RINVENIMENTI NEOLITICI IN AREA POMPEIANA Conferenza tenuta per l'Associazione Internazionale Amici di Pompei nell'Auditorium degli Scavi di Pompei il 7 novembre 2009

June 9, 2018 | Author: Antonio Varone | Category: Documents


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ANTONIO VARONE

RINVENIMENTI NEOLITICI IN AREA POMPEIANA Conferenza tenuta per l'Associazione Internazionale Amici di Pompei nell'Auditorium degli Scavi di Pompei il 7 novembre 2009 La Soprintendenza Archeologica di Pompei è impegnata dal 1987 nell'esplorazione dell'insula pompeiana dei Casti Amanti, la nr. 12 della Regione IX, posta col suo lato meridionale lungo la centralissima via dell’Abbondanza [FIG. 1], che ha fatto acquisire importantissimi risultati scientifici relativi a varie tematiche interdisciplinari.

Fig. 1 Fig. 2 [FIG. 2] Il cantiere infatti è stato organizzato come un vero laboratorio di ricerca nel quale operano le più varie professionalità per investigare, ognuno nel proprio ambito di specializzazione, la realtà del mondo antico nel modo più articolato e completo possibile. Non parlerò qui ora, per ovvie ragioni, dei tanti risultati archeologici conseguiti, che vantano già una ben nutrita bibliografia, ma entrerò direttamente nello specifico del tema del nostro incontro. [FIG. 3] Tra le altre cose, nelle indagini preliminari per procedere alla copertura definitiva del cantiere, vennero anche realizzate nel 2002 a cura dal geologo Orazio Patti prospezioni geognostiche nel profondo, spintesi fino a – 25 metri dall’attuale p.d.c., in modo da evidenziare la consistenza del terreno e la sua risposta alle sollecitazioni sismiche, effettuando una serie di carotaggi, prove penetrometriche, analisi geotecniche di laboratorio e la definizione dei parametri elastico-dinamici dei vari strati. [FIG. 4] I carotaggi, in numero di sei, vennero effettuati lungo i vicoli ad est ed ovest dell’insula e lungo la loro ideale prosecuzione verso nord; in un caso in un ambiente stesso della casa del I Cenacolo Colonnato. [FIG. 5] Si è avuta così una lettura completa della stratigrafia, sia partendo dal piano di calpestio del 79 d.C., sia da quello moderno. Tali sondaggi, oltre a fornire per la prima volta la lettura della stratigrafia geologica all’interno della città antica, offrirono altre interessanti notazioni, che, sia pure in gran parte relative all’eruzione del 79 ritengo tuttavia utile ricordare in questa sede. Per quanto riguarda infatti la colonna stratigrafica relativa ai depositi piroclastici prodottisi in seguito all'eruzione del 79, si rilevarono intanto potenze differenti lungo le rispettive verticali di carotaggio, variando da metri 4,90 in S3, lungo il vicolo tra le insulae 12-13 ai metri 6,30 in S4, lungo il vicolo tra le insulae 11-12. Se si considera allora che la sezione stratigrafica di aree 1

effettivamente scavate all'interno dell’insula ha evidenziato uno spessore complessivo dei depositi del 79 d.C. pari a metri 3,60, di cui metri 2,70 di pomici, si può affermare che il seppellimento del sito a seguito dell'eruzione varia da punto a punto in relazione alle singole emergenze topografiche, addirittura variando le componenti all'interno di uno stesso vicolo. L'analisi che il geologo ha dato di tale dato porterebbe a ritenere fondamentale nella variazione di spessore della colonna stratigrafica la presenza-assenza nei depositi piroclastici dei flow e la differente loro potenza. Mediamente essi rappresentano infatti il 33% dell'intero suo spessore.

