Simboli,riti,_monumenti_ciclopici_e_giganti_da_Gobleki_Tepe_alle_necropoli_neolitiche_sarde_e_tosco-lazialiN.pdf

June 9, 2018 | Author: Giorgio Lecchi | Category: Documents


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Simboli,riti, monumenti ciclopici e giganti da Gobleki Tepe alle necropoli neolitiche sarde e tosco-laziali I simboli che gli antichi rappresentavano sui diversi monumenti e i riti che praticavano, fin dalla notte dei tempi, hanno, spesso, catturato l’attenzione sia di studiosi che di curiosi appassionati, forse, nel vano tentativo, di poter carpire i segreti delle civiltà che li eseguirono. Lo scopo del seguente articolo non è, sicuramente ,quello di aver la pretesa di penetrare i reconditi significati che si nascondono dietro la rappresentazione di un totem o di una stele a T ,anche se un tentativo di interpretazione va comunque fatto ma quello di fare un'analisi comparativa di monumenti e simboli connessi, a volte, a rituali ancestrali, che possono sembrare ,di primo acchito, lontani anni luce e distanti migliaia di chilometri ma che, a conti fatti, sono molto più vicini di quanto sembri, facendo accrescere dubbi, domande ,su come la nostra civiltà si sia evoluta, su chi è intervenuto e come, a dare la svolta, l’imprinting culturale e genetico alle nostre origini. Voglio partire da Gobekli Tepe, non tanto perché è la scoperta del secolo, simbolo che la fantasia e la “fantarcheologia”, come amano chiamarla molti archeologi attuali, a volte, supera il "non possibile” il "ma non può esistere",il "non è scientificamente plausibile "che dei poveri raccoglitori –cacciatori(non essendo ancora sedentari e, di conseguenza, non essendoci i presupposti per poter affrontare tali opere)elevino delle stele di di 4-7mt di altezza e di 2-3 mt di larghezza, del peso di decine di tonnellate nel 10.000A.C.”sovvertendo, al momento, i termini di causa ed effetto precedenti alla scoperta, quanto per il fatto che iniziamo a trovare dei monumenti con dei simboli che saranno presenti in diverse altre civiltà. Su alcune ci soffermeremo in particolare, anche se non basteranno queste poche pagine per esaurire l'argomento, ma spero, almeno, che ciò serva per porsi delle domande e per instillare il seme del dubbio. In questo sito, posto tra la Siria e l'Anatolia, abbiamo il primo megalitismo, le prime pietre “conficcate” nel terreno in circolo che ritroveremo in Europa, in diversi siti neolitici, i primi muri fatti con pietre a secco che, anche se non “ciclopici” (stele in calcare a parte di dimensioni notevoli e finemente lavorate, senza l’ausilio del bronzo ) segnarono l’inizio di una tecnica tipica dell’Anatolia e della Mesopotamia del nord, quella che, millenni dopo, permise la costruzione di mura ciclopiche delle varie città siro-anatoliche fino ad arrivare a Micene, Tirinto, alle italiane Baranta, Alatri, Orbetello e tante altre. E’ un volo pindarico che però ci permette, forse, di capire, da dove arrivano certe strutture e simboli che, a rigor di logica, non si riescono a spiegare . Non è che nel mezzo non ci sia più nulla, abbiamo una “continuità, un succedersi di civiltà che dimostra che certe strutture (impensabili per quei tempi), non nascono dal nulla ma che c’è una lunga linea evolutiva inframmezzata da alcune scoperte eccezionali (agricoltura e metallurgia in primis) che sono state il propellente per ottenere simili risultati. Continuità che troviamo con la cultura di Tell Halaf dove vediamo le prime strutture a Tholos, con il periodo di Ubaid e il successivo Uruk; un iter evolutivo che travalica i confini territoriali, dando anche un senso logico a strutture che non avrebbero senso di esistere senza tale percorso formativo che ha sperimentato tutti i tipi costruttivi, dai primi mattoni di fango alle grandi pietre megalitiche finemente lavorate. Per cui le successive mura ciclopiche di Tilmen Huyuk, Alaca Huyuk, Hattusa nel paese degli Hetei(Ittiti) non sorgono per caso, ma sono il risultato di precedenti influenze portate dagli Hatti, dagli Hurriti, dagli Armeni discendenti di quelle civiltà che derivano da Gobekli e Catal Huyuk. Concentriamoci ora su quelli che sono i punti focali dell’articolo. Sono presenti su alcune stele di Gobekli Tepe dei bassorilievi che ritroveremo nelle successive culture neolitiche.

