Relazione, salute e coscienza: contributi e limiti dell'approccio sistemico Massimo Schinco1 In questa lezione si cercherà di volare un poco in alto, avanti e indietro nel tempo, nel dominio delle teorie, della loro storia; ci occuperemo anche di metateorie, cioè degli assunti, delle premesse che stanno dietro lo sviluppo dei paradigmi teorici. Fare tutto questo richiede che iniziamo ponendoci una domanda: che cosa sono le teorie? La risposta che vi propongo è: sono costruzioni nostre che aspirano a metterci in relazione con la verità; esse hanno bisogno di tempo per rivelare la loro utilità, per essere modificate e interpretate, corroborate dai ritorni che la loro applicazione può consentire nel vissuto concreto della relazione clinica con le persone così come dalle evidenze che la ricerca può fornire. Cercheremo quindi di posizionarci in un dominio che di per sé è una cornice, in quanto l’approccio sistemico, più che una teoria tendente a spiegazioni totalizzanti, è un insieme, è una vera e propria metateoria, cioè un dominio intero di approcci teorici accomunati da una mentalità e da premesse condivise. Per questo è ancor più necessario soffermarci su alcuni principi generali; vedremo tra l’altro in che modo già essi possono essere d’aiuto e di supporto nella relazione con persone che non stanno bene. Proprio per ben definire questa cornice e questa mentalità dovremo dedicare un po’ più di tempo di quello che sarebbe naturale aspettarsi alla storia di questo approccio, ai precursori, al terreno in cui quella “foresta di pensieri” che è l’approccio sistemico è cresciuta. . 1.
I precursori
Nel soffermarci sui progenitori e sugli ascendenti in generale dell’approccio sistemico partiremo veramente da lontano, e cioè da Hans Driesch (1867 –1941) che fu biologo e pioniere dell’embriologia. Questi tra l’altro fece le sue ricerche in Italia ed elaborò a partire da esse (siamo alla fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo), una filosofia di stampo vitalistico che si opponeva all’evoluzionismo meccanicista. Questa sua visione delle cose, benché fosse radicata in studi di tipo sperimentale, lo portò ad elaborare posizioni di stampo metafisico, che gli costarono un certo ostracismo da parte della comunità scientifica. Prestiamo attenzione ai termini che usava, perché che ci interessano, visto l’argomento della nostra lezione. Driesch ipotizzava come causa della differenziazione, dello sviluppo e dell’evoluzione degli organismi viventi l’azione di un principio vitale non
meccanicistico, immateriale e sovra personale; a questo principio egli attribuiva una caratterizzazione in senso finalistico. In termini discorsivi si potrebbe definire così: c’è un grande tipo di forza che io non conosco; so che non è materiale, non funziona come una macchina e guida lo sviluppo e la differenziazione di tutto ciò che è vivente.
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Testo corretto della relazione presentata al convegno della Fondazione Maddalena Grassi “LA RELAZIONE E’ TERAPIA - Secondo convegno sulla cura, riabilitazione e assistenza dei pazienti con gravi lesioni cerebrali acquisite. Esperienze a confronto - Vigevano, 17 Ottobre 2009”
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Per denominarla riesumò il termine aristotelico “entelechìa”. Naturalmente fu molto contestato. Lo definirono un grande artista più che uno scienziato (e anche questo, come vedremo più in là parlando di “approccio estetico”, ci interessa): lo chiamavano, un po’ per ammirarlo e un po’ per dileggio, il “Franz Schubert” della biologia. Scriveva Driesch tra l’altro:
“Lo sviluppo inizia con poche ordinate varietà, ma le varietà creano interagendo nuove varietà e queste sono in grado, agendo a ritroso su quelle originali, di provocare nuove differenze e così via: con ogni nuova risposta immediatamente si dispone di una nuova causa e di una nuova specifica reattività per ulteriori specifiche risposte. Possiamo derivare una struttura complessa da una semplice data nell’uovo.” 1 Qui troviamo una notevole anticipazione di termini e temi propri dell’approccio sistemico e della cibernetica: varietà, interazione, differenza, processo di retroazione (cioè il ritorno di informazione che suscita nuove catene causali). La retroazione, in questo caso, è positiva perché crea sviluppo e differenziazione. Avvertiamo nelle parole di Driesch la nascita di uno spirito, di una sensibilità, di un interesse specifico verso il mondo del vivente che, pur presentando aspetti meccanici nella sua attualità, non può essere spiegato solo in senso meccanicistico. Ci soffermiamo ora su un altro grande studioso, Heinz Werner (1890 – 1964), autore della “Psicologia
comparata dello sviluppo mentale”: un testo di riferimento per la comprensione dei fenomeni dello sviluppo e della regressione negli esseri viventi. Werner faceva dei ragionamenti di tipo comparativo applicati agli animali, ai bambini, a persone che portavano patologie, e infine persone che ai tempi erano chiamate “i primitivi” e ci mostrava come le leggi dello sviluppo debbano essere comprese attraverso il riconoscimento di qualità di tipo formale. Ci vuole una sensibilità estetica, nel senso filosofico del termine, per percepire quelle modificazioni della forma che segnano il sopravvenire dello sviluppo così come della regressione. Per Werner lo sviluppo procede da
uno stato di relativa mancanza di differenziazione a uno stato di crescente differenziazione e integrazione gerarchica: ad esempio il neonato ha una motricità diffusa, centrifuga, massiva, poi abbastanza velocemente impara a differenziare i suoi movimenti, ad articolarli nel tempo, a ordinarli e finalizzarli. Werner ci ha lasciato un contributo veramente molto utile per osservare e per capire. Attraverso il pensiero di due giganti come William James (1842 – 1910) e Henri Bergson (1859 – 1941), l’uno statunitense e l’altro francese, abbiamo un approccio alla realtà di tipo esperienziale, ove sia la realtà che la coscienza ci appaiono come una totalità indivisa ed in movimento: il nostro pensiero, attraverso il nostro cervello, introduce differenze e divisioni nel reale, allo scopo di agire, di poter fare qualcosa. Ma nella realtà queste differenze e divisioni sono molto meno nette o assolute di quelle che noi ci figuriamo nella nostra mente;
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Analytische Theorie der organischen Entwicklung, Engelmann, Leipzig (1894).
