Marketing Strategico Riassunti Market Driven Management



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MARKETING STRATEGICOParte prima: Il cambiamento nel ruolo del marketing Cap. 1 Il concetto tradizionale di marketing Marketing strategico e marketing operativo rappresentano rispettivamente la mente strategica e il braccio commerciale dell’impresa. In generale la più concisa definizione di marketing è: “soddisfare i bisogni in modo redditizio”. Il concetto tradizionale di marketing si fonda su 3 pilastri: 1. Orientamento al cliente: tutte le azioni manageriali dovrebbero scaturire dalla profonda comprensione dei bisogni e desideri del cliente 2. Integrazione delle attività: coordinamento con le altre funzioni dell’impresa (R&S, produzione, amministraz, finanza) per diffondere la cultura di orientamento al cliente 3. Obiettivo di redditività: l’impresa deve realizzare dei profitti quale contropartita della soddisfazione del cliente. In generali condizioni di scarsità la domanda tende a essere rivolta a beni di base e l’individuazione di mercati redditizi diviene piuttosto facile, mentre in mercati altamente competitivi e in condizioni di eccesso di offerta, diventa necessaria l’adozione di una filosofia di business che sancisca che l’offerta sia guidata dal mercato (market-driven) e che il processo di produzione sia avviato a seguito di una chiara definizione dei bisogni dei clienti. Tale concetto suggerisce che perseguire l’interesse del cliente, alla fine, favorisce anche l’interesse dell’impresa: una situazione win-win. Il marketing strategico è un processo orientato all’analisi e incentrato sull’individuazione dei bisogni degli individui e delle organizzazioni. Il ruolo del mkt strategico è seguire l’evoluzione del mercato di riferimento e individuare i prodotti-mercati o segmenti di mercato attuali o potenziali sulla base di un’analisi della diversità dei bisogni da soddisfare. Una volta individuati, i prodotti- mercati rappresentano delle opportunità economiche di cui deve essere valutata l’attrattività, che dipende a sua volta dalla competitività dell’impresa, ovvero dalla sua capacità di soddisfare meglio dei concorrenti i bisogni dei clienti appartenenti a quel determinato prodotto-mercato. Tale competitività esiste fino a quando l’impresa riesce a detenere un vantaggio competitivo, sia perché può differenziarsi dai suoi concorrenti grazie a qualità distintive sostenibili, sia grazie a una maggiore produttività, che le conferisce un vantaggio di costo. Tale processo strategico adotta una prospettiva di medio-lungo termine e il suo compito è quello di specificare la mission dell’impresa, definirne gli obiettivi, elaborare una strategia di sviluppo e garantire un’equilibrata struttura del portafoglio prodotti. Il marketing operativo è un processo orientato all’azione che si estende nell’arco di una pianificazione temporale di breve-medio termine e si indirizza a mercati o segmenti esistenti. E’ il classico processo commerciale teso al raggiungimento di un obiettivo di quota di mercato attraverso decisioni di prodotto, distribuzione, prezzo e comunicazione. Il piano di mkt operativo è efficace solo se basato su opzioni strategiche solide e ben definite e descrive gli obiettivi, il posizionamento, le tattiche e il budget per ciascuna marca del portafoglio dell’impresa in un determinato periodo e rispetto a una specifica zona geografica. Il mkt strategico si basa innanzitutto sull’analisi dei bisogni degli individui e delle organizzazioni. Nell’ottica di marketing, quello che il cliente cerca non è tanto il prodotto, ma la “soluzione al problema” che il prodotto(servizio) è in grado di fornire. Il ruolo del mkt strategico è quello di seguire l’evoluzione del mercato di riferimento e di identificare i vari prodotti-mercati e segmenti attuali e potenziali, in base all’analisi dei diversi bisogni da soddisfare. Le innovazioni (idee di nuovi prodotti) possono avere due origini diverse: il mercato o l’impresa. Se l’esigenza di un nuovo prodotto proviene dal mercato si dice che l’innovazione è “tirata dal mercato” (market-pull). L’indicazione derivante dal mercato viene trasmessa alla funzione R&S, che cercherà di dare una risposta adeguata al bisogno insoddisfatto (marketing strategico reattivo o di risposta domanda chiave: “E’ fattibile?”). Sarà poi compito del marketing operativo promuovere la nuova soluzione nel segmento target identificato dall’indagine di mercato. Un’altra fonte d’innovazione è il laboratorio o la funzione R&S che, in seguito a una ricerca di base o applicata, scopre un nuovo processo, un nuovo prodotto che permetta di soddisfare un bisogno latente, o anticipare una domanda di cui non vi è consapevolezza nel mercato. Le innovazioni, dunque, sono trainate dalla tecnologia più che dall’orientamento a soddisfare i bisogni espressi del consumatore. L’innovazione è, quindi, spinta dalla tecnologia o dall’impresa (tecnology-push o corporate-push). Il ruolo del mkt strategico in questo caso è più complesso. L’interrogativo a cui occorre rispondere è: “esiste un bisogno e un segmento di mercato potenzialmente redditizio?”