Immagini delle stele di Gobekli tepe

Oannes (uomini pesce) con cestello che è presente anche nella stele di Gobekli Abbiamo una delle prime rappresentazioni del Toro, che apparirà in maniera quasi ossessiva a Catal Huyuk. Inoltre vediamo anche la figura di una dea madre con un fallo in atto penetrativo, ma come per il toro, non possiamo parlare ancora di un vero e proprio culto, almeno allo stato attuale delle cose. Di solito vanno di pari passo uno paredro dell'altra. Una cosa curiosa sono i monoliti giganteschi a T che dovrebbero rappresentare degli uomini, due sono collocati al centro di queste opere circolari, come dei portali giganteschi e dodici lungo la circonferenza. Sembrerebbe un grosso orologio stellare, uno zodiaco, vista anche la quantità di animali rappresentati nel sito, che, secondo alcuni studiosi, rappresenterebbero delle costellazioni. Per il fisico Giuglio Magli il sito sarebbe orientato verso Sirio, stella di grande rilevanza per diverse antiche civiltà. Già, quindi,10.000 anni prima di Cristo si parla di culto delle stelle, di pianeti, di un osservatorio astronomico oltre che di un luogo per la venerazione degli antenati che dovrebbero essere rappresentati da queste enormi T, trovate simili, migliaia di anni dopo, a Minorca e forse in Sardegna. La tecnica costruttiva sembrerebbe l’antesignana della cosiddetta “a pilastro” che presenta una tessitura di pietrame irregolare contenuta da pilastri. Tale tecnica e lo spessore dei muri contribuiscono a dare imponenza e solidità alla costruzione. I muri poggiano o su roccia o su degli interri. Così la troviamo (con le dovute differenze) migliaia di anni dopo, sempre a Minorca (il sito e’ molto simile a Gobekli T.) ma anche a Tarquinia, in Fenicia e prima ancora in ambito Siriano. Un altro raffronto curioso e molto distante è la dea madre, già citata, (vedi foto), presente nel santuario di Gobekli e quella rappresentata ad Alatri (una mia ipotesi), migliaia di anni dopo, sulle mura ciclopiche dell’Acropoli: le figure presentano la stessa gestualità anche se opposte, hanno il braccio alzato, simbolo di procreazione e un fallo in atto di penetrazione o comunque in atto penetrativo, hanno entrambe delle similitudini, specialmente il capo ,con altre dee madri mesopotamiche e cicladiche. Questo di Alatri è un bassorilievo posto sulle mura dette Ciclopiche che sono massi poligonali finemente lavorati, posti senza l’ausilio di malta e, in alcuni casi, talmente perfetti che non passa, tra un masso e l’altro, un foglio di carta. Le costruzioni sono presenti, in maniera rilevante, nell’Italia centrale, in Sardegna e nel sud, in Grecia, nelle isole e soprattutto in Asia, come accennato precedentemente, per quanto riguarda l’Italia, il fatto che siano così dislocate e non essendo presenti nel nord del paese, potrebbe essere un indizio di un arrivo di genti nella penisola via mare. Anche qui, alcuni studiosi, hanno rilevato connessioni con la stella Sirio, Orione, i Gemelli, solstizi ed equinozi. Veniamo al nocciolo della questione cioè alla descrizione di alcuni culti singolari e dei luoghi in cui avvengono. Su alcune stele, in particolare, su quella chiamata dell’avvoltoio (che ora viene ritenuta da alcuni studiosi, per me, a torto, la rappresentazione stellare di un disastro cosmico), vediamo rappresentati, per l’appunto, l’animale e un uomo senza testa. Ritengo che sia la prima rappresentazione di rito scarnifcatorio (ne parleremo diffusamente più avanti).

L’uomo senza testa ha il fallo eretto, altro simbolo che ritroveremo nelle zone prese in considerazione, nei siti coevi mesolitici o successivi neolitici come quelli di Cayouni, di Nevali Cori e di Catal Huyuk, non solo, sarà un simbolo importante per i popoli cosiddetti Proto-Pelasgi e Pelasgi (chiamati così fuori dalla loro terra originaria ma abitanti delle stesso territorio asiatico, parliamo dei “padri”e degli stessi hetei/ittiti cioè i discendenti di queste civiltà ). Questo simbolo lo rinveniremo in tutti i luoghi in cui loro arriveranno. Gobekli è ritenuto un santuario privo di abitazioni e luoghi per stabilizzarsi ma dove vivevano gli abitanti di quelle zone? Cayouni, coeva o di poco successiva a Gobekli, potrebbe essere la risposta. Qui vediamo la prima lavorazione a freddo del rame, le prime abitazioni, da capanne circolari a vere e proprie case a due piani con basi massicce in pietra, disposte a griglia, a canali, a celle Talaiot delle Baleari

per isolare dall'umidità, dalle piene, il pavimento è eseguito in pietra o in una miscela che fu il primo "calcestruzzo" della storia. Inizia il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, il tutto mosso non dal solo fine religioso come a Gobekli. Sotto queste meravigliose strutture, venivano seppelliti i crani separati dal resto del corpo, anche qui privati delle carni da particolari riti. Nella vicina Nevali Cori vediamo delle costruzioni simili con sistemi di drenaggio e ventilazione, inoltre troviamo le stesse stele a T di Gobekli tepe in un edificio, in questo caso a pianta quadrata e non circolare, un totem (ve ne erano anche a G.T.) con un avvoltoio appollaiato su due teste separate dal corpo a testimoniare il rituale appena descritto. Tornando nel nostro sito principale, un’altra novità eccezionale è Il culto dei crani, ne sono stati ritrovati tre di recente, nonostante non siano state, per il momento, scoperte sepolture, presentano tutti modificazioni artificiali diverse da quelle già attestate dai culti dei ben conosciuti luoghi come Gerico,Tell Sultan e dai siti contemporanei, ciò testimonia che il cranio era finalizzato a particolari pratiche e, quasi sempre, associato a quelle scarnificatorie. Questi rituali li ritroveremo nella Neolitica

Dagan,divinita’ Siriana

Putifigari Catal Huyuk, città nata nel 6500 A.C. circa, con una stima di 6000 abitanti ,una metropoli per l’epoca; venne edificata vicino a una palude, probabilmente, per avere acqua per coltivare e pescare, anche qui vediamo case di due e tre piani ma senza basi in pietra, è tutto costruito con mattoni di fango e con la tecnica delle “case matte”, cioè case una addossata all’altra in modo, apparentemente, casuale, senza porte e finestre ,con una sola apertura sul soffitto, senza vie di comunicazione. Questo tipo di costruzione diveniva così un sistema di difesa oltre che abitazione, l’antecedente del palazzo labirinto di Beycesultan e Cnosso (in parte con funzione diversa). Gli abitanti oltre che agricoltori e pastori, sapevano tessere e avevano oggetti che lasciano ancor oggi stupefatti, collane di perline di rame e oggetti di ossidiana con fori microscopici, millimetrici, specchi sempre in ossidiana perfettamente lucidi, dove, per ottenere ciò, servirebbero delle apparecchiature che vengono utilizzate ai giorni nostril. Inoltre commerciarono questi oggetti anche in luoghi molto lontani, sappiamo che, nella vicina e precedente, in ordine di tempo, Gobekli, che all’epoca non esisteva più, si utilizzava e c’erano addirittura tre luoghi da cui proveniva questo minerale, dall’Anatolia del nord est, dall’Armenia e dalla Cappadocia. A Catal H. è presente, in modo massiccio, ”il rito scarnificatorio” oltre al culto del toro e della dea madre, tanto che lo scopritore James Mellaart disse: “Si può dimostrare una continuità religiosa da Catal Huyuk e Hacilar fino alle grandi “Dee Madri” di epoca arcaica e classica e che l’interpretazione dell’arte del Paleolitico Superiore incentrata sul tema di un complesso simbolismo femminile (sotto forma di animali e simboli) mostra forti somiglianze con le immagini religiose di Catal H. e Hacilar; (basti vedere la foto dove è ritratta la dea madre partoriente che genera un toro e che ricorda i miti di Zeus ed Europa, questo mostra, in maniera inequivocabile, sempre secondo lo studioso, la connessione tra toro e fertilità della natura, come energia rigeneratrice, i cicli della vita/morte dove ricorre anche il numero 3 e le 3 fasi del rito scarnificatorio) simboli che si rincorrono che vengono trasmessi da civiltà che sono una figlia