Fig. 3

Fig. 4

Fig. 5 2

Venne poi rilevata, chiara, nelle carote prelevate nei tre saggi effettuati a nord nell’area non ancora scavata, la presenza di un sottile strato cineritico dello spessore medio di circa 4-5 mm a dividere le pomici bianche da quelle grigie, sintomo evidente di un collasso della colonna eruttiva ed emissione di un surge con conseguente modifica delle caratteristiche vulcanologiche dell’eruzione stessa. Si noti che nello scavo già effettuato immediatamente più a sud tale strato cineritico tra i due differenti tipi di pomice non è assolutamente comparso. L’osservazione scientifica lo ha tuttavia già registrato in altri siti, quali Boscoreale ed Oplontis. Si deve pertanto ritenere che esso, di minima potenza, abbia allora interessato anche Pompei, benché in misura del tutto ridotta, movendosi in maniera non uniforme, in quanto facilmente bloccabile da ostacoli di varia natura posti lungo le strade o dalla stessa conformazione urbana. In tutti i sondaggi è risultato comunque sempre assente un sia pur minimo livello cineritico alla base delle pomici bianche, dato costantemente confermato dallo scavo archeologico in tutte le operazioni sinora svoltesi sul cantiere. Venendo invece ai dati che più da vicino ora ci interessano si notò che al di sotto dello strato antropizzato di età storica compare un set di tre diversi sedimenti piroclastici appartenuti ad almeno tre periodi di attività vulcanica. In quello centrale, esclusivamente nel foro di sondaggio S4, ad una profondità di 10 m dal p.d.c., si riscontrò un deposito costituito da elementi eterogenei imposti senza ordine alcuno, di controversa interpretazione. Si evidenziarono lì anche frammenti di una sostanza molto degradata, all’apparenza simile a terracotta sbriciolata, oltre a tracce sottilissime di materiali carbonizzati. Tale strato fece ipotizzare tracce di frequentazione umana in un periodo certamente di molto anteriore alla fondazione della città. Lo strato immediatamente inferiore, posto al di sopra della roccia lavica compatta, di colore nero, argilloso, limoso e con consistenza torbosa, sembra invece tipico di un deposito in ambiente stagnante, o semplicemente paludoso, poi seccatosi. La forte variabilità dello spessore di tali strati e della loro profondità d'incontro nei diversi saggi eseguiti deriva dal fatto che la deposizione sembra avvenire in una depressione morfologica del top lavico che è alla loro base, quasi una sorta di concavità, di cui peraltro è allo stato impossibile determinare estensione ed orientamento. Va notato, infine, che la potenza dei depositi formatisi in seguito all'eruzione del 79 d.C., pur con le oscillazioni prima ricordate, risulta in ogni caso assai inferiore allo spessore complessivo di questi depositi piroclastici, che coprono un arco temporale di attività vulcanica di oltre 10.000 anni, che si anche in grado di scandire con una certa precisione nelle sue corrispondenze cronologiche. Al di sotto dei piroclastici venne poi identificato il bed-rock costituito da roccia lavica leucitica compatta di tipo orvietitico, la cui formazione per datazioni relative va posta tra i 15.000 e i 20.000 anni fa. Tale roccia si individua a profondità sempre maggiore man mano che si procede verso nord e verso est, cosa che farebbe escludere una sua provenienza dall’apparato del Somma-Vesuvio e ciò sembrerebbe dare quindi un’ulteriore conferma alla tesi proprio di recente avanzata da Cinque e Russo che la collina vulcanica su cui fu in seguito edificata Pompei sarebbe stata formata non già da una colata lavica vesuviana, ma dal paleocratere di un apparato vulcanico collegato nel profondo al Vesuvio, ma del tutto indipendente da questo, la cui estensione, sarebbe valutabile intorno ai tre chilometri di diametro. [FIG. 6]Sulla scorta dei dati offerti da tali sondaggi, più di recente, tra il luglio 2003 e il maggio 2004, si sono allora effettuati quattro saggi stratigrafici nei vicoli ad est e ad ovest dell’insula [FIG. 7] provvedendo peraltro, preventivamente, [FIG. 8] allo sterro stesso di parte del vicolo ad ovest, ancora ingombro dei materiali primari dell’eruzione del 79 d.C. Se frammenti d’impasto, in maniera del tutto sporadica e in giacitura secondaria, si sono già presentati nel saggio A, ossia nel vicolo tra le insulae 12 e 13, mentre, nel saggio B, nello stesso 3