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soprattutto sono mutevoli e non definitive. Per questo, entrambi gli Autori ci avvertono che non dobbiamo sopravvalutare le teorie, in quanto esse, per necessità di chiarezza scientifica hanno bisogno di essere ben ritagliate, con angoli e spigoli vivi, e di riferirsi ad oggetti sostanzialmente diversi tra loro e connessi tra di loro secondo le regole della logica (cause, effetti, soggetti, oggetti, qualità etc. etc.). Ciò significa che il mondo del vivente può
essere rappresentato da queste teorie ma non coincide con esse. Soprattutto la vita e la coscienza non obbediscono a queste logiche, così “lineari” e “spigolose”. E’ da sottolineare come Bergson, premio Nobel nel 1927, avesse una straordinaria sensibilità per la allora nascente fisica dei quanti, che rimetteva in discussione i rapporti tra osservato e osservatore, cioè i confini che noi con le nostre osservazioni inseriamo nel mondo osservato. Altri precursori sono gli psicologi della Gestalt (siamo in Germania, dal 1912 in poi). Il termine “Gestalt “viene generalmente tradotto con “forma”, “raffigurazione”, “raggruppamento”. Per i gestaltisti la percezione è un atto unitario ad opera di un organismo attivo; la percezione è caratterizzata da configurazioni con carattere di totalità. Un esempio banale: come si fa a non dimenticare niente in una stanza di albergo quando ci si accinge a lasciarla? E’ necessario tenere le proprie cose raggruppate e vicine; se per caso le si avrà disperse qua e là, sarà molto più probabile dimenticare qualcosa! Nuovamente, secondo i gestaltisti, la suddivisione della realtà in elementi semplici è qualcosa che noi facciamo a scopo pragmatico, utilitaristico, ma la nostra attività psicologica è sempre organizzata per insiemi, raggruppamenti, configurazioni. Ciò vuol dire che la nostra mente è parte attiva nel processo, non siamo dei semplici percettori passivi. Con la psicologia della Gestalt si sviluppa una mentalità, oggi molto più acquisita che in passato, secondo cui la nostra mente partecipa molto attivamente alla costruzione del reale. A partire dalla scuola gestaltista Kurt Lewin (1890-1947) elaborò una complessa psicologia sociale che anticipava molti aspetti della teoria sistemica. Egli, mutuandolo dalla fisica, si riferiva al concetto di campo anziché di sistema, e lo considerava determinato dal complesso e dall'interazione delle forze in gioco; interazione che doveva essere descritta in termini matematici. La teoria di Lewin patì però di un eccesso di complessità e di sforzo analitico, per cui la sua applicabilità fu relativamente ridotta; non dimentichiamo però che negli ultimi anni della sua vita Lewin parteciperà alle Macy’s Conferences, decisive per la nascita dell’approccio sistemico. Ben diverso destino hanno avuto i monumentali lavori (a onor del vero, spesso ipersemplificati e fraintesi...) di Jean Piaget (1896 - 1980). Per evocare lo spirito che pervade il suo contributo alla teoria generale della conoscenza si può citare questa sua bellissima frase: “L’intelligenza organizza il mondo organizzando sé
stessa”: nel momento in cui noi costruiamo un’immagine del reale questa immagine entra a far parte della realtà stessa per cui noi dobbiamo interagire con essa. Il bambino fa questo fin dall’inizio, è un costruttore attivo dell’immagine del reale e lo fa sempre in interazione. Bisogna però notare che Piaget non accentuava molto l’aspetto specifico dell’interazione sociale nella costruzione della conoscenza ed è stato anche duramente criticato per questo. Però, al di là delle sue intenzioni, tutto il fondamento della sua psicologia è di tipo interazionista e con l’andar del tempo il suo pensiero, nel quale è centrale il tema della conoscenza quale risorsa biologica funzionale
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all’adattamento, è diventato sempre più sistemico; pensiamo a temi come l'organizzazione e Il mantenimento dell’equilibrio; oppure di come si genera un cambiamento discontinuo, nell'acquisizione come nel decadimento di una funzione o di un apprendimento. Non certo per caso Piaget è stato un membro di spicco della Society for
General System Research di cui parleremo più in là. Anche Carl Gustav Jung (1875 – 1961) può essere considerato un precursore di talune caratteristiche dell’approccio sistemico; per iniziare, secondo Jung, è impossibile concepire il funzionamento individuale se non in termini di appartenenza a realtà sovraindividuali. E poi: il drastico ridimensionamento della causalità lineare, cioè il principio per cui un fenomeno A è causa di un fenomeno B e questa descrizione è sufficiente; ancora: il superamento della concezione unicamente diacronica del tempo, per cui gli avvenimenti si svolgerebbero rigidamente secondo una freccia temporale irreversibile. Non è facile “sentire” dentro noi una posizione di questo tipo, dal momento che siamo abituati a pensare secondo una concezione del tempo rigidamente lineare. Diversi studiosi, sia tra coloro che hanno anticipato l’approccio sistemico, sia tra i sistemici stessi, vanno oltre questa concezione, considerando il tempo lineare come uno, ma non l’unico, dei tempi in cui noi viviamo. Qui tocchiamo un punto molto importante, che ci porta direttamente nel campo in cui i partecipanti a questo convegno operano, in quanto la ridefinizione del tempo porta con sé un drastico ridimensionamento dell’io e delle sue operazioni progettate a partire dalla finalità cosciente. Questa sopravvalutazione dell’io che decide, pensa di governare tutto, di essere il capitano della sua anima e della sua vita è un dato culturale tipico dell’occidente; sicché quando questo “io“ per qualche motivo non riesce a più funzionare come prima immediatamente, la persona sente di perdere di valore di fronte a se stessa e alla società. Questa svalutazione avviene al di là della deliberata volontà dei singoli, al di là dei sistemi di credenze, è un automatismo che portiamo dentro di noi. Bene, Jung ci aiuta a stare in guardia nei confronti di automatismi di pensiero di questo genere. Infine, il pensiero junghiano sottolinea anche la tendenza all’autoguarigione spontanea di ciò che è vivente; ci fa cioè riflettere su come i sistemi viventi, proprio perché viventi, tendano spontaneamente a cercare di rimettersi a funzionare quando non funzionano, cercando una via di uscita secondo modalità del tutto pragmatiche. Possiamo anticipare qui che in tutte le terapie di ispirazione sistemica questo aspetto riveste una grande importanza. Con questa carrellata abbiamo visto come nel tempo si siano create: un’atmosfera di particolare attenzione ai fenomeni della vita dello sviluppo dell’organizzazione; un’insoddisfazione verso il meccanicismo riduzionista che vuole, attraverso la frammentazione del sistema e l’isolamento di variabili, spiegare il più grande a partire dal più piccolo, il particolare sempre a partire da principi generali, il presente dal passato. Una scienza configurata su questi principi si prefigge senz’altro lo scopo di rendere prevedibile e controllabile il futuro. Un intento in qualche misura utile e necessario finché non diventa l’unico, il più importante così da essere unilateralmente perseguito. Con la revisione del concetto di causalità, che come vedremo fra poco è un