dell’altra o da contatti e migrazioni, simboli che si perpetuano simili nei millenni a venire (forse con lo stesso significato o forse no). Lo stesso vale per altri come i tre serpenti capovolti e i pilastri a T (di Gobekli) che potrebbero rappresentare delle porte per l'aldilà, simili alle false porte di ben noti popoli italici. Tutto ciò ha anche valenza astrale e non si può dare un significato univoco o ristretto a queste strutture/simboli proprio perchè gli antichi non ragionano per compartimenti stagni,”modus cogitandi” tipico di noi moderni. Un'altro esempio è il simbolo del toro che da paredro delle madre terra con valenze di potenza sessuale e rigeneratrice (i 3 cicli: vita ,morte rinascita) passa a falce lunare, a toro celeste ( che hanno si sempre valore di fecondazione ma vengono ampliate) che combatte con il sumero Gilgamesh Uru Anna (simbolo di Orione e le sue 3 stelle), fino ad essere attributo del dio della tempesta Teshub …accompagnato da Kubaba e Arinna dea madre e dea solare, che rivedremo come il Siriano e Filisteo Dagan e il suo discendente Sardus Pater (rappresentato nella foto, simile al ”capovolto” sardo e a quello di Gobekli). Abbiamo accennato prima al "rito di scarnificazione", ora entriamo nei dettagli. Diversi studiosi ipotizzano che gli avvoltoi siano all’origine di una lunga tradizione in uso ancora oggi fra i Parsi (Zoroastriani), seguaci della religione fondata dal profeta persiano Zarathustra. I Parsi, presenti in India ed Iran, compiono il rituale funerario della scarnificazione. La scarnificazione consiste nell’abbandonare il corpo del defunto sulla sommità di una torre circolare in pietra chiamata “dakhma”, in attesa che gli avvoltoi si nutrano della carne. Così la terra non è contaminata dalla salma. Gli edifici di Catal Huyuk, probabilmente, sono una versione precedente delle dakhma, note come “Torri del silenzio” Tutto ciò è ben rappresentato in una pittura nel santuario di Catal Huyuk dove, su due torri in legno, viene consumato il banchetto da parte di due avvoltoi alle spese del cadavere in questione: in una rappresentazione c'è il corpo senza il capo e nell'altra solo la testa. E’ il simbolo del "capovolto", cioè del soggetto che va incontro alla madre terra dopo aver subito la scarnificazione rituale per poter accedere al mondo dei morti e intraprendere il viaggio rigenerativo. Ciò manifesta 3 fasi legate, probabilmente, a qualche simbolo astrale o a periodi solstiziali ed equinoziali. Questi riti però non riguardavano tutti ma un'elite di persone. I seppellimenti di ossa scarnificate ricoperte di ocra o cinabro (ricordatevi di questo particolare), per esempio, di Nevali Cori e Catal Hoyuk, sotto il pavimento di casa, era rivolto solo a specifiche figure non a tutto il popolo. ll rituale era svolto, probabilmente, da degli sciamani perchè l'avvoltoio era, in alcuni casi, rappresentato da una figura umana con costume di uccello, cosa volesse dire questo rito lo possiamo solo supporre, forse un 'atto di purificazione per permettere al defunto una specie di reincarnazione, come ritiene lo studioso Andrew Collins che parla anche di altri uccelli come cicogne e cigni . Egli ritiene che trasferiscano l’anima disincarnata in un altro soma lungo l’itinerario della metempsicosi, tutti conosciamo anche la leggenda della cicogna che porta i neonati nelle case. Il Cigno è anche costellazione: alcuni siti archeologici sono allineati con i suoi astri, in alcune rappresentazioni del neolitico vi sono degli avvoltoi con dei cerchi sulla schiena in cui sono

presenti feti di neonati, secondo lo scrittore, sono le anime dei morti che devono essere riportate

sulla terra.

simboli di Gobekli + pintadera L’avvoltoio è un simbolo molto importante che viene utilizzato durante i millenni fino all’età dei Sumeri e degli Amorrei (Babilonesi), dove era l’animale che portava via l’anima dai campi di combattimento e in ’Egitto, dove la Dea Nekhbet (la dea avvoltoio) era presente in molti geroglifici sempre accostata al faraone, abbiamo anche una prova dell’esistenza del rito scarnifacatorio nel predinastico: ” Alcuni scavi condotti in siti dell'epoca Naqada II hanno mostrato in alcune sepolture e hanno portato in luce tentativi di conservazione artificiale.” In alcuni siti si parla anche di mummie scarnificate! Sia Junker che Petrie (archeologi del secolo scorso di fama internazionale) dichiararono di aver rinvenuto corpi a cui era stata rimossa la carne con il bendaggio, quindi, a contatto con le ossa. Un'imbalsamazione scadente o la naturale decomposizione dei tessuti può portare a ciò, ma dal momento che in alcuni casi vi era anche una disarticolazione degli scheletri si ipotizzò la scarnificazione rituale. Petrie andò oltre ipotizzando che la carne venisse poi consumata a fini rituali facendo riferimento ad alcune affermazioni contenute nei Testi delle Piramidi e dei Sarcofagi. (Marta Berogno)” Uno di questi testi è definito “Inno cannibale”: “Unas (il faraone) è colui che divora gli uomini e si nutre di dei […] Unas è colui che mangia la loro magia e ingoia i loro spiriti: i grandi sono per il suo pasto mattutino, i medi sono per il suo pasto serale, i piccoli sono per il suo pasto notturno, i vecchi e le vecchie sono offerte lasciate a fumigare” (parte del testo tratto dal libro dei morti)

lSasConcas-Laconi

Catal Huyuk +capovolto di Gobekli e dea madre Catal Hoyuk

Dopo questa lunga premessa facciamo un bel salto spazio-temporale, andiamo, per un attimo, nella Puglia neolitica e, successivamente, nelle terre di Sardegna e tosco-laziali. Voi mi direte che c'entrano questi luoghi con quello detto finora? ". Sentite un po’ qui. ” Secondo John Robb, archeologo all’Università di Cambridge e capo del progetto di ricerca, “si tratta del primo caso ben documentato di scarnificazione funebre da parte dei primi agricoltori in Europa”. “La scarnificazione è qualcosa che avviene nei riti di sepoltura in tutto il mondo, ma finora non conoscevamo dei casi in Europa”.