Fig. 6

Fig. 7

Fig. 8 vicolo, la presenza di una cisterna ha impedito di poter approfondire lo scavo per tale specifica ricerca, [FIG. 9] è nei due saggi effettuati nel vicolo ad ovest dell’isolato che si sono avuti i risultati più eclatanti, ricercati e forse anche attesi, ma certamente superiori ad ogni aspettativa. [FIG. 10] Scendendo ostinatamente qui oltre i vari battuti stradali che si sono succeduti uno sull’altro a partire dal 200 ca. a.C., [FIG. 11] dopo aver svuotato fosse e fosse scavate dagli abitanti di Pompei ora per ricavare pozzolana, ora per seppellire materiali di risulta, aggirandoci nella trincea come in un paesaggio lunare, se è vero che la luna somiglia ad una fetta di groviera, dopo aver superato lo strato grigio di terreno pozzolanico che da sempre ha caratterizzato “il vergine” a Pompei, [FIG. 12] abbiamo visto all’improvviso affiorare in maniera sempre più significativa 4

Fig. 9

Fig. 10

Fig. 11 pomici alquanto insolite per Pompei, prima solo sporadicamente presenti, frammiste alla terra bruna scura dello strato sottostante, sia in misura ora notevolmente evidente, sia pure senza costituire una couche omogenea, nello strato giallino immediatamente seguente. Tali pomici, di color grigio chiaro con composizione fonolitica sono state analizzate e riconosciute come quelle databili al carbonio 14 ad 8010 anni da oggi con un errore stimabile in più o meno 35 anni e pertinenti alla eruzione nota in letteratura come eruzione “ di Mercato” o “di Ottaviano”, altrimenti designata in antico come delle “Pomici Gemelle”. Fig. 12 5

[FIG. 13] Questi ultimi due strati, indicati in figura coi numeri 52 e 53, pur mostrando superfici erosionali a tetto, sono caratterizzati, in tutte le sezioni, da continuità laterale. Al di sotto di tali livelli, va collocato il paleosuolo (54) di colore marrone giallastro, assolutamente privo di ogni reperto e poggiante a profondità differenti su quella lava di composizione tefritica ascrivibile a colate preistoriche, che insistono sotto l’intero abitato di Pompei antica, correlabili con quelle affioranti a sud-est dell’Anfiteatro.

Fig. 13 La setacciatura attenta di questi strati ha però dato giusto compenso ai nostri sforzi, fornendoci quelle risultanze alle quali con fiducia tendevamo e che erano anzi fortemente attese. [FIG. 14] Nello strato grigio di terreno pozzolanico (51) sono così già apparsi 30 frammenti d’impasto, che sono diventati circa 360 nella terra bruna scura (52), per poi divenire appena 6 nello strato giallino in cui rilevanti erano invece le pomici (53), e scomparire del tutto nello strato sottostante marrone giallastro (54). Questi frammenti sono stati sottoposti all’esame del collega specialista di preistoria Amodio Marzocchella, della Soprintendenza Archeologica di Napoli, [FIG. 15] che ha appurato trattarsi di frammenti databili al Neolitico finale (metà del IV mill. a.C.), che nella figura vengono inquadrati nella loro successione stratigrafica temporale [FIG. 16]. Essi sono pertinenti per lo più a vasi quali [FIG. 17] scodelle e olle con anse tubolari e prese a rocchetto o con motivi ad excisione riconducibili alla facies archeologica di “Diana”, attestata in Italia centro-meridionale e in Sicilia. [FIG. 18] L’analisi mineralogica e petrografica ne ha poi mostrato una sostanziale omogeneità compositiva da ricondurre a probabile origine locale[FIG. 19], ma in un caso ci sono evidenze di materiale ceramico [FIG. 20] sicuramente di provenienza esterna all’area napoletana per l’abbondante presenza di magnetite e di cui non è purtroppo possibile stabilire la provenienza. [FIG. 21] Mentre di tale campione è evidente la differenza compositiva