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punto qualificante dell’approccio sistemico, tutta la nostra mentalità, proprio quella in cui siamo stati educati fin da bambini, viene rimessa in discussione, e si sviluppano sia la sensibilità verso l’interazione tra i fenomeni della vita e i fenomeni della conoscenza, sia l’insoddisfazione verso l’eccessiva frammentazione della scienza. Purtroppo i ricercatori tendono ad essere molto isolati per aree di competenza e anche i professionisti stessi di conseguenza lo sono. La tendenza alla specializzazione, che di per sé è una cosa anche buona perché permette di fare più attenzione ai fenomeni studiati, rischia di diventare una prigionia. Sicché alla fine, quando si scende sul campo operativo, la persona che deve essere curata risulta esse come “spezzettata” e ognuno si occupa esclusivamente di una parte. Nell’ambito di questa onda montante di sensibilità rimanevano però della questioni aperte: 1.
come si concilia l’evoluzione con il secondo principio della termodinamica (secondo questo principio man mano che un sistema fisico procede nel suo funzionamento l’entropia tende al massimo: come si spiega allora che noi continuiamo in qualche modo a svilupparci anziché decadere? O forse, in realtà, attraverso lo sviluppo siamo sulla strada di un clamoroso e irrimediabile degrado)?
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esiste un modo scientificamente accettabile per spiegare il rapporto tra materia non animata e materia animata? Se da una parte i sistemi viventi si comportano come macchine, come mai da un'altra sono coscienti? E se obbediscono al principio di causalità, lineare o meno che sia, quale facoltà abbiamo noi di decidere la direzione del nostro comportamento? Che rapporto c’è tra questi due mondi, l’inanimato/incosciente da una parte e l’animato/cosciente dall’altra? Per rispondere dobbiamo invocare la presenza di principi vitalistici e/o metafisici come sosteneva Driesch?
La nascita dell'approccio sistemico L’approccio sistemico nacque proprio con l’intento di rispondere a queste due domande. Il contributo decisivo fu quello del biologo viennese Ludwig Von Bertalanffy (1901 – 1968). Le sue frequentazioni giovanili fanno presagire il segno importante che lascerà nella storia del sapere; dopo aver beneficiato dell’influenza di Kammerer divenne studente di Fechner; fu in seguito uno dei promotori del circolo di Vienna (dove troviamo, tra gli altri, Carnap, Godel, Tarsky, Wittgenstein e Popper). Dopo alcuni articoli preliminari, nel 1951 pubblica “General system theory - A new approach to unity of
science”. Nel 1954 fonda la Society for General Systems Research, a cui hanno appartenuto, tra gli altri, W. Ross Ashby, Margaret Mead, Heinz Von Foerster, Jean Piaget, Karl Menninger, Franz Alexander. Von Bertalannfy passò molti anni della sua vita in Canada ove svolse gran parte del suo lavoro. Non è certamente l’unico inventore della teoria dei sistemi. Si può però dire, metaforicamente parlando, che l’epicentro di questo benefico terremoto corrisponde con la sua figura. Val la pena di ribadire questo punto: coerentemente con ciò che sostiene, la teoria dei sistemi non è nata dal lavoro di una singola persona: certamente è esistita una singola persona che ha fornito un particolare contributo creativo, organizzativo e di sistematizzazione, e questa è stata Von
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Bertalanffy. La teoria però è stata generata dal dialogo di una comunità di studiosi a cui partecipavano studiosi di svariati indirizzi: psichiatri, antropologi, matematici, elettrotecnici, sociologi, psicologi biofisici, addirittura persone totalmente estranee al mondo della scienza. La finalità dei loro tentativi era quella di verificare se, attraverso un confronto non competitivo ma rigoroso, si potesse ovviare alla frammentazione della scienza che ci presentava un essere vivente troppo suddiviso in parti che poi non si conciliavano tra loro. Eventi chiave per la nascita dell’approccio sistemico, che vede il suo irreversibile interconnettersi con la teoria dell’informazione e con la cibernetica (Cybernetics di Norbert Wiener viene pubblicato nel 1948) furono quindi le Macy’s Conferences che si tennero tra il 1946 e il 1953. Il nucleo storico delle conferenze è costituito da psichiatri, come Mc Cullough, Ashby e Kubie; antropologi, come Bateson e Mead; matematici, come Von Neumann, Savage, Pitts, Wiener… ma anche elettrotecnici, sociologi, psicologi, biofisici. Inoltre si uniscono, a seconda delle occasioni, scienziati e non scienziati di svariate provenienze. Un’altra caratteristica importante dell’approccio sistemico è che, fin dall’inizio, esso fu in rapporto col mondo della psichiatria e della psicoterapia. Mc Cullough, Ashby, Kubie (come abbiamo appena visto) parteciparono attivamente all’invenzione dell’approccio sistemico. Spicca inoltre tra loro la figura, poco conosciuta in Europa, di Karl August Menninger (1893 – 1990), fondatore, insieme al padre Charles Frederick, della
Menninger Clinic e della Menninger Foundation, e tra i fondatori della Society for General System Research. Karl Menninger è uno dei personaggi che hanno maggiormente influenzato la psichiatria americana. Nella sua ricerca di un approccio globale allo studio della mente, Menninger cercava un dialogo con il mondo della metafisica e della religione; affascinato dalle più bizzarre alterazioni degli stati di coscienza cercò di coniugarne lo studio con l’attenzione a fenomeni di tipo preternaturale. Inoltre, alla fine della sua vita Menninger scrisse a Thomas Szasz prendendo posizioni fortemente critiche nei confronti dei sistemi di diagnosi e terapia vigenti, oppressivi, alienanti e punitivi. Psichiatria, psicoterapia e approccio sistemico sono dunque fortemente connessi fin dall’inizio, generalmente in posizione critica verso le pratiche terapeutiche dominanti in tempi in cui maturano le correnti che porteranno alla compilazione del DSM.
Alcuni fondamenti dell’approccio sistemico.
Non è certamente possibile in questa sede presentare una panoramica soddisfacente di ciò che caratterizza l’approccio sistemico sul piano teorico. Fare qualche necessario e breve cenno però darà una prima idea di come l’efficacia della teoria sia tutt’uno con l’eleganza e la semplicità dei suoi principi fondamentali. La definizione tradizionale di sistema è: “insieme di oggetti, dei loro attributi, e delle relazioni tra loro”.
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Mentre nel comune uso del linguaggio l’attenzione è orientata su soggetto, oggetto, verbo e attributi, nell’approccio sistemico il fuoco dell’attenzione è sulla relazione: gli oggetti stessi si definiscono a seconda delle relazioni che hanno tra di loro. Nell’approccio sistemico riconosciamo delle organizzazioni di tipo gerarchico, cioè dei sottosistemi che integrano il sistema. Un esempio molto semplice è quello di una famiglia, in cui riconosciamo facilmente dei sottosistemi, come quello dei genitori, quello dei figli, o altri raggruppamenti di parenti e persone significative. Nella loro definizione tradizionale i sistemi sono considerati come aperti, cioè scambiano con l’ambiente materiali, energia e informazioni. Naturalmente viene enfatizzato al massimo lo scambio di informazioni, che finisce per avere una prevalenza rispetto agli altri due. È importante considerare qualcosa delle tre leggi fondamentali che regolano il funzionamento dei sistemi: la circolarità, la totalità e l’equifinalità. I sistemi obbediscono alla causalità circolare: non è sufficiente affermare “A è causa di B”; deve essere sempre preso in considerazione l’effetto di ritorno che B ha su A. La circolarità è la chiave che permette di comprendere la forma delle relazioni nei sistemi viventi. I sistemi, poi, obbediscono alla legge della totalità (o “non sommatività”), per cui un sistema è sempre più della somma dei suoi elementi. Per fare un semplice esempio di questo, consideriamo il mondo del lavoro: i singoli elementi di una organizzazione certamente sono molto importanti, però un’organizzazione può conservare una sua identità anche se si avvicendano alcuni elementi al suo interno. E anche l’inverso è valido: quando una persona entra a far parte di un sistema sociale il suo senso di identità e il suo comportamento cambiano. Nessuno, e tantomeno un paziente vegetativo esiste come entità isolata. Infine l’equifinalità. Principio affascinante, per cui talvolta cause molto piccole innescano processi di cambiamento di grandi dimensioni mentre, viceversa, il dispendio di tante energie nel tentativo di influenzare pesantemente un sistema a volte non sortisce nessun effetto o quasi. Seguendo il principio di equifinalità non siamo interessati a trovare la causa remota del perché un sistema funziona in un certo modo; se vogliamo agire su un sistema dobbiamo trovare la variabile a cui è sensibile in un determinato momento, il punto in cui è accessibile qui ed ora. Chiunque si impegna a stare in relazione con gli altri sperimenta continuamente tutto ciò. A proposito di equifinalità voglio fare un esempio che mi sta a cuore. Una collega ha avuto dei risultati piuttosto eclatanti con un giovane che soffre di disturbi del cosiddetto “spettro autistico”, quindi difficili da definire: il ragazzo non parlava, non leggeva e non scriveva. Comunicava con grugniti e urla e aveva anche disturbi comportamentali. La famiglia lo aveva portato in tutto il mondo per farlo esaminare, ottenendo sempre lo stesso responso, e cioè che il ragazzo non avrebbe mai avuto accesso alla sfera simbolica. Quando la collega lo conobbe era laureata da poco e la famiglia le chiese di seguire il ragazzo come educatrice/tutrice. Insomma passavano ore insieme tutti i giorni, e il ragazzo interagiva in modo apparentemente primitivo. Le ore non passavano mai… e la collega disse a se stessa: “io ci provo”. Con l’aiuto di una versione un po’ personale di tecniche di comunicazione facilitata la collega ottenne che questo ragazzo iniziasse a leggere e a scrivere; ha addirittura pubblicato un libro di poesie, e l’uso del computer gli permette una comunicazione ricca e profonda. Naturalmente la collega ad un certo punto gli ha chiesto: “ma scusa un po’, perché con tutti quegli altri non imparavi niente e con me invece hai fatto
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tutto questo?” La risposta è stata: “quegli altri mi prendevano per scemo”. Che cosa vuol dire questo alla luce del principio di equifinalità? Vuol dire che nella relazione la mia faccia
parla, i miei occhi parlano. Con il suo viso, con il tono della sua voce la collega ha chiaramente comunicato al suo utente che non solo non lo prendeva per scemo, ma era anche realmente molto incuriosita da lui. Questa “piccola” differenza ha innescato un cambiamento di proporzioni gigantesche. Le dimensioni di un processo come quello sopra esemplificato peraltro non ci stupiscono alla luce dei meccanismi di retroazione, negativa e positiva, che caratterizzano i sistemi; la risposta che viene dall’ambiente può condurre un sistema verso l’equilibrio (retroazione negativa) come può portarlo lontano dall’equilibrio, ad esempio in una direzione di crescita. Ilya Prigogine sostiene che lo sviluppo è lontano dall’equilibrio, e anche Piaget metteva bene in luce come, nello sviluppo del bambino, si alternino periodi in cui l’equilibrio è conservato ad altri in cui l’equilibrio è messo in discussione. Per tutti coloro che si occupano di sviluppo è molto importante riconoscere il giusto periodo di queste oscillazioni. Se infatti “sfidiamo” un sistema in stato di equilibrio nel momento sbagliato non otterremo crescita, bensì regressione. Soffermiamoci ancora un momento sul rapporto tra entropia negativa (cioè informazione) e sviluppo; possiamo affermare che lo sviluppo di un sistema si nutre di entropia negativa. Per i sistemi umani ciò vuol dire che essi sono sempre sensibili al significato e l’esempio sopra riportato lo testimonia molto efficacemente!). Qualsiasi cosa facciamo la domanda appropriata è: che cosa significa ciò nella relazione di cui sono parte? Che cosa significa per colui che riceve il mio stimolo? Insomma, noi siamo sempre inseriti in un dominio di significato, per cui dobbiamo, per prima cosa, porre attenzione al significato e alla relazione. Possiamo anche realizzare delle strutture riabilitative fantastiche, ma se al loro interno la relazioni non funzionassero, otterremmo ben poco. Con queste considerazioni ci poniamo direttamente in un’ottica di complessità. Ad esempio, Von Bertalanffy metteva in luce che i sistemi viventi hanno degli aspetti meccanicistici. Tutti i giorni figure professionali come i medici, gli infermieri, i tecnici di laboratorio interagiscono con aspetti meccanici del funzionamento dell’essere umano. In una chiave di complessità, però, questa meccanica viene inserita in un mondo di significati; certo ci sono variabili che sono prevedibili perché fanno parte di processi caratterizzati in modo piuttosto meccanico, ma già le proprietà sistemiche emergenti rendono ampiamente impredicibile il comportamento del sistema. Oppure lo rendono prevedibile in termini probabilistici più che deterministici. Infatti alle tanto frequenti domande del tipo: “che cosa succederà”, “come si evolverà la situazione” spesso i professionisti della salute possono rispondere solo in termini probabilistici. Ricordiamo inoltre che l’approccio sistemico tende a rifiutare spiegazioni teleologiche ingenue, basate cioè sull’idea che “il progetto sia già tutto scritto prima”. Il finalismo sistemico non è ingenuo: tende a considerare il sistema come un insieme di potenzialità che può prendere mille direzioni diverse. Tende inoltre a rifiutare il vitalismo nella misura in cui questo presuppone l’azione di un principio esterno e separato che, in qualche modo,
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viene come “insufflato” in un sistema di per sé meccanico, animandolo. Il contributo di Gregory Bateson Ci soffermeremo ora sull’originale contributo di Gregory Bateson (1904 -1980). Biologo e antropologo, incline ad incursioni nel mondo della psichiatria, Bateson era affascinato dalla comunicazione e in particolare dalla comunicazione paradossale (fu uno dei co-autori principali della teoria del doppio legame) Bateson è uno degli studiosi che ha maggiormente contribuito, anche se non intenzionalmente, a far conoscere l’approccio sistemico in Europa. Bateson sceglie dichiaratamente un approccio estetico allo studio dei sistemi viventi, fondato sul riconoscimento della “forma della relazione” come chiave per intendere e modellare il reale; è fieramente contrario a quelle tendenze, in ambito sistemico, che ne accentuano gli aspetti ingegneristici, tecnologici, finalizzati al controllo e al potere in ambito umano, soprattutto se di cura; infatti, pur avendo contribuito in modo sostanziale allo sviluppo della terapia familiare, se ne distanzia apertamente. Per Bateson, letteralmente, la “relazione è la cura”. Egli identifica nella finalità cosciente dell’io, prigioniero di visioni lineari e limitate, facilmente guidato da una ostinazione (la “hybris” della tragedia greca) socialmente accettata e incoraggiata, l’avversario più potente della saggezza ecosistemica e l’ostacolo più grande verso uno sviluppo armonioso e verso le capacità di autocura dei sistemi stessi. Elabora inoltre una teoria della mente che valorizza la differenza e il flusso di informazione, mettendo in secondo piano gli aspetti energetici. Per Bateson la mente corrisponde con il sistema nella sua totalità, e quindi essa travalica i confini dei cervelli e dei corpi di ogni singolo individuo. Nonostante abbia anticipato molti temi tipici del post-modernismo, conserva una grande fiducia nella ragione e nella struttura ordinata, gerarchica e significativa del reale. Bolla implacabilmente come “superstiziosa” ogni visione della mente e della realtà che non sia fondata su principi razionali. Nel contempo rivaluta sogno, arte e religione come antagonisti all’eccesso di “finalità cosciente” tipici dell’uomo occidentale. Nonostante l’ampiezza dei suoi interessi, sicuramente il motivo per cui Bateson, è più conosciuto anche a livello divulgativo, è per il suo contributo alla teoria del doppio legame. L’idea originale di questa teoria stava nel ritenere che i sintomi, soprattutto in ambito psichiatrico ed in particolare nell’ideazione delirante, non siano di per sé prodotti da conflitti interni all’individuo ma che viceversa sia i conflitti sia ai sintomi, siano una caratteristica emergente di una certa configurazione relazionale in cui la persona è situata: poniamo una persona all’interno di una relazione vitale come può essere quella genitori-figli, o di grande dipendenza in un ambito di cura, o di insegnamento o comunque gerarchica; se questa persona riceve istruzioni contraddittorie tali da generare dei collassi nella logica quando cerca di obbedire, se infine non può andarsene e non può chiedere spiegazioni, l’unico modo che ha per sopravvivere è produrre dei sintomi nella comunicazione e nell’ideazione, e questi sintomi hanno la struttura caratteristica dell’ideazione delirante degli psicotici. La teoria del doppio legame è molto bella ed elegante e quindi porta con sé il rischio di far innamorare.
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Inoltre appare abbastanza facilmente utilizzabile, sicché genera l’illusione di poterla senza troppe difficoltà trasformare in una sorta di attrezzo terapeutico da tenere nella propria cassetta: magari, invece di somministrare una pillola si può pensare di somministrare un doppio legame. Bateson si irritava molto per questi usi della teoria. Va anche detto che, per parte sua, non aveva una mentalità molto pratica, per cui era poco incline a privilegiare le necessità urgenti della cura. Peraltro i doppi legami sono presenti nella comunicazione di tutti i giorni, generando creatività e non solo patologia. Tra coloro che hanno raccolto in modo più creativo l’eredità di Bateson abbiamo di nuovo due biologi della conoscenza e della percezione, Francisco Varela (1946 - 2001) e Humberto Maturana (1928), entrambi cileni. Essi definiscono i sistemi viventi come “auto poietici”, ovvero in grado di riprodurre la rete di relazioni che ha prodotto loro. Un punto focale e un po’ sconvolgente della loro visione è la concezione dei sistemi viventi come organizzativamente chiusi, il che vuol dire che non scambiano informazione con l’ambiente. Naturalmente i vari sistemi interagiscono tra loro, ma ognuno obbedendo alle proprie caratteristiche organizzative. In altre parole, l’interazione innesca in ogni sistema la produzione di informazione necessaria per sopravvivere ed evolversi, ma essa vale solo all’interno di quello specifico sistema; non è, metaforicamente parlando, una moneta che può essere scambiata con altri sistemi. L’interazione innesca quei processi che consentono ad ogni sistema di produrre e mantenere l’intelligenza necessaria per conservare la propria organizzazione. La coordinazione di comportamenti di due o più sistemi tra loro, crescendo via via di complessità, porta alla nascita del linguaggio. Secondo questa teoria l’autocoscienza nasce solo con e nel linguaggio. Col tempo i percorsi di Maturana e Varela si differenziano. Maturana con molta coerenza definisce il suo approccio come fondamentalmente meccanicista benché alquanto complesso. Varela viceversa nell’ultima parte della sua vita aderisce al Buddhismo Tibetano. Le sue idee sulla coscienza e sull’interazione mente-corpo sono da lì in poi profondamente influenzate dal pensiero e dalla pratica buddhista. La teoria dell’autopoiesi, se avvicinata attraverso le sue definizioni rigorosamente formali appare senz’altro difficilmente comprensibile. Attraverso la pratica lo è invece molto di più. Che cosa vuol dire “ricostruire la rete di relazioni che ha prodotto me”? Vuol dire che un bambino diventa grande, si sviluppa, intraprende rapporti di coppia, magari si sposa, fa una famiglia, e a sua volta la coppia genera un bambino … il sistema umano ricostruisce la rete di relazioni che ha costruito lui. Oppure: tutti da bambini vanno a scuola e sono sottoposti all’influenza degli insegnati. Qualcuno poi, da adulto, diventa l’insegnante a sua volta, instaurando relazioni tra insegnante e studenti che riproducono la relazione che ha fatto di lui un insegnante. Ognuno vive in una rete di relazioni che vincola la sua identità come vivente e come persona; tant’è che se questa rete di persone si guasta, tutto il vivente ne risentirà. Tutto ciò è molto attuale per noi. Stiamo attraversando un periodo in cui la rete delle relazioni è seriamente guasta, e infatti il vivente si guasta, anche con l’emersione di patologie nuove. Senza andare tanto distante, i pediatri di base che inviano i bambini con le famiglie a noi psicoterapeuti, lo fanno anche perché stanno affrontando problemi che una ventina d’anni fa non c’erano o quasi, come le emicranie e le depressioni
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nell’infanzia. I tempi del mutamento biologico sono lenti; evidentemente è mutato rapidamente qualcos’altro; per varie ragioni su cui non possiamo soffermarci ora, è alquanto plausibile che questo rapido cambiamento sia proprio da ricercarsi nel dominio delle relazioni. Questa rapidissima carrellata è comunque sufficiente per comprendere che la relazione è il perno su cui tutto l’approccio sistemico è fondato. Soggetti, oggetti, le loro qualità: tutto ciò viene dopo; la relazione viene prima, sicché le azioni stesse hanno sempre valore di comunicazione e le parole stesse, facendo eco a Wittgenstein, fanno l’effetto delle azioni. Tutto quello che noi facciamo comunica qualcosa ad un altro, per cui, ci piaccia o no, siamo immersi in un pervasivo dominio di significato. Che sia più o meno evoluto, più o meno sofisticato, tutti gli esseri umani vivono in un dominio di significato, e ogni azione che viene compiuta è sempre parte di processi sociali di configurazione di azioni e di relazioni. Quali sono le metafore che più ci aiutano a comprendere il mondo delle relazioni? Sono quelle di tipo estetico: dobbiamo cioè stare attenti alla forma della relazione. Ora che abbiamo tracciato un quadro, per quanto sommario, di alcune caratteristiche fondamentali dell’approccio sistemico e dell’importanza fondamentale che in esso riveste la relazione, possiamo porci alcune domande pertinenti con gli altri argomenti di questa lezione, cioè la salute e la coscienza. La salute e l’approccio sistemico Che idea di salute emerge da questa visione? E’ abbastanza chiaro che la salute acquisisce un autentico significato soltanto in senso ecosistemico: in altre parole, se parte del sistema sta bene a spese delle condizioni sistemiche generali, queste prima o poi presenteranno un conto salato da pagare: è solo questione di tempo, a meno che il sistema non venga tempestivamente ricalibrato e corretto. Da ciò emerge anche un invito alla fiducia: se si introducono con saggezza delle ricalibrazioni appropriate il sistema tenderà a correggersi da sé secondo leggi che sono passate al vaglio di millenni e millenni di evoluzione. Le visioni sistemiche della salute hanno influenzato notevolmente i documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità degli ultimi anni; ormai la salute è ufficialmente considerata come un fatto complesso, sovra individuale, attinente agli stili di vita e alle scelte di lungo periodo più che a singole azioni correttive, per quanto clamorose e eclatanti esse siano a volte. Il contributo dell’approccio sistemico alle tematiche relative alla salute è quindi consolidato e riconosciuto. La coscienza e l’approccio sistemico La coscienza, viceversa, nei suoi rapporti con l’approccio sistemico continua a non trovare una collocazione precisa. Se ci si può lasciare andare ad una metafora un po’ grossolana, essa somiglia ad un ospite imbarazzante, che non si può fare a meno di invitare ad un pranzo ufficiale, benché non si sappia né dove farlo sedere né con chi farlo parlare. Su un piano più squisitamente teorico, il timore di ricadere nella teleologia e nel vitalismo, cioè di ricorrere a principi esplicativi esterni ai sistemi nella loro concretezza sembra rendere molti studiosi sistemici impacciati, addirittura un po’ “snob” con la coscienza, con l’autocoscienza in particolare. Secondo Maturana ce l’ha solo chi è in
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grado di parlare, Watzlawick considera l’introspezione più che altro come una fonte di guai e Bateson, infine, sostiene che l’ecosistema in generale funzionerebbe molto meglio se le persone fossero meno ansiose di essere coscienti di se stesse e di finalizzare le proprie azioni. Insomma, per ragioni che paiono essere squisitamente epistemologiche, legate cioè al dominio dei fondamenti e delle metateorie, gli studiosi affascinati dalla coscienza non le trovano facilmente posto all’interno dell’approccio sistemico. A volte lo hanno cercato fuori. Ad esempio, come abbiamo già visto, Francisco Varela ha aderito al buddhismo. Menninger cercava un legame tra la psichiatria e lo studio del preternaturale. Tornando indietro nel tempo, più di un Autore tra coloro che hanno influenzato la nascita dell’approccio sistemico e che abbiamo citato in precedenza ha avuto ruoli di rilievo nella Society for Psychical Research, la società inglese che si propone di studiare i fenomeni paranormali con attendibilità e rigore. Al di fuori della famiglia sistemica, gli studi sulla coscienza e soprattutto sugli stati straordinari di coscienza fioriscono. Negli Stati Uniti, più o meno ai margini del “main stream” accademico, molti milioni di dollari sono stati investiti in questi studi e tuttora lo sono anche a scopi strategici e di sicurezza nazionale. Qual era la posizione di Von Bertalanffy? Il fondatore dell’approccio sistemico nel 1967 va dritto al cuore della questione considerandola di natura epistemologica. “Una rassegna delle nozioni psichiatriche nei termini della teoria dei sistemi conduce ben presto a problemi profondi e fondamentali come la questione resa veneranda dal tempo dei rapporti tra corpo e anima. Mi sia consentito di dire solo questo: il dualismo classico di materia e coscienza, quale fu affermato per la prima volta da Descartes e poi portato avanti nella scienza e nella filosofia, è stato messo in crisi dagli sviluppi della moderna fisica, psicologia, psicopatologia, fenomenologia, antropologia culturale e altri settori. Corpo e mente, materia e
coscienza sono concettualizzazioni che devono essere rivedute, con l’obiettivo lontano di una scienza unificata che sarà sostanzialmente una teoria dei sistemi e che abbraccerà sia gli aspetti fisici che quelli psichici. (…) Anche questa breve osservazione può suggerire implicazioni utili per la psichiatria. Materia e mente, corpo e coscienza non sono realtà ultime. Esse sono invece concettualizzazioni destinate a mettere ordine nella “ronzante, abbagliante confusione” dell’esperienza immediata di William James. Per questa ragione non ci sono rigidi confini metafisici fra eventi fisiologici, inconsci e coscienti.”1 Von Bertalanffy, nell’ammonirci a non rimanere prigionieri di quelle premesse che ci costringono a concepire materia animata e inanimata come due realtà fondamentalmente irriducibili l’una all’altra, pone questioni filosofiche di notevole portata e ci invita a munirci di strumenti concettuali che mettano in grado di investigare una realtà che va oltre sia l’una sia l’altra.
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Teoria generale dei sistemi e psichiatria – una rassegna generale. In: Gray W., Duhl F. J., Rizzo N. D., Teoria generale dei sistemi e psichiatria, Feltrinelli Milano 1978 (ed. or. Boston, 1969).