Robb e il suo team hanno analizzato le ossa sparse di almeno 22 uomini del Neolitico – di cui molti bambini – morti tra i 7.200 e i 7.500 anni fa. I loro resti furono sepolti nella grotta di Scaloria, in Puglia. La grotta di Scaloria – sigillata fino alla sua scoperta nel 1931 – contiene resti umani ben conservati, mischiati in modo casuale a ossa animali, pezzi di ceramica e utensili di pietra. Le comunità neolitiche di solito seppellivano i loro morti sotto o di fianco alle loro case, oppure nei dintorni dell’insediamento. Tuttavia in questo caso gli agricoltori portarono i loro morti a ben 15-20 km di distanza. Perché lo fecero, e cosa ci dice riguardo la loro visione della vita e della morte? Per rispondere a queste domande, il team di Robb ha eseguito delle dettagliate analisi dei resti scheletrici, scavati dal 1978 e ora all’Università di Cambridge su prestito del Museo Nazionale Archeologico di Manfredonia. I risultati hanno mostrato che nella grotta erano presenti pochi scheletri completi – erano state interrate solo delle ossa selezionate. Alcune delle ossa avevano dei leggeri segni da taglio, suggerendo che durante la scarnificazione dovevano essere rimossi solo dei tessuti muscolari residui. Ciò vuol dire che i resti furono probabilmente depositati anche un anno dopo la morte. Date le prove, Robb e il suo team ipotizzano che il processo di scarnificazione facesse parte di una lunga sepoltura a più fasi. Non sappiamo cosa succedesse ai corpi durante le prime fasi: la mancanza di danni sulle ossa da parte degli animali suggerisce che non erano esposti agli elementi; forse venivano rinchiuse da qualche parte o sotterrate in profondità. Quello che è chiaro è che i riti finivano un anno dopo, quando delle ossa selezionate venivano pulite dalla rimanente carne e poste nella grotta. Questa era probabilmente la fine del rito funebre. I parenti potevano ora porre i resti tra altri oggetti di scarto, ossa animali e vasi rotti – forse un gesto simbolico che segnava la completa transizione dalla vita alla morte. Robb contrappone l’antico rituale con quello moderno: “Oggi la morte è un tabù culturale. Tendiamo a evitare la morte e ad avere brevi interazioni, tutte in una volta, coi morti. Ma in molte antiche culture le persone avevano interazioni prolungate coi morti, sia perché c’erano dei lunghi rituali come in questo caso, sia perché i morti rimanevano presenti in qualità di antenati, reliquie, spiriti o potenti memorie”. Ma qual era il significato della caverna? Robb e il suo team hanno ipotizzato che per via della loro somiglianza, le ossa sarebbero state considerate come stalattiti. Infatti, notando la connessione tra la formazione delle stalattiti e le gocce d’acqua che cadevano dal soffitto, gli uomini neolitici avevano messo dei recipienti per raccoglierle. Come la sostanza creava ‘ossa di pietra’, probabilmente aveva potere spirituale. È perciò possibile che il processo di pulitura e deposizione nella grotta fosse un modo dei vivi di riportare le ossa alle loro origini, sia nell’aspetto sia nel luogo, completando un ciclo di incarnazione. “Forse pensavano che la vita si originasse da forze o sostanze sotterranee”, spiega Smith, “oppure credevano che nei luoghi sottoterra l’anima viaggiasse verso il mondo ultraterreno. In ogni caso, la grotta di Scaloria fornisce delle informazioni sulle credenze neolitiche a cui non abbiamo normalmente accesso.” Passiamo in Sardegna. “Nel gennaio del 2017 alcuni ricercatori dell'Università di Sassari hanno stupito un folto pubblico con approfondimenti di alcuni aspetti sulla rappresentazione iconografica e sulla presenza del grifone nell’arte e nella mitologia, testimoniati da varie fonti archeologiche ed etnografiche in contesti rituali e in alcune storie locali, come la teoria avanzata da Giacobbe Manca che individua nella necropoli ipogeica di Sa Figu ad Ittiri (il primo impianto delle tombe è del Neolitico, sino agli ultimi sporadici riusi in età romana) un centro di scarnificazione dei cadaveri, dato il rituale di deposizione secondaria riferibile alla Cultura di Bonnanaro (Bronzo antico).

"Per poi risalire alle numerose attestazioni della presenza del grifone/avvoltoio nella cultura sumerica ed egizia, che da sempre ha considerato questo animale quale attributo di divinità o esso stesso divinità. La stessa civiltà romana per quanto riguarda la fondazione dell’Urbe, secondo Tito Livio, sarebbe legata all’arte divinatoria dei signa ex avibus e al volo degli avvoltoi.” Nelle Domus de Janas, monumenti che partono dal neolitico sardo (4000 A.C.), si trovavano molti oggetti, tra cui frammenti di ossidiana, selce e anche pezzi di ossa coperti di ocra rossa che fanno pensare che anche lì si praticasse il rito. Questo secondo la teoria del Sig. Giovanni Sotgiu, il quale dice:“mi conferma questa ipotesi una roccia con una particolare inclinazione, pendenza, con al centro una canaletta molto lunga che arriva fino a terra, ad altre trasversali forse per raccogliere i liquami del defunto. Oggi rimane esposta al sole non meno di 8 - 10 ore al giorno... (per velocizzare la scarnificazione), ma nulla mi vieta di pensare che in epoca remota potesse essere diversa la vegetazione, magari con vicino degli alberi che gettavano ombra (gli alberi possono anche essere stati tagliati). Forse con lo scavo archeologico potremmo davvero scoprire se si trattava di uno scarnificatoio. Parliamo ora della necropoli di Filigosa scavata dal Contu a Macomer, nota per aver dato il suo nome alla ben nota cultura eneolitica detta “Abealzu Filigosa”. La necropoli è composta da quattro Domus de Janas pluricellulari, scavate su un'altura tufacea e caratterizzate dalla presenza di lunghi dromos d'accesso. Fu utilizzata dalle popolazioni protosarde dal III millennio A.C. fino ai primi secoli del II millennio A.C. Sono stati ritrovati reperti simili a quelli della cultura di Rinaldone, del Gaudo e di Los Millares, insieme a diversi resti umani combusti a cui fu praticato il rito funebre che prevedeva la scarnificazione e la sepoltura in deposizione secondaria.