Fig. 14 6

Fig. 15

Fig. 16

Fig. 17

Fig. 18 dell’argilla, i restanti campioni mostrano un’elevata similitudine chimica tra di loro. [FIG. 22] Inoltre il confronto con una produzione di ceramica comune tardoantica da via Lepanto (area gialla) 7

e due scarti di produzione da una fornace di epoca romana permettono di dare a tali frammenti una produzione locale che ha utilizzato, quindi, per millenni con continuità, lo stesso materiale. [FIG. 23] Altri frammenti attribuibili alla stessa facies sono poi ricomparsi in maniera del tutto simile a quella ora descritta anche nel Fig. 19 saggio D. Posso ora inoltre già annunciare che un cospicuo numero di essi si è rinvenuto in eguali condizioni stratigraficamente controllate nel corso dei saggi da noi effettuati nel 2006 nella casa di Trebio Valente,[FIG. 24], ossia più ad est, ancora lungo la via dell’Abbondanza, a distanza di circa un centinaio di metri. Ciò mi porta ad affermare che, sebbene non si siano ancora rinvenute installazioni abitative, si può tuttavia decisamente parlare di qualcosa di più che una semplice frequentazione del sito. Finora si erano potute evidenziare probabili tracce della presenza di piccoli nuclei abitativi nel sito di Pompei e certamente nella sua immediata periferia nel corso dell’antica e media età del Bronzo, grazie ai ritrovamenti a Pompei nel giardino della casa di Lucrezio Frontone e nel saggio ad est della Torre III, cui ora si aggiungono quelli cospicui e contestualizzati effettuati dall’équipe svedese nell’insula V 1 e, nel suburbio, quelli di S. Abbondio abitato, dei carotaggi effettuati a Murecine, e ancora più recenti di S. Abbondio necropoli, a cura di Marisa Mastroroberto1. Nulla, tuttavia, ad eccezione di un frammento di ascia in pietra verde, recuperato fuori contesto in un saggio presso Porta Nola, lasciava immaginare quel fenomeno insediativo antropico che sul finire del neolitico ha caratterizzato il sito, come invece l’abbondanza dei reperti, soprattutto se correlata all’esiguità dell’estensione di suolo investigato, lascia pianamente ora palesare. C’è, in verità, da dire che la presenza di piccole comunità del Neolitico finale nel territorio a sud del Vesuvio non rappresenta però una novità assoluta. Se pur scarsi, reperti risalenti a questo periodo sono infatti presenti tra i materiali della grotta Nicolucci e delle Noglie nella penisola sorrentina e, più di recente, un paleosuolo simile a questo rinvenuto a Pompei, con materiali 1

Una disamina dei rinvenimenti pompeiani riferibili all’età preistorica e protostorica è stata di recente offerta da CARAFA 1999, p. 29s., alla quale si rimanda anche per la relativa bibliografia per la parte che non si aggiorna. I rinvenimenti dell’insula V 1 sono invece editi in questo stesso volume da Monica NILSSON mentre per quelli di S. Abbondio si veda MASTROROBERTO, 1988. Per i carotaggi di Murecine v. EAD. 2001. 8