. Al marketing strategico spetta quindi il compito di valutare le dimensioni del segmento individuato e i fattori di successo alla base dell’innovazione da introdurre (marketing strategico proattivo o di creazione dell’offerta). Il ruolo del mkt operativo sarà quello complesso di dover creare un mercato per un prodotto che non viene richiesto esplicitamente dai consumatori e la cui adozione può implicare dei cambiamenti nelle abitudini di consumo da parte dei clienti potenziali. Nel marketing strategico reattivo o di risposta l’obiettivo è individuare i bisogni o desideri espressi e soddisfarli. Nel marketing strategico proattivo o di creazione dell’offerta l’obiettivo è l’identificazione di bisogni latenti o non espressi o, in alternativa, la ricerca di soluzioni nuove a necessità o desideri già conosciuti. Per quanto riguarda il mkt operativo, il suo ruolo primario consiste nel raggiungere l’obiettivo di fatturato programmato, cioè nel vendere e ottenere ordini d’acquisto utilizzando gli strumenti di vendita più efficaci, minimizzando nel contempo i costi. L’obiettivo di fatturato da realizzare si traduce poi in programmi di fabbricazione per la funzione produzione e in programmi di stoccaggio e distribuzione fisica per i servizi commerciali. Il mkt operativo, dunque, è un elemento determinante che influenza in modo diretto la redditività a breve termine dell’impresa. Ogni prodotto, infatti, deve avere un prezzo accettabile per il mercato in cui si inserisce, essere disponibile in circuiti di distribuzione adeguati alle abitudini d’acquisto del segmento target, essere sostenuto da attività di comunicazione finalizzate a renderne nota l’esistenza e a valorizzarne le qualità distintive. Il mkt operativo è, dunque, il braccio commerciale dell’impresa, senza il quale il migliore piano strategico non potrebbe fornire risultati soddisfacenti, come d’altronde non ci potrebbe essere un mkt operativo redditizio senza solide scelte strategiche alle spalle. Il marketing operativo può essere transazionale, che si focalizza sulle singole vendite (transazioni) considerate a sé stanti e prevede che la relazione col cliente finisca con la conclusione della vendita; oppure può essere relazionale, ovvero orientato alla costruzione di una relazione forte e duratura. L’obiettivo principale è il mantenimento e lo sviluppo di una base di clienti, per creare un rapporto mutualmente redditizio (CRM). Il mkt relazionale sposta l’attenzione sui vantaggi non economici, come i servizi, il tempo di consegna e la certezza di una fornitura continua. Il programma di marketing Il mkt operativo mette in rilievo le variabili non legate direttamente al prodotto (prezzo, distribuzione, comunicazione), mentre il mkt strategico mette l’accento sulla capacità di fornire un prodotto di qualità superiore a un prezzo competitivo. Il marketing strategico conduce alla scelta dei prodotti-mercati da sfruttare in ordine di priorità e a una previsione della domanda primaria in ciascuno dei prodotti-mercati di riferimento. Il marketing operativo, invece, proporrà un obiettivo di quota di mercato, tenendo conto dell’ambizione strategica dell’impresa e del budget di mkt necessario alla realizzazione di tale obiettivo. L’obiettivo di vendita viene individuato prima in termini di volumi di vendita e poi in termini di fatturato, tenuto conto della politica di prezzo adottata. Il profitto lordo atteso si ottiene dopo aver sottratto i costi diretti di produzione, la quota dei costi fissi attesi in relazione alle strutture e le spese di marketing (forza vendita, pubblicità, promozione). Tale profitto lordo rappresenta la contribuzione fornita dal prodotto-mercato all’impresa nel segmento target, destinata ad assicurare la copertura delle spese generali d’esercizio e a garantire un profitto netto. Il marketing mix o “paradigma delle 4P”: Product (prodotto); Price (prezzo); Place (punto vendita/distribuzione); Promotion (promozione/comunicazione) fu proposto da McCarthy nel 1960 e viene considerato la dimensione operativa del marketing (braccio commerciale dell’impresa). Esso comprende le tecniche e gli strumenti specifici di marketing che i manager combinano tra loro in un determinato modo per affrontare una situazione specifica (in particolare per soddisfare i bisogni dei clienti). Riconoscendo il carattere peculiare dei servizi rispetto ai prodotti, Boons e Bitner (1981) aggiungono alle 4P standard altre 3P, per un totale di sette: People (persone), coloro che entrano in contatto con i clienti; Process (processo di erogazione), cioè il sistema di servuction implicato nel fornire il servizio; Physical evidence (evidenza/supporto fisico), prevista per rendere tangibile il servizio al cliente. Solo una volta identificati i business da realizzare, i clienti da servire, i concorrenti con cui confrontarsi e i distributori con cui collaborare a livello strategico, acquisirà importanza il paradigma delle 4P o 7P. Il ruolo del mkt strategico è quindi di condurre l’impresa verso le opportunità esistenti o creare opportunità interessanti, cioè adatte alle risorse e al know-how dell’impresa e che offrano un potenziale di crescita e redditività. Il processo di mkt strategico può essere implementato in sette fasi: 1. Definizione del mercato di riferimento. La definizione del business è il punto di partenza per lo sviluppo della strategia, in quanto consente di identificare i clienti da servire, i concorrenti da superare, i fattori chiave di successo da governare e le tecnologie da utilizzare. 