Riti, opere, luoghi, date, apparentemente, lontane cominciano ora a sembrarci più’ familiari e vicine. Circa 4000 anni A.C. in Europa si cominciano a costruire monumenti megalitici passiamo, improvvisamente, da capanne di paglia e legno a monumenti che richiedono capacità, particolari, un'organizzazione complessa e, forse, l'uso dei metalli. In oriente siamo nel periodo della prime vere e proprie metropoli come Eridu, Uruk, Urkesh, il neolitico era terminato. Stando ai risultati degli scavi di Çatal-Höyük realizzati da James Mellaart, nel 1955, popolazioni vicino orientali migrarono nell'area egea e da lì si recarono nel continente europeo. Ci sono racconti che parlano di uomini giganti che erigono dolmen, menhir, tombe dette appunto dei giganti, mura ciclopiche. Li ritroviamo in vari miti, in quelli sumeri, nella bibbia, negli antichi miti greci che, a loro volta, derivano da quelli cosiddetti "Pelasgi". I giganti sono figli di Gea, la madre terra, ecco che ritorna la divinità/simbolo che ritroveremo in tutto il mediterraneo grazie, probabilmente, alle migrazioni di questi popoli che il De Cara, eccelso Studioso ottocentesco, chiama Hetei-Pleasgi, una” koine'” che ha caratteristiche similari, stesse divinità, stessi metodi costruttivi, stesso amore per il mare, abitante “ab origine” del suolo del vicino oriente, quindi figlia, nipote di quelle genti che eressero Gobekli tepe.

Lo storico parla di genti dell’Asia detti anche Ciclopi che furono chiamati dalla Licia per costruire le mura di Atene e di Tirinto, ecco un brano tratto dal suo più importante lavoro:” Notiamo qui di passaggio, che Ciclope fu detto figlio di Tantalo e padre di Nilo che prima si chiamava Tritone........La parentela fra Ciclopi, Cureti, Telchini e Giganti da una parte e la qualità di fabbri e di costruttori di città, di fortezze e di labirinti dall'altra, conferma l 'identità di origine, come dell'arti degli Hetei Pelasgi e dei Ciclopi, popolo storico, il quale non ebbe soltanto la stanza in Sicilia, ma nell'Asia Minore, altresì e per tutto dove si ammirano quelle superbe costruzioni poligonali che portano promiscuamente il nome di ciclopiche e di pelasgiche. Il nome di Tantalo, connesso con quello di Ciclope suo figlio, non è un enimma inesplicabile “Cosa spinse queste genti a lasciare i loro territori occupati da tempi immemori? A questo risponderemo più avanti, ora occupiamoci di Giganti o Ciclopi e dei loro monumenti megalitici, si dice, addirittura, che, nelle sepulture, dalle prime tombe scavate nella roccia, alle Domus de Janas e alle Tombe dei Giganti, essere state trovate ossa di dimensioni spropositate come a Pauli Arbarei e in diverse altre zone della Sardegna, non voglio entrare nel merito se siano storie vere o solo fantasie, ma voglio allacciarmi a simili rinvenimenti avvenuti sulla sponda opposta del tirreno, nella prospiciente Toscana e alto Lazio, alla cosidetta civiltà di Rinaldone. Qui furono trovate e certificate da archeologi, ossa di individui che dovevano raggiungere il metro e novanta fino ai due metri e oltre. Non solo questo li accomuna ai giganti sardi ma le stesse sepulture, simili a quelle sarde, precedenti le Domus de Janas, cioè grotticelle o ciste scavate nella roccia, presentano ossa ricoperte da ocra o cinabro. Inoltre, proprio come in Asia e Sardegna sono state trovate tracce del famoso rituale di scarnificazione. La cultura di Rinaldone prende il nome dalla prima necropoli rinvenuta, ascrivibile a questa nuova facies, scoperta, casualmente, nel 1904 in seguito a lavori agricoli. “Situata nel territorio di Montefiascone, essa presentava tombe a grotticella artificiale, scavate nel banco di roccia. Gli inumati erano deposti in connessione anatomica, nella caratteristica posizione rannicchiata su un fianco (generalmente sinistro), con le gambe flesse e le braccia piegate verso il volto, Entriamo più nel dettaglio, per l’argomento che ci interessa particolarmente, delle tombe 2 e 7 della Selvicciola e nella tomba 4 di Garavicchio dove si rinvennero mucchi di ossa deposti successivamente dietro la lastra di chiusura della cella. La studiosa Alessandra Torresi ritiene che il processo di scarnificazione doveva essere avvenuto altrove e solo successivamente si scelse di depositare i resti nella tomba, dimostrando che non c’erano solo problemi di spazio, ma era una precisa pratica rituale. Prosegue dicendo: “Inoltre, nella necropoli di Selvicciola, è stato riscontrato che in alcune tombe gli inumati venivano sconnessi solo in parte (generalmente la parte superiore dello scheletro), mentre l’altra restava in connessione (4 inumati): i resti venivano solitamente mescolati a quelli di altri individui, rendendo notevolmente più complesso ogni tentativo di interpretazione del rituale funerario. Dato il problema dell’esiguità dei dati per gli scavi eseguiti alcuni decenni fa, non è da escludere che la situazione riscontrata alla Selvicciola possa essere attestata in altre tombe rinaldoniane. Sempre nella necropoli della Selvicciola è testimoniata la presenza di tombe ossario, destinate alla sistemazione dei resti degli sconnessi per i quali il processo di scarnificazione doveva avvenire altrove, forse in strutture non individuate dalle ricerche (piattaforme?): le ossa venivano disposte ordinatamente in mucchi, con il cranio deposto nella parte superiore. Proponendo una chiave di lettura del rituale funerario precedentemente descritto, si ritiene che gli inumati sconnessi possano rappresentare il defunto nella sua definitiva condizione di morto, socialmente accettato dalla società4. È l’aspetto conclusivo del rito di passaggio che veniva praticato dalle comunità rinaldoniane per sancire il cambiamento da una condizione di vivo a quella di morto, effettuato mediante lo sconvolgimento delle ossa che poteva avere lo scopo di rappresentare la perdita totale dell’identità individuale del defunto.