Fig. 20

Fig. 21 Fig. 22 2 archeologici dello stesso tipo, è stato segnalato a Sarno, loc.Foce da Amodio Marzocchella, così come proprio da poco reperti della stessa facies sono stati individuati nelle indagini connesse alla realizzazione della Circumvesuviana tra Boscoreale e Boscotrecase effettuate sotto la guida di Grete Stefani o ancora ad Avella da Claude Albore Livadie3. Da ultimo vanno inoltre segnalati, scendendo più a sud, i rinvenimenti di livelli di occupazione del Neolitico Finale effettuati a Pontecagnano da Pellegrino4 e a Battipaglia da Scarano5 nel corso dei lavori di ampliamento dell’autostrada A3. I rinvenimenti di Pompei, dunque, non avrebbero nulla di sensazionale e avrebbero allora un valore esclusivamente in relazione alla storia del sito, senz’altro poi divenuto uno dei più noti del mondo antico. Qualcosa di diverso e di ulteriore essi però effettivamente lo dicono. Nello strato più densamente fornito di frammenti d’impasto, accanto ad essi [FIG. 25] si sono rinvenuti in gran quantità resti di semi e di radici mineralizzate, che, analizzati dalla dr.ssa Annamaria Ciarallo, direttrice del laboratorio di analisi della SAP, sono stati riconosciuti come di piante tipiche dei terreni paludosi. Sia i semi che le radici hanno subito un processo di travertinizzazione dovuto a 2

Cfr. MARZOCCHELLA 1986. Cfr. STEFANI 1999, p. 216S. con bibliografia precedente a n. 2. Ad est del Vesuvio, invece, si segnalano i rinvenimenti di Avella, per i quali cfr. ALBORE LIVADIE 1987-8. Per la pianura campana, invece cfr. la disamina fatta nell’introduzione da MARZOCCHELLA 1988, con la presentazione di nuovi rinvenimenti ibid., pp. 105-113. 4 Cfr. PELLEGRINO 2005. 5 Cfr. SCARANO 2005. 3

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Fig. 23

Fig. 24 precipitazioni di carbonato di calcio, cosa che lascia ivi intuire lo scorrimento di acqua ricca in componente calcarea. I semi peraltro sono relativi a piante acquatiche e di sponda proprie di habitat con acque leggermente fluenti. Tale dato chiarisce intanto il perché i pomici si siano rinvenuti come fluitanti nel terreno e non in couche compatta, ma fornisce poi anche un’immagine precisa e inattesa del paleopaesaggio, anche se già fatta intravedere dai carotaggi, immagine ambientale che rimanda appunto a stanziamenti soliti delle comunità neolitiche. [FIG. 26] Ancora nello stesso strato sono poi state rinvenute selci e scorie di lavorazione di selci e, ciliegina sulla torta, alcuni frammenti di ossidiana e di scorie di ossidiana con tracce di lavorazione. [FIG. 27] Anche per essi è stata 10

Fig. 25

Fig. 26 effettuata l’analisi petrografica mediante fluorescenza ai raggi X, che ha dato risultati del tutto inaspettati, evidenziandone una composizione pantelleritica che esclude una provenienza locale (Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia) o da Lipari. [FIG. 28] Un preliminare confronto con analisi [FIG. 29] provenienti da ossidiane peralcaline del Bacino del Mediterraneo rileva una composizione simile ai rioliti propri dell’isola di Pantelleria. [FIG. 30] Un’isola, questa, posta al centro del Mediterraneo, tra Sicilia ed Africa, non certo raggiungibile con percorsi di piccolo cabotaggio, con navigazione a vista, con “piccoli” salti da costa a costa, come si propendeva generalmente a ritenere fosse stata la navigazione nell’età 11

