι πυκινὸν νέφος ἠδ' ἐπιθεῖναι. . Il morto non può trarre alcun conforto dalla tomba poiché non sente più nulla. e l'uomo e le sue tombe e l'estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo. Dei Sepolcri vv 1-22) Il poeta ribadisce le tesi materialistiche dalle quali dovrebbe discendere l’indifferenza per le tombe. A queste suggestioni si legano echi virgiliani (Eneide X 745-746)33 . in cui la materia di un essere disgregandosi va a formare altri esseri. e una forza operosa le affatica di moto in moto.ultima Dea. fugge i sepolcri: e involve tutte cose l'obblío nella sua notte. L’incipit del testo è affidato a una patetica interrogativa retorica. 103-108. 33 olli dura quies oculos et ferreus urget somnus. espediente tratto dall’Elegy written in a country churchyard del Gray. Isella35 ). Stefano Biancu. Milano. MANFRED LENTZEN Taedium vitae. Milano 1987. 4. Operette Morali. Firenze. N Abbagnano. Loescher editore Torino 1971. 1993. Milano. Elena Sada. 1977 Seneca de tranquillitate animi a cura di Marzia Mortarino e Gisella Turazza. Einaudi.A. Dalzell). Italo Calvino. C Sini. Letteratura latina. l'elegia d'amore. Baldi. Leighton D.V. Lirici greci (Vol. Feltrinelli. 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