Va comunque tenuto presente che alcuni inumati restarono in connessione anatomica, senza mai essere manomessi. Resta impossibile comprendere la motivazione, o meglio, le motivazioni che possono intersecarsi: personaggi socialmente differenziati, estensione del segmento di parentela, abbandono del sito. In alcuni casi è stata riscontrata la riapertura della cella al fine di effettuare particolari trattamenti sui resti dei defunti: l’inumato di sesso maschile della tomba 20 di Ponte San Pietro presentava il cranio colorato da tracce di cinabro, a testimonianza di un intervento sullo scheletro praticato quando il processo di scarnificazione era già avvenuto. Eppure in questo caso (come anche in altri, individuati nelle varie necropoli esaminate) si scelse di non spostare i resti dell’inumato, lasciandolo in connessione anatomica. In questi casi è probabile che gli inumati restassero in connessione anatomica, quindi, per evidenziarne una posizione diversa rispetto agli altri: questa, oltre ad essere posta in evidenza dall’eccezionalità degli elementi di corredo, poteva trovare ulteriore conferma nell’adozione di un rituale funerario diverso. Se si considera il totale degli inumati deposti nelle varie necropoli, piuttosto basso rispetto a quello che doveva essere il numero degli individui delle comunità rinaldoniane, tenendo presente anche l’ampio arco di tempo in cui furono utilizzate, si può affermare che queste aree sepolcrali erano destinate ad un’esigua parte della società, probabilmente gruppi o individui che dovettero godere di particolare prestigio. Per gli altri è possibile ipotizzare un altro tipo di sepoltura: potrebbero essere stati deposti in altre tombe non ancora individuate, oppure sottoposti a trattamenti diversi, quali per esempio l’esposizione dei corpi all’aria aperta, in aree destinate a tale scopo. Un altro aspetto del rituale funerario di complessa interpretazione è rappresentato dal trattamento e manipolazione dei crani. Sia nell’inumato maschile in connessione anatomica della tomba 20 di Ponte San Pietro che in quello della tomba 15 della Selvicciola, è stato riscontrato lo spostamento intenzionale del cranio, eseguito in un secondo momento, quando il processo di scarnificazione era completo. In almeno due casi, nella tomba 25 di Ponte San Pietro e 5 di Poggialti Vallelunga, è testimoniata l’asportazione del cranio. Un’altra pratica attestata è quella relativa alla colorazione del cranio eseguita con il cinabro attestata sul maschio adulto della tomba 20 di Ponte San Pietro e sul cranio proveniente dalla tomba tarquiniese di Bandita San Pantaleo (Barich et Alii 1968). Tra le tombe prese in esame queste sono le uniche in cui è testimoniato l’uso di tale azione rituale, attestata anche nell’ambito del Lazio meridionale, come evidenzia l’inumato rinvenuto nella tomba di Sgurgola. L’uso di manipolare i crani, sottoponendoli a trattamenti rituali come quello della colorazione con cinabro, potrebbe rientrare in quella serie di interventi sui resti umani precedentemente deposti, in cui tuttavia si potrebbe cogliere la volontà di caratterizzare il singolo individuo anche in una fase avanzata del rituale. Rientra nella complessità delle pratiche rituali anche la deposizione del cane nelle strutture funerarie, attestata nella tomba 20 di Ponte San Pietro, associato ad una coppia di inumati adulti e deposto fuori della tomba, nei pressi dell’ingresso. Riguardo alla pratica di sacrifici umani nella cultura di Rinaldone, invece, non credo che vi siano conferme dalle analisi effettuate nel corso di questo studio: il caso della vedova della tomba 20 di Ponte San Pietro, il cui cranio presentava una frattura al momento della scoperta, potrebbe infatti essere ricondotto ad una conseguenza relativa al crollo della volta, piuttosto che all’uccisione intenzionale della giovane donna in seguito alla morte del marito. Dal momento che costituisce un caso isolato nelle necropoli prese in esame, ritengo possibile ricondurre la frattura cranica ad un fatto casuale e accidentale, anziché intenzionale e rituale.” Vengono ripresi i vari momenti del rito di passaggio proposti dall’antropologo belga Arnold Van Gennep (Les rites de passage, 1909) per il quale tutti i “riti di passaggio” si dividono in tre momenti principali: separazione, margine ed aggregazione. Secondo lo studioso era quella centrale ad avere maggiore importanza, in quanto permetteva di ridurre l’aspetto traumatico del passaggio dal distacco da una determinata condizione (vivo) all’integrazione in un’altra categoria sociale (morto).

Nello svolgimento di questi riti veniva riservata particolare attenzione al trattamento del corpo del defunto, la cui cura veniva messa in relazione con la cura e la reintegrazione dello spirito all’interno della società. Sulla base di questi studi etnologici ritengo che si possa prendere in considerazione l’ipotesi che anche il rituale funerario praticato dalle comunità rinaldoniane potesse essere basato su tre momenti distinti. Immediatamente dopo la morte fisica, il defunto veniva deposto nella tomba in posizione fetale, e si dava inizio alle esequie. È probabile che durante queste venissero praticate offerte, probabilmente, di liquidi, contenuti in un vaso a fiasco che veniva posto accanto alla testa dell’inumato. Al termine di questa prima fase (separazione) si procedeva alla chiusura della tomba. Solo in una fase successiva, durante un periodo di tempo che doveva permettere la completa scarnificazione dello scheletro (margine), si procedeva alla riapertura della tomba e all’esecuzione della terza fase del rito, quella della sistemazione definitiva dei resti del defunto. Questi venivano raccolti con cura, a volte praticando una selezione che riguardava ossa lunghe e crani, e ammucchiati presso una delle pareti della cella, generalmente quella di fondo. Particolare attenzione veniva rivolta ai crani, generalmente posti a soprastare il gruppo di ossa, rappresentazione simbolica dell’antenato defunto. Portata a compimento questa ultima fase del rito (aggregazione), lo spirito del defunto trovava il suo inserimento nella comunità, nella nuova condizione. La considerazione degli sconnessi come espressione di una nuova condizione ultraterrena, potrebbe spiegare” Oltre a ciò a testimonianza del filo rosso che lega queste civiltà da est a ovest sono gli oggetti ritrovati, tra cui il vaso a fiasco, le asce a martello, il bipenne, armi in rame con valore simbolico, la selce e diversi altri reperti. Nel territorio della valle del Fiora è presente il tufo, roccia vulcanica di facile lavorazione, le tracce lasciate sulle rocce dalla cultura di Rinaldone sono molteplici, molte sembrano avere relazione con l’astronomia come le tante coppelle e altre lavorazioni rupestri rinvenute nel territorio toscolaziale, altre con il culto della fertilità e delle acque, come “la Grotta dell’Utero” (incisioni su pareti a strapiombo, fosso della Nova). Nel 2004 in localita’ Poggio Rota lo studioso Giovanni Feo scoprì quella che, in seguito, fu chiamata la StoneHenge italiana, un circolo di enormi pietre, orientate, astronomicamente, verso costellazioni tra cui Sirio, stella polare, solstizi ed equinozi con richiami alla dea madre, al toro, alla falce lunare; sono state trovate canalette e coppelle proprio come nella tomba sarda vista in precedenza, forse, come per essa, per svolgere lo stesso rito scarnificatorio. Sempre nei paraggi, troviamo dei monumenti che lasciano senza fiato l’ignaro visitatore, queste sono le” fantomatiche “mura ciclopiche, sono presenti, per rimanere in territorio Rinaldoniano, a Orbetello, a Cosa, ma anche in molte altre località, tra cui Alatri di cui parleremo più avanti, monumenti che vengono, in genere, attribuiti, con enorme sconcerto di diversi studiosi che hanno visitato le mura nel corso dei secoli, ai romani, ma che non hanno nulla a che fare con la loro maniera di costruire. Sono definite anche pelasgiche o ciclopiche del tutto simili a quelle di Tirinto, Micene e Hattusa (siamo nell’età del bronzo), opere che gli antichi, la mitologia e le storie popolari attribuiscono a dei giganti. Alcuni studiosi intendono la parola “ciclopico” come un’attributo di un popolo che fece grandi imprese quindi anche “gigante”con quell’accezione ma qui come in Sardegna e in Asia abbiamo entrambe le cose, uomini grandi sia di statura fisica che intelletuale.

Tiriamo, un’attimo, le somme: dall’epoca neolitica, probabilmente, dopo vari sopraluoghi, gruppi che io definirei ProtoPelasgi e Prototirreni, dall’Asia, attraverso le isole greche come Lemno ,Imbro, Syros, a nord e Cipro Malta a sud, nonchè dall’Ellesponto, anche con migrazioni via terra verso l’Europa del nord, approdarono sulle coste sarde e laziali alla ricerca spasmodica di rame e, successivamente, di stagno ma anche di terre ricche di acqua e coltivabili(alcuni luoghi privilegiati sono vicino a paludi). Qui si svilupparono le civiltà di Rinaldone, del Gaudo, di Remedello, dei Pre Nuragici (BonuIghinu, Ozieri, Monte Claro, Filigosa,ecc.) e, guarda caso, circa nel 2000 A.C., si interruppero tutte bruscamente, proprio quando prese il potere del Mediterraneo la civiltà Minoica e comparvero i fantomatici e, per me, fantasiosi popoli “indoeuropei” Proprio in questo periodo, detto protopalaziale, I cretesi con a capo iI mitico Minosse conquistarono le isole cicladiche, scacciandone il popolo come lo stesso Tucidide ritiene. Erodoto pensa che siano I Cari originari della Caria, in Asia, essi furono I famosi Lelegi sudditi di Minosse, abili navigatori che in quel tempo abitavano l’Anattoria da Anatte o Anax (che vuol dire anche comandante, ricorda il wanax miceneo) figlio di Urano e Gea la madre terra, un’elemento che congiunge I giganti rinaldoniani ai cari. Altri intrecci di miti e leggende dove, quasi sempre, si nascondono tracce di verità storiche, il mito continua, secondo Pausania con il figlio di Anatte, Asterio, altro gigante che venne ucciso da Mileto, generale di Minosse che, quando fu disseppellito, dicevano misurasse 10 cubiti(10mt). Proprio a Mileto, i recenti scavi ci dicono delle varie fasi dell’ossidiana del tardo calcolitico, delle figurine cicladiche dell’omonimo periodo e, a cominciare dal 2300A.C.,della ceramica minoica, il tutto a testimoniare la continuità e i vari passaggi tra i diversi popoli di etnia simile perchè tutti egeo/anatolici/mesopotamici, ma che testimoniano anche possibili migrazioni dovute a guerre per il predominio territoriale. Queste storie sono presenti anche in diverse parti del Mediterraneo ,dalla Sicilia, alla Sardegna, alle Baleari. Popoli che hanno come simboli la dea Madre, il toro, che sono esperti navigatori, metallurghi ed astronomi, storie come il mito della Gigantomachia, lo scontro tra il gigante Gerione re di Tartesso ed Ercole, che combatterà in Italia con Caco, altro gigante figlio di Efesto dio metallurgo, Per arrivare a Norax figlio di gigante e di un dio, fondatrore della sarda Nora, Stirpi di giganti e atlantidei sparsi per tutto il Mediterraneo e, in tutto ciò troviamo sempre delle corrispondenze archeologiche perchè, dove nelle tombe dei giganti sono state trovate ossa di dimensioni ragguardevoli, come testimonia lo studioso gesuita Antonio Bresciani’, alla cultura di Filigosa Abealzu (3200- 2700 a.c.), corrispondono ceramiche tra cui il vaso a fiasco, già citato precedentemente, ritrovate a Monte d’Accoddi nella capanna dello stregone del tutto simili a quelle Rinaldoniane e del Gaudo. Persino nella bibbia sono nominati i giganti: gli Emim, gli Zamzummim, gli Anakiti che hanno come capostipite Anak nome simile all’Anax Cario. In Toscana e Lazio abbiamo pubblicazioni di Francesco Nicosia (sovrintendente di Toscana e Sardegna ) dove si parla di scheletri di piu’ di 2 mt nelle tombe ad uovo rinaldoniane e a Spoleto, nella tomba della biga, furono rinvenuti altrettanti reperti. Annio di Viterbo, antico storico(ritenuto fantasioso scrittore) ma anche George Dennis parlano di scheletri di enorme dimensioni ritrovati a Saturnia ad Orbetello, già citata in precedenza per la presenza di mura ciclopiche, mura che andrebbero studiate in modo più approfondito e che

testimoniano un periodo che si rispecchia in altre strutture megalitiche, tra cui le mura di Monte Baranta in Sardegna, le tombe dei giganti, gli stessi nuraghi costruiti in epoche diverse proprio perchè queste civiltà sono millenarie.ed hanno un filo conduttore sia etnico che culturale. Le perdas fittas, I betili, i dolmen, i menhir, hanno, secondo me, origini comuni, da civiltà che avevano un contatto privilegiato, oserei dire, simbiotico con la madre terra e con vari suoi aspetti. Le pietre erano uno di questi, perchè esse la rappresentavano, erano vive e mettevano in comunicazione energie telluriche con quelle celesti, così che, quello che l’uomo di allora vedeva nel cielo, era quello che ritualizzava, sacralizzava in terra, tramite queste costruzioni. Altro aspetto delle perdas fittas, dei betili è il rappresentare il pene eretto, simbolo si’ di forza fecondativa ma anche simbolo per orientare quella parte di territorio verso il cielo e comunicare con la madre terra, rendendo partecipe del tutto l’uomo che vi risiedeva. Infine ritorniamo al simbolo del 3 e del “fallo” di cui abbiamo appena discusso e visto diverse immagini di tempi assai remoti perpetuatosi in altre successive civiltà. Parlando di betili,di coppelle, di circoli di pietre e di altri monumenti, il numero 3 e il fallo ricorrono molto spesso ( presi singolarmente o uniti) sia vicino a domus de Jana,sia a tombe di giganti, oppure negli interni dei nuraghe stessi. Volevo terminare con un parallelo di un luogo gia’ visitato, costruito, secondo la mitologia, dai giganti ciclopi : Alatri, Sulle possenti mura sopra porta Minore sono scolpiti 3 falli, vicino a Porta Maggiore invece sono presenti 3 nicchie, all’interno dell’acropoli è rappresentata la triplice cinta. Non voglio dilungarmi oltre sul significato di cui, molti altri, hanno già dato le più disparate interpretazioni, dalle 3 divinità principali mesopotamiche a quelle egizie al ciclo di vita, morte e resurrezzione, alle tre vie celesti mesopotamiche, alla cintura di Orione e chi più ne ha più ne metta, ma volevo solo suggerire che gli indizi sono tanti, troppi, per non essere valorizzati, studiati un pò più approfonditamente e per non dire che ci possano essere correlazioni tra questi popoli che abbiamo tolto, per un’attimo, dalle nebbie del tempo.

F

Alatri triplice cinta

Alatri

Macomer

Domus di Mesu

Poggio Rota +oggetti cultura di Rinaldone,

Fonti:

De Cara Cesare Antonio * - “Gli Hetei-Pelasgi. Ricerche di storia ed archeologia orientale greca e italiana”, Roma, Tipografia Accademia dei Lincei, 1894 Claudio Pofferi: I popoli dell'antica Italia. Rinaldoniani, umbri, pelasgi, villanoviani ed etruschi. Antiche culture nella piana fiorentina-pratese-pistoieseaudio Pofferi Editore: Polistampa Anno edizione: 2011pagine: 152 p., ill.

Klaus Schmidt Costruirono i primi templi (Oltre edizioni, pp. 286 2011) Andrew Collins gli ultimi Dei Sperling & Kupfer Remainders Libro - Pag 287 - Aprile 2000 Mario Liverani Laterza, 1991 -Antico Oriente. Storia, società, economia

James Mellaart (Autore) Catal Huyuk: Neolithic Town in Anatolia (Inglese) – mag 1967

Claudio De Palma: Il paese dei tirreni. Serona Toveronarum Editore: Olschki Collana: Accademia La Colombaria. Serie studi Anno edizione: 2003 Giovanni Feo: Prima degli etruschi: i miti della grande dea e dei giganti alle origini della ... Risultati immagini per GIOVANNI FEO PRIMA DEGLI ETRUSCHI Prima pubblicazione: 2001 Massimo Pittau:”Origine e parentela dei Sardi e degli Etruschi“ - saggio storico-linguistico, Sassari, 1995

ALESSANDRA TORRESI_ Le necropoli eneolitiche rinaldoniane fra l'Albegna e il Marta- Analisi 2004_ 2_ Negroni Catacchio Pastori e guerrieri nell'Etruria del IV e III millennio a. C. La cultura di Rinaldone a 100 anni dalle prime scoperte N. (cur.)Editore: Mur Collana: Atti Incontri studio preistoria e arch. Data di Pubblicazione: 2006 Genere: storia del mondo antico. Archeologia Giovanni Ugas: L’Alba dei Nuraghi 2006 Ercole Contu: L'altare preistorico di Monte d'Accoddi, Sassari, Carlo Delfino, 2000 Ercole Contu: Il significato della stele nelle tombe di giganti, Sassari, Dessì, 1978 jRobb http://news.sciencemag.org/archaeology/2015/03/stone-age-italians-defleshed-their-dead

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