Fig. 27

Fig. 28

Fig. 29

Fig. 30

neolitica. D’altra parte Medas, nel raccogliere tutta la documentazione archeologica concernente la navigazione in età preistorica ha potuto non solo documentare “vere e proprie navigazioni d’alto mare, in grado di percorrere tutto il Mediterraneo”6, ma anche ricostruire i tipi di imbarcazione allora ipotizzabili7. Se, d’altra parte, si osserva la carta edita da Camps8 a riguardo dei siti con giacimenti di ossidiana e quelli ove è presente l’industria di ossidiana, si noterà che da Pantelleria l’ossidiana raggiungeva non solo l’Africa, ma anche Lampedusa e Malta, rotte di ca. centocinquanta chilometri che comunque già presuppongono navigazione di fatto non a vista, e quindi affidata alle 6

MEDAS 1993a, p. 9. MEDAS, 1993b, part. pp. 115-131. 8 CAMPS 1985, p. 289, fig. 54. 7

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stelle, al volo degli uccelli migratori o alle correnti, e addirittura le coste meridionali della Francia, e ora sappiamo aggiungersi anche Pompei. Non congruo appare immaginarne il trasporto piuttosto per via di terra, attraverso la Sicilia prima e poi la Calabria, anche in considerazione dei giacimenti di Lipari, molto più prossimi all’Italia continentale, se questa fosse stata la strada effettivamente utilizzata. Si deve allora piuttosto parlare di un’autentica cultura marinara, affidata magari a vele che non erano certo più semplici rami ricoperti di foglie, di cui erano depositari quegli intrepidi marinai che, portando ricorrentemente i loro prodotti, già solcavano il Mediterraneo da un capo all’altro, ben oltre duemila anni prima dell’avventura di Ulisse. Cercando allora di tirare le fila da quanto emerso da tali rinvenimenti proviamo a fare alcune considerazioni. [FIG. 31] L’eruzione di Mercato è una delle quattro eruzioni pliniane che hanno interessato il complesso vulcanico del Somma-Vesuvio negli ultimi 20.000 anni. Pertanto, dal piano di calpestio romano a Pompei, su cui si sono depositate le pomici dell’eruzione del 79 AD, al top dello strato 54, su cui si sono depositate le pomici dell’eruzione di Mercato, sono racchiusi i 6000 anni che separano queste due eruzioni. Tra questi due marker stratigrafici è stata individuata la facies archeologica di Diana (≈3500 a.C.), ma non i prodotti dell’eruzione di Avellino (3760+- 70 BP), nè i reperti relativi all’antica e media età del Bronzo. [FIG. 32], La marginalità dell’area di Pompei rispetto all’asse di dispersione dei prodotti da caduta e dei surges dell’eruzione di Avellino potrebbe giustificare la mancanza di rinvenimento dei prodotti di questa eruzione, ma lascia pensosi il notare che non si sono avuti nel sito indagato rinvenimenti di sorta relativi all’età del bronzo, che si è presentato invece solo poche centinaia di metri più a nord, dove non si ha invece notizia di ritrovamenti riferiti ad un periodo anteriore (ma sono stati essi cercati?).

Fig. 31

Fig. 32

In una situazione che ancora abbisogna quindi di dati certi ed estesi va comunque tenuto presente che la sopraelevazione del sito sui territori circostanti, potrebbe aver favorito la perdita di informazioni relative ad eventuali altre eruzioni sub-pliniane avvenute tra quelle di Avellino e Mercato, o di manifestazioni secondarie comunque legate all’attività del vulcano. In questo caso non sarebbero rinvenibili le prove del possibile abbandono dell’ insediamento fino al ritrovamento dell’insediamento stesso. Più semplicemente, se il sito si sia semplicemente spostato di poco più a nord in posizione più elevata, potrebbero essere semplicemente variate le condizioni geoambientali, o le esigenze economiche e sociali della comunità. L’accertamento di tali cause, che attualmente ci sfuggono, potrebbe essere uno degli obiettivi della futura ricerca su Pompei, in quanto contribuirebbe da un lato alle valutazioni di pericolosità del sito, dall’altro alla comprensione dei fenomeni migratori dell’area nella preistoria. 13

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