2. Qual è la diversità dei bisogni nel mercato di riferimento? Consumatori diversi manifestano interessi e desideri diversi, dunque nella definizione degli obiettivi, ormai sempre più spesso le imprese si allontanano dal mkt di massa per focalizzare l’attenzione su uno(o più) gruppi di clienti ben identificati. L’obiettivo diventa quindi quello di suddividere il mercato in sottogruppi omogenei di clienti (segmentare), per adattare l’offerta dell’impresa in base a una migliore comprensione delle loro esigenze. 3. Quanto è interessante l’opportunità di business nei segmenti individuati? (attrattività e competitività). Prima di definire il segmento target, l’impresa deve valutare l’attrattività intrinseca di ciascun segmento, cioè la sua dimensione attuale e potenziale, il tasso di crescita, l’accessibilità, l’intensità della concorrenza e cosi via. Tutti questi indicatori sono oggettivi e fuori dal controllo dell’impresa, descrivendo il contesto economico e competitivo di ogni segmento e possono essere valutati attraverso ricerche di mercato standard. 4. Abbiamo una proposta di valore sostenibile per ciascun segmento? Il vantaggio competitivo si riferisce a quelle caratteristiche o attributi di un prodotto o di una marca che conferiscono all’impresa un qualche tipo di superiorità rispetto ai suoi concorrenti diretti, generando valore per i clienti. L’obiettivo è identificare il tipo di vantaggio competitivo di cui l’impresa gode in ogni segmento e valutarne la sostenibilità, perché è importante sottolineare che un’impresa può superare i suoi concorrenti solo se è in grado di stabilire un vantaggio competitivo che si possa mantenere nel tempo. 5. A quale/i segmento/i rivolgersi in via prioritaria? (copertura). In una strategia di focalizzazione i confini di mercato sono definiti in modo ristretto. In una strategia di completa copertura del mercato vi sono 2 opzioni: una strategia di “marketing di massa”, in cui l’impresa si concentra su ciò che è comune nelle esigenze dei clienti, piuttosto che su ciò che è diverso; una strategia di “personalizzazione di massa”, in cui l’impresa si avvicina al mercato con un programma su misura per ogni segmento. In una “strategia mista” l’impresa diversifica le sue attività, al fine di garantire che il suo portafoglio sia ben equilibrato in termini di profitto e crescita potenziale e ben diversificato in termini di rischio 6. Come vogliamo competere nel(i) segmento(i) target? (posizionamento). Il passo successivo è decidere la strategia di posizionamento da adottare all’interno di ciascun segmento target, cioè la decisione assunta dall’impresa nella scelta del/i beneficio/i che la marca deve possedere e nella sua/loro valorizzazione, per occupare una posizione specifica nel mercato. L’obiettivo dell’impresa sarà quindi comunicare con chiarezza il posizionamento scelto ai potenziali clienti affinché essi se lo ricordino. 7. Come ottenere un portafoglio prodotti ben bilanciato? Lo scopo di un’analisi del portafoglio prodotti è aiutare le decisioni delle imprese multi-business nella destinazione delle risorse tra le varie unità strategiche di business o SBU (Strategic Business Unit), che competono nei diversi segmenti target. Tale analisi coinvolge gli indicatori di attrattività e competitività, che aiutano a guidare il pensiero strategico, insistendo sul mantenimento di un equilibrio tra attività a redditività immediata e attività che preparano il futuro, incoraggiando l’impresa a tenere sempre a mente sia l’attrattività del mercato sia il potenziale di competitività, proponendo strategie di sviluppo differenziate per tipo di attività e fissando chiari obiettivi per rafforzare la motivazione interna all’impresa e facilitarne il controllo. Il risultato di queste 7 tappe del processo di marketing strategico costituisce la struttura portante del piano di mkt operativo. Tutte queste fasi sono fondamentali nel loro insieme perché sapere cosa vogliono i clienti non è poi così utile se: i concorrenti stanno già fornendo lo stesso prodotto o servizio; potenti distributori si rifiutano di inserire la marca nei propri listini, impedendo all’impresa di raggiungere la clientela-target; potenti influenzatori di mercato non certificano o considerano il prodotto; se potenti stakeholder decidono di boicottare la marca. Cap. 2 Il concetto di orientamento al mercato (OM) Il concetto di orientamento al mercato può essere considerato una alternativa al concetto di marketing tradizionale (orientato all’offerta, anziché alla domanda). Si distinguono la dimensione culturale e la dimensione strumentale del concetto di OM: in quanto cultura organizzativa d’impresa, l’OM rappresenta una filosofia di business che attribuisce priorità alla soddisfazione del cliente, tenendo conto del ruolo svolto dagli operatori di mercato; in quanto funzione strumentale, l’OM può essere definito come un insieme di capacità, comportamenti e attività necessarie all’implementazione di un forte indirizzo market-driven. Si distinguono, inoltre due tipi di capacità nella funzione strumentale: capacità di mkt strategico e operativo. Modelli di orientamento al mercato Kohli e Jaworski (K&J) Kohli e Jaworski hanno proposto una concettualizzazione del concetto di orientamento al mercato in cui vengono definiti operativamente due dei tre pilastri del tradizionale concetto di marketing: l’orientamento al cliente e integrazione interfunzionale. K&J propongono la seguente definizione formale: L’orientamento al mercato è la generazione in tutta l’organizzazione d’impresa, di market-intelligence relativamente alle esigenze attuali e future dei clienti, la sua diffusione tra le funzioni e la responsabilizzazione di tutta l’organizzazione nei suoi riguardi. La generazione di market-intelligence coinvolge un concetto più ampio di customer intelligence e comprende il monitoraggio di fattori quali la concorrenza, gli orientamenti legislativi, la tecnologia e le altre forze del contesto. La diffusione di market-intelligence implica la partecipazione virtuale di tutte le funzioni dell’organizzazione, che devono essere informate riguardo le notizie importanti di market- intelligence, appunto. La definizione della responsabilità organizzativa riguarda l’atteggiamento adottato in risposta alle informazioni di market-intelligence diffuse. Essa si manifesta nella selezione dei segmenti target, progettazione e promozione di prodotti o servizi, in grado di soddisfare bisogni attuali o futuri. Da un punto di vista operativo il modello K&J rimane molto generale: esso non specifica per esempio, il tipo di market intelligence da adottare, né il tipo di risposta che l’impresa dovrà assumere. Narver e Slater (N&S) Narver e Slater si interessano di sviluppare un concetto di orientamento al mercato, analizzandone l’effetto sulla redditività dell’impresa (3° pilastro del mkt, non considerato nel precedente modello). In questo modello l’OM viene definito facendo riferimento a tre dimensioni comportamentali: orientamento al cliente; l’orientamento ai concorrenti; coordinamento interfunzionale, con l’implementazione di due criteri di decisione: focalizzazione sul lungo termine e redditività. L’orientamento a clienti e concorrenti comprende tutte le attività di acquisizione di informazioni su clienti e concorrenti nel mercato target e la loro diffusione in tutta l’organizzazione. Il coordinamento interfunzionale si riferisce agli sforzi di coordinamento dell’impresa che coinvolgono altre funzioni aziendali oltre la funzione marketing. Il modello N&S rispetto al K&J, non solo è più specifico, ma anche concettualmente più restrittivo, in quanto limitato a 2 attori del mercato (clienti e concorrenti). “Quanto maggiore è la rivalità tra i venditori, tanto maggiore sarà l’attenzione al cliente e al servizio” (Dickson, 1992). Il focus competitivo non costituisce un’alternativa al focus sul cliente; al contrario, è necessario un bilanciamento dei 2 orientamenti. Lambin: modello esteso di orientamento al mercato (EOM) L’orientamento al mercato è una cultura di business diffusa nell’organizzazione d’impresa attraverso il coordinamento interfunzionale, con l’obiettivo di progettare e promuovere, a condizioni redditizie per l’impresa, soluzioni di valore superiore ai clienti diretti e agli altri stakeholder coinvolti nel mercato. Secondo Lambin vi sono 3 dimensioni presenti nel concetto di EOM: la cultura si riferisce alla filosofia di business d’impresa , alla base dell’economia sociale di mercato, che pone l’accento sul processo di creazione di valore per i partecipanti al mercato, in maniera compatibile con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, come il miglior modo, per l’impresa, per raggiungere gli obiettivi di redditività. L’analisi si riferisce alla mente strategica dell’impresa, che deve essere in grado di comprendere la struttura del mercato e anticipare bisogni attuali e futuri dei clienti, per differenziare le soluzioni proposte da quelle della concorrenza. L’azione si riferisce al braccio commerciale dell’impresa e ai suoi strumenti di mkt operativo (4P e 7P), usati per rendere la proposta aziendale di valore conosciuta, comodamente accessibile e con un prezzo accettabile per il gruppo di clienti target. Centrale in questo modello EOM è la visione del mercato come un complesso raggruppamento di stakeholder: fornitori, clienti (diretti e indiretti), concorrenti, distributori, influenzatori e altri. La cultura è una responsabilità trasversale nell’impresa, assunta dall’a.d.; l’analisi è una responsabilità trasversale di marketing strategico, assunta dal responsabile di ciascuna unità di business; l’azione è la responsabilità, invece, di mkt operativo, assunta dalla funzione marketing. Viene cosi stabilito un collegamento con la funzione marketing (cosa che non avveniva nei 2 precedenti modelli), che sancisce il contenuto del market- driven management, qui definito come l’insieme delle azioni poste in essere da un’impresa per assicurarsi la preferenza del cliente e quindi garantirsi una redditività superiore. Si possono identificare 4 elementi di differenziazione tra il concetto di marketing tradizionale (MT) e il concetto esteso di orientamento al mercato (EOM): 1. Il concetto di MT è fondamentalmente orientato al cliente, mentre il concetto EOM è orientato non solo ai clienti ma anche agli altri principali attori del mercato: concorrenti, fornitori, distributori, influenzatori e altri stakeholder. 2. Il concetto di MT si basa sul modello market-pull (mkt strategico di risposta), mentre il concetto EOM si basa, oltre che su modelli di innovazione market-pull, anche su modelli di innovazione tecnology-push (mkt strategico proattivo). 