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Le posizioni preconizzate da Von Bertalannfy sembrano essere state sviluppate in modo particolarmente creativo da un movimento di scienziati il cui primo e maggior esponente è stato il fisico David Bohm (1917 – 1992). Questi lavorò inizialmente con Oppenheimer e con Einstein, ma ebbe costanti problemi legati alle sue posizioni politiche. Insegnò poi in Brasile, in Israele e in seguito in Inghilterra. Fornì diversi contributi originali, tra cui lo sviluppo della teoria del plasma, ed elaborò una propria interpretazione della fisica quantistica. Con il passare degli anni, sviluppando la teoria dell’interezza e dell’ordine implicato, si dedicò sempre più intensamente ai problemi della conoscenza, collaborando con il neuroscienziato Karl Pribram allo sviluppo del cosiddetto “modello olonomico” del cervello. Strinse amicizia con il maestro indiano Jiddu Khrisnamurti e si dedicò ad approfondimenti di ordine filosofico a partire dalle sue originali posizioni scientifiche. Inizialmente il suo lavoro è stato largamente rigettato dalla comunità scientifica, ma ora sta conoscendo una progressiva rivalutazione. Oggetto dello studio di Bohm sono la “interezza” della realtà (wholeness) e gli “ordini” in essa “implicati” che generano forme manifeste e transitorie in un incessante movimento. Per Bohm gli elementi manifesti della nostra esperienza sono solo relativamente separati dal tutto, che in essi rimane come nascosto (“implicato”) ma attivo e presente. Il pensiero di Bohm è affascinante ma assolutamente controintuitivo, soprattutto ad un primo approccio, in quanto sfida pressocchè tutte le premesse del nostro pensare ed agire quotidiano. In questa sede basterà notare che esso intende pervenire: alla relativizzazione dei concetti di causalità e la località ad una visione multidimensionale della persona e dell’universo al superamento del dualismo materia-coscienza ad una completa revisione del concetto di tempo al superamento della attuale frammentazione della scienza al riconoscimento della centralità del significato anche nello studio della natura. In altre parole, seguendo Bohm, ciò che noi avvertiamo della nostra esistenza e di quella degli altri ne è solo un aspetto; nel portare ad esistenza, cioè a “esplicare” in modo relativamente autonomo e apparentemente separato questo o quell’aspetto della realtà, il pensiero ha un ruolo centrale. Qui Bohm diviene sistemico in modo radicale, in quanto nel suo riferirsi al pensiero, egli lo concepisce sempre come sistema di pensiero (e quindi anche di credenze, convinzioni e sentimenti) di cui i pensieri individuali fanno parte. Negli ultimi anni della sua vita questo aspetto lo ha preoccupato sempre di più: ognuno di noi crede di governare unilateralmente il proprio
pensiero senza rendersi conto di quanto sia governato dal pensiero in senso sistemico. L’attenzione a come si pensa
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e a come si può uscire dalle trappole dei sistemi di pensiero diviene la sua preoccupazione principale. Conclusioni Benché il rapporto tra approccio sistemico e coscienza su un piano concettuale sia problematico, è proprio il più felice rapporto tra salute e sistemica a far sì che le terapie e gli approcci educativi di stampo sistemico tendano ad essere molto rispettosi della coscienza e delle decisioni che nelle coscienze maturano; per sua definizione, quello sistemico è un approccio tendenzialmente fenomenologico, tendente ad evitare le “letture del pensiero” e il controllo puntuale e unilaterale dei processi. La mentalità e la pratica sistemica aprono sempre al nuovo, all’imprevisto, al sorprendente, anche quando tutto ciò non si colloca facilmente nelle teorie della tecnica che sostengono la nostra pratica professionale. Questo atteggiamento non significa una svalutazione a “a priori” delle teorie. Dove andremmo a finire senza teorie? Però nella pratica sistemica la relazione viene prima di ogni teoria; il professionista sistemico “sente” i sistemi come vivi e intelligenti e va alla ricerca di teorie che tengano conto di questo sentire. Molti tipi di pazienti, tra cui il paziente in stato vegetativo, sono in condizioni di dipendenza estrema e non possono reclamare o difendere una loro posizione sociale. La parola “vegetativo” presuppone assenza di movimento, o perlomeno una grande compromissione della coscienza; si tratta insomma di una persona che socialmente è gettata tra gli ultimi: non può disporre di un “io” che le permette di dire: “voglio questo, voglio quello” oppure di dire ad un altro “tu stai al tuo posto”. Semmai, paradossalmente, questa estrema debolezza lo impone agli altri in modo così assoluto da costringere a scelte radicali dove e l’etica e il significato hanno la precedenza. Viene riconosciuta della ricchezza nel vissuto di chi, con queste persone, lavora quotidianamente seguendo un approccio orientato alla relazione. Si potrebbe anche obiettare che gli operatori, i professionisti, non avendo risposte dai loro pazienti, per fronteggiare la deprivazione e ricavare un senso proiettano i loro contenuti interni; debbono cioè per forza vedere o trovare qualcosa. Indubbiamente a volte questo accade, ma può anche essere un punto di partenza: ricordiamo l’esempio della giovane collega che seguiva il ragazzo autistico. Insomma, dal mio punto di vista le spiegazioni di tipo proiettivo, anche se partono con le migliori intenzioni, cioè di evitare dolorose e dannose illusioni, se applicate in modo riduzionistico finiscono con l’accecare e fuorviare. Se i modelli che si stanno evolvendo anche a partire da una mentalità sistemica supereranno la prova del tempo, approderemo in modo condiviso e non solo pionieristico ad una visione del mondo e delle persone molto diversa da quella corrente oggigiorno, ed essa ci permetterà di gettare maggior luce su questi vissuti. Sarà una visione del mondo partecipativa, in quanto le persone sono anche ciò che noi consentiamo loro di essere; sarà olonomica, in quanto ogni individuo è in qualche modo partecipe di tutta l’umanità; sarà noosferica (nel senso che Teylhard de Chardin attribuiva a questo termine) per cui l’immersione nel significato, nei suoi dilemmi e nei suoi misteriosi percorsi sarà il punto di partenza per ogni indagine sull’umanità; sarà multidimensionale e polifonica
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perché la coscienza di una persona è sempre abitata da molte voci e non si svolge su un piano solo di realtà: sarà policronica in quanto recupererà e terrà conto di più dimensioni del tempo. In una visione del mondo così caratterizzata le persone sono molto di più di ciò che appaiono, e le parole dell’antica Scrittura potrebbero evocare in noi, almeno nel senso ma non solo, qualcosa che va ben oltre una mitologia consolante o una prospettiva puramente escatologica, bensì qualcosa che riguarda anche il presente: …agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli … (Sapienza, 3) Gli ordini della coscienza sono sottili, immateriali, difficilmente o addirittura non localizzabili; ci obbligano ad un grande impegno e a molta attenzione, sia nel dominio della relazione che in quello della ricerca. Se vi si pone attenzione, però, la nostra visione del mondo si modifica immancabilmente. Arrivati fino a questo punto voi potrete dire che sono un sognatore ma, come diceva una bella canzone, “non sono l’unico”. Se rimarremo fondati nella relazione e attenti ai dati che vengono della ricerca spero che potremo continuare a sognare insieme e a lungo.
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Report "Relazione, salute e coscienza: contributi e limiti dell'approccio sistemico"