3. Il concetto di MT è orientato all’azione, utilizzando il paradigma delle 4p, mentre il concetto EOM si basa sull’approccio di soluzione ai problemi dei clienti. 4. Il concetto di MT è generalmente limitato alla funzione marketing, mentre il concetto EOM è considerato come una cultura organizzativa diffusa a tutti i livelli/funzioni dell’impresa. In un’economia di mercato, un ecosistema è un insieme complesso di operatori: imprese, clienti, fornitori, concorrenti, distributori, influenzatori e partner, che ottengono vantaggi reciproci l’uno dall’altro. Con lo sviluppo di Internet, i mercati globali si stanno evolvendo in 2 forme principali: i mercati globali elettronici (MGE) e i mercati globali tradizionali (MGT). I MGE producono e distribuiscono a livello mondiale prodotti e servizi digitali, mentre i MGT collaborano con i MGE per realizzare la fase di consumo o per completare la fase fisica di produzione e distribuzione. I clienti diretti e i clienti finali esprimono una domanda diretta di beni o servizi e l’impresa li conosce e sa come soddisfarli. In molti settori, tuttavia, vi sono ulteriori gruppi di clienti, i quali rappresentano una domanda potenziale che viene spesso ignorata, perché le imprese non sono in grado di raggiungere tali clienti direttamente. Tale domanda indiretta esiste perché il valore di alcuni prodotti si realizza quando vengono utilizzati con altri prodotti (es. pag 28 Nestlé – Baxter). Per diventare completamente demand-driven e soddisfare cosi anche la domanda indiretta, molte imprese hanno adottato un approccio di vendita di soluzioni. Probabilmente l’impresa fornitrice di soluzioni non possiederà tutte le risorse necessarie per fornire tutte le componenti della soluzione al cliente e quindi dovrà impegnarsi nel cercare e trovare i partner giusti per trarre vantaggio dalla domanda indiretta. Per rivolgersi alla domanda diretta i tradizionali partner commerciali sono i grossisti e i dettaglianti. Per rivolgersi, invece, alla domanda indiretta, oltre ai partner della distribuzione, si individuano diversi tipi di altri partner in virtù delle numerose funzioni da svolgere: aggregatori, integratori, educatori e sottoscrittori. Per quanto riguarda i distributori e i fornitori operiamo una distinzione: il dettagliante guarda al massimo rendimento sull’investimento di spazio e al contributo alla sua immagine globale; il fornitore cerca massimo spazio sugli scaffali, possibilità di testare nuovi prodotti e la preferenza del cliente rispetto ai concorrenti. I produttori quindi devono definire esplicitamente le relazioni strategiche di marketing nei confronti dei distributori. I concorrenti, siano essi diretti o produttori di beni sostitutivi, sono attori chiave del mercato e l’atteggiamento da adottare nei loro confronti è un elemento centrale nella formulazione di qualsiasi strategia, dato che servirà come base per la definizione del vantaggio competitivo. Occorre definire una strategia basata su una valutazione realistica delle forze in gioco, attraverso l’acquisizione e la diffusione di informazioni sui concorrenti nel mercato target, e determinare i mezzi più idonei per raggiungere gli obiettivi definiti. Nei mercati saturi e stagnanti, l’aggressività della lotta competitiva tende ad aumentare e contrastare le azioni dei rivali diventa un obiettivo fondamentale. Il rischio di una strategia basata solo sul “marketing guerriero”, tuttavia, è che venga dedicata troppa energia al tentativo di battere i concorrenti, con il rischio di perdere di vista l’obiettivo di soddisfare i bisogni dei clienti. È quindi essenziale un giusto equilibrio tra l’orientamento ai clienti e ai concorrenti. Gli influenzatori e i prescrittori – in molti mercati, oltre ai tradizionali attori, altri individui o organizzazioni possono svolgere un importante ruolo nel consigliare, raccomandare o prescrivere marche, imprese, prodotti o servizi ai clienti o distributori. Un mercato globale elettronico (MGE) può essere definito come un mercato virtuale online, cioè una rete di interazioni e relazioni d’impresa, in cui i consumatori, fornitori, distributori e venditori trovano e scambiano informazioni, realizzano scambi commerciali e collaborano gli uni con gli altri, attraverso l’aggregazione di contenuti provenienti da più fornitori. Nei MGE i dettaglianti elettronici o e-tailer utilizzano Internet come mezzo di comunicazione e di vendita al dettaglio. I pure play e-tailer usano esclusivamente Internet, mentre gli e-tailer brick-and- click utilizzano Internet per promuovere i loro prodotti, ma dispongono anche del tradizionale negozio fisico accessibile ai consumatori. Per quanto attiene ai mercati B2B, invece, un numero crescente di imprese sta sperimentando l’acquisto e la vendita di merci attraverso l’e-marketplace (mercato elettronico), ovvero un sistema informativo interorganizzativo, che abilita lo scambio di informazioni relative a prezzi e offerti di prodotti tra acquirenti e fornitori, eliminando così le inefficienze della tradizionale catena di approvvigionamento. I facilitatori di mercato sono uno speciale gruppo di fornitori di servizi, che opera sia nei MGT sia nei MGE, motivati a fornire infrastrutture e a garantire le transazioni di mercato. Per stakeholder, invece, si intende qualsiasi gruppo o individuo che può influenzare o è influenzato dagli obiettivi dell’impresa. Dunque potrebbe trattarsi indistintamente di lavoratori dipendenti, sindacati, organizzazioni non governative (ONG), le comunità locali, i consumeristi, gli investitori e l’ambiente. Secondo l’approccio degli stakeholder l’impresa è responsabile nei loro confronti e pertanto deve perseguire i benefici di tutti quei soggetti che rappresentano i suoi stakeholder. Principali caratteristiche di un’organizzazione orientata al mercato (market-driven) 1. Cultura orientata verso l’esterno e basata su credenze, valori e comportamenti che sottolineino il valore superiore del cliente e che supportino la continua ricerca di nuove fonti di vantaggio competitivo. 2. Capacità distintive di interpretazione del mercato e pensiero strategico vicino al mercato e di tipo anticipatorio 3. Configurazione che consenta all’intera organizzazione di anticipare e rispondere continuamente alle esigenze del cliente e alle condizioni del mercato. Forme organizzative cross-funzionali La matrice è una struttura organizzativa a rete, che consente all’impresa di affrontare molteplici tipologie di business che utilizza strutture di governo multiple. Le strutture a matrice presentano due dimensioni: una dimensione riferita alla responsabilità funzionale e una dimensione riferita a un progetto specifico, come il lancio di un nuovo prodotto, il category management o il CRM, assunti da un team cross-funzionale, chiamato anche VMO (Venture Marketing Organisation). La matrice permette alle imprese di sfruttare le risorse mantenendosi piccole e orientate ai risultati, e di far concentrare l’attenzione dei dipendenti sull’orientamento al mercato, facilitando anche la diffusione della cultura di mercato in tutta l’organizzazione e incoraggia l’innovazione e l’azione rapida. Secondo McKinsey le organizzazioni di mkt oggi sono costruite attorno a due ruoli collegati tra loro da team e processi, piuttosto che da strutture funzionali o divisionali: gli integratori (manager di processo) che sono responsabili di mkt con ampie capacità e assumono un ruolo critico: guidare le attività attraverso l’intera catena del valore aziendale, individuando i segmenti di mercato in cui competere e le leve da utilizzare per massimizzare la redditività a lungo termine; gli specialisti che forniranno le competenze tecniche e specialistiche necessarie per attuare con successo la strategia di marketing in diversi ambiti, come la ricerca di marketing, le strategie di prezzo, la pubblicità, le promozioni, la comunicazione online, il direct mkt e cosi via. La tendenza è di subappaltare a specialisti esterni le attività di mkt quali le ricerche e le analisi di mercato, la gestione di database e l’esecuzione di alcuni compiti di mkt operativo. L’Idea chiave è ritenere che l’orientamento al mercato sia un’attività che debba coinvolgere tutti e non solo i responsabili di mkt, che hanno tuttavia un ruolo chiave nella diffusione della cultura di OM all’interno dell’organizzazione. Cap.4 Valori emergenti e nuove problematiche Il problema odierno, fondamentale e a livello globale, è senz’altro sapere se il sistema capitalistico sarà in grado di evolvere verso un modello di business compatibile con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile. Per l’impresa e in particolare per il marketing, si tratta di una sfida impegnativa: conciliare l’imperativo di redditività con il “mkt verde” (green mkt) e con la necessità di ridurre rifiuti, inquinamento ed emissioni di carbonio. Si può definire lo sviluppo sostenibile come un metodo di assunzione di decisioni economiche basato sulla partecipazione democratica di tutti gli stakeholder (azionisti, lavoratori, clienti e cittadini) appartenenti alle diverse generazioni, mantenendo il patrimonio naturale e culturale della collettività (soddisfare i bisogni attuali senza compromettere la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri). È necessaria dunque una visione socio-ecologica del consumo, data la consapevolezza della scarsità delle risorse naturali, della crescita incontrollata dei rifiuti e del costo sociale del consumo stesso. Quest’ultimo non è più visto come fine a se stesso, ma in termini di tutte le implicazioni a monte(costo di opportunità) e a valle(costo di riparazione e prevenzione). La globalizzazione, con la crescente interdipendenza dei mercati, sta contribuendo a diffondere questa nuova cultura a livello planetario. L’ecologista desidera soprattutto stabilire un prezzo per l’utilizzo dell’ambiente, che fino a qualche tempo fa era considerato un “bene gratuito”; gli strumenti economici utilizzati per stabilire tale prezzo generalmente sono tasse dirette sulle attività inquinanti, o in termini di prevenzione (eco-imposte) o in prospettiva riparatrice (eco- tasse o Imposta Pigouviana). Il modello dell’ inventario del ciclo di vita (LCI, Life- Cycle Inventory) è lo strumento fondamentale usato dagli ecologisti per valutare l’impatto totale di un prodotto sull’ambiente L’inventario del ciclo di vita (LCI) è un processo che quantifica l’utilizzo di energia, risorse ed emissioni nell’ambiente di un prodotto nel corso del suo ciclo di vita. Esso comprende l’impatto ambientale legato all’approvvigionamento delle materie prime, la produzione, il confezionamento, la distribuzione e le caratteristiche d’uso, fino a dopo l’utilizzo e allo smaltimento. Quindi le imprese di fronte a tale prospettiva, sono state costrette a rivedere complessivamente il concetto che hanno dei loro prodotti, dalla ricerca di materie prime sino allo smaltimento. In futuro la certificazione ISO 14001, sostituirà la ISO 9000, che oggi certifica e misura il rispetto per l’ambiente e diventerà anch’essa una condizione necessaria per poter partecipare a gare d’appalto internazionali. Questa non è una moda o una protesta, bensì uno stile di vita che si sta rapidamente diffondendo a tutti i livelli della società e in tutto il mondo. Le imprese sono indotte a migliorare la loro “eco-efficienza”, aumentando il volume di produzione per unità di risorsa naturale impiegata, applicando all’uso delle risorse naturali il principio Fordista (Henry Ford) “fare di più utilizzando meno”. Tale miglioramento non solo sarebbe benefico per l’ambiente, ma aumenterebbe la redditività dell’impresa, creando una situazione win-win, con guadagni sia dal punto di vista ambientale, sia da quello economico, in quanto l’immagine dell’impresa che gode di una buona reputazione in merito al rispetto dell’ambiente diventa sempre più un motivo di fedeltà per clienti, dipendenti e azionisti. Per implementare l’obiettivo di sviluppo sostenibile l’impresa deve adottare nuovi modelli di business eco-sensibili. Il modello economico della performance di Stahel (2006) distingue tra tre tipi di economia: 1. River economy (economia industriale) caratterizzata da elevati consumi annui di risorse e rapida sostituzione di beni modello diventa insostenibile nel lungo termine (approccio “dalla culla alla tomba”). 2. Functional service economy (economia dei servizi funzionali) in cui il focus è posto sulla gestione degli asset e sull’utilizzo di capacità piuttosto che sulla disponibilità di beni fisici, creando lavori in-sourcing (approccio “dalla culla alla culla”). 3. Loop economy (economia circolare) che inizia al termine di un congruo periodo di utilizzo, quando prodotti usati diventano rifiuti generati dai consumatori e riutilizzati nella produzione (approccio “dalla tomba alla culla”). I modelli economici circolari e dei servizi funzionali sono complementari e propongono soluzioni di compromesso per sviluppare un capitalismo eco-responsabile, che sleghi crescita economica e distruzione dell’ambiente. Il tradizionale approccio agli interessi (shareholder/azionisti) sostiene che l’obiettivo dell’impresa sia quello di aumentare i profitti e quindi il valore delle azioni. Se i manager non riconoscessero il valore degli azionisti, questi riceverebbero utili meno consistenti, la motivazione dei potenziali investitori calerebbe e alla fine diminuirebbe l’attività delle imprese e aumenterebbe la disoccupazione. L’approccio ai portatori d’interesse (stakeholder) sostiene, invece, che l’impresa è responsabile nei confronti dei suoi stakeholder e deve operare a loro beneficio, cioè per il bene di tutti i portatori d’interesse. Portatore d’interesse (stakeholder) sarebbe qualsiasi gruppo di persone o individuo che può influire sugli obiettivi aziendali o subirne l’influenza: dipendenti, consumatori, fornitori, comunità locali e ambiente. Dunque al centro del modello appena descritto sta il principio secondo cui tutte le persone devono essere rispettate e l’azienda esiste per soddisfare tutti i portatori d’interesse allo stesso modo, che è un obiettivo alquanto complesso di per sé. La presenza di numerosi gruppi di stakeholder non fa che accrescerne la complessità e quindi a prima vista sembra che i due approcci non possano convivere facilmente all’interno della stessa economia. Tuttavia l’emergere dei nuovi valori di cui si è parlato prima, fa pensare che in questa direzione (soddisfare i bisogni di tutti gli stakeholder e ottenere utili maggiori per gli azionisti) siano stati compiuti progressi molto importanti. In tutto il mondo le imprese stanno adottando il concetto di responsabilità sociale d’impresa (RSI o CSR – Corporate Social Responsibility): l’impresa riconosce di essere responsabile non solo nei confronti dei propri azionisti, ma anche della società intera. Si tratta di un’organizzazione che desidera stabilire una relazione sostenibile e a lungo termine con la comunità in cui si trova inserita e da cui trae la sua prosperità. L’azienda responsabile, quindi, prendendo parte alla vita sociale, impegna le proprie risorse e competenze per aiutare a combattere i problemi della società, spesso in collaborazione con le autorità pubbliche. Nella nuova economia globale, un comportamento etico che consista nel “far bene (economicamente), facendo del bene (socialmente)” è compatibile non solo con gli obiettivi del capitalismo moderno ma rappresenta anche una fonte di vantaggio competitivo, perché soddisfa la domanda del mercato. Ancora una volta l’interdipendenza dei mercati creata dalla globalizzazione permette di garantire che questi nuovi standard di comportamento diventino un imperativo per tutte le imprese che ambiscono a giocare un ruolo di primo piano nel mercato globale. Il processo di CRM (Corporate Responsibility Management) è importante, ma presenta un gap di credibilità nel momento in cui tale concetto viene utilizzato in forma massiccia solo a livello di comunicazione d’impresa. E’ d’obbligo uscire dal terreno della moralità e stabilire chiare regole definite legalmente dai Governi. Come attualmente stabilito nelle norme internazionali CSR ISO 2600, lo scopo della responsabilità sociale d’impresa è contribuire al raggiungimento dello sviluppo sostenibile e al benessere delle persone. L’ambito delle nuove norme CSR coinvolge sette tipi di responsabilità: il rispetto dei diritti umani, le regole di corporate governance, le obbligazioni sociali, la protezione dell’ambiente, le business practice, il rapporto con i consumatori e l’impegno sociale. Esiste un legame tra responsabilità sociale e performance economica? Essere socialmente responsabili è conveniente? Le due aree di portatori di interesse che sembrano svolgere un ruolo dominante in questo senso sono quelle dei dipendenti e dei clienti. Dati affidabili sostengono che le aziende più responsabili nei confronti dei consumatori e delle risorse umane interne generano profitti maggiori; oltre a quelli relativi a dipendenti e consumatori, tuttavia, pochi sono i dati a supporto del legame di altri portatori d’interesse con la performance economica aziendale. L’impegno di un’impresa in attività sociali, come la tradizionale filantropia o il mkt collegato ad eventi che coinvolgono le comunità locali, sembra non avere un influsso diretto sui profitti, ma senz’altro viene considerato dalle imprese come un modo per migliore la loro immagine. Dunque i valori emergenti nel mondo delle imprese pongono il dibattito “azionisti vs portatori d’interesse” (shareholder vs stakeholder) in una nuova prospettiva di convergenza tra i due approcci: l’approccio agli azionisti viene chiaramente riaffermato, in quanto obiettivo dell’impresa rimane comunque quello di creare valore per gli azionisti, oggi sempre più rappresentati da investitori istituzionali. In un’economia di mercato concorrenziale, poi, al fine di creare valore per gli azionisti, occorre innanzitutto creare valore per il cliente; l’obiettivo della soddisfazione del cliente è la preoccupazione prioritaria dell’impresa che adotta la filosofia market-driven. Tuttavia i clienti di oggi sono più esigenti nei riguardi del valore attribuibile a un prodotto: non vogliono provare sensi di colpa quando consumano, ma si aspettano che le imprese o le marche con cui hanno a che fare soddisfino determinati criteri di eco-compatibilità, buone pratiche umane e sociali, condotta etica,ecc. Sembrerebbe, dunque, che l’obiettivo della soddisfazione del cliente indurrà (o costringerà) inevitabilmente le imprese ad adottare l’approccio agli stakeholder, che permetterà di conseguenza di incrementare il valore anche per gli azionisti (se l’impresa naturalmente è orientata al mercato). In questo nuovo contesto alle autorità nazionali e sovranazionali spetta il compito di monitorare e controllare le iniziative intraprese per soddisfare i nuovi bisogni, per conciliare l’efficienza di mercato con quella sociale. Lo sviluppo di Internet La diffusione delle nuove tecnologie di informazione e comunicazione dà un nuovo impulso al concetto di orientamento al mercato, abbattendo le tradizionali barriere del mercato fisico e consentendo l’identificazione dei singoli consumatori, dei loro profili demografici e delle loro preferenze. Pertanto, l’obiettivo finale del concetto di OM, cioè “fornire soluzioni personalizzate servizi in base alle preferenze individuali”, diventa più realistico grazie allo sviluppo di Internet, che però non elimina completamente la necessità di svolgere attività fisiche, creando semplicemente nuove opportunità per soddisfare in modo più efficiente i bisogni dei clienti. L’e-business costituisce l’applicazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per condurre gli affari. Rispetto al commercio elettronico (“e-commerce”) è un concetto più ampio, perché non si riferisce solo alle informazioni relative agli scambi, ma anche al servizio clienti e alla collaborazione con i partner commerciali, i distributori e i fornitori. Le principali caratteristiche di Internet sono ben note: ubiquità virtuale di domanda e offerta; facile accesso ad informazioni di qualità, dovunque e in qualsiasi momento; confronto delle offerte e dei prezzi in tutto il mondo; assenza di barriere all’entrata; separazione tra produzione e vendita; pari opportunità per ciascun venditore. Tali caratteristiche hanno avuto un impatto particolare: Internet tende ad indebolire il potere di contrattazione dei canali distributivi, fornendo alle imprese nuove e più dirette vie per raggiungere i clienti; Internet può aumentare le dimensione e l’efficienza di un settore e quindi di conseguenza del mercato; offre ai consumatori un accesso più agevole alle informazioni, rafforzando il loro potere di contrattazione; dato che Internet è un sistema aperto, le imprese hanno maggiori difficoltà a mantenere l’esclusività della propria offerta, intensificando la lotta concorrenziale. Solo una minoranza di imprese è in grado di vendere ai propri clienti finali attraverso il Web, mentre il ruolo principale svolto da Internet resta piuttosto quello di fornire informazioni, facilitando soprattutto il passaparola, che è sempre stata tra le prime e più attendibili fonti d’informazione. In breve, Internet ha cambiato il comportamento del consumatore nei seguenti modi: i potenziali clienti sono più collegati, informati e critici; preferiscono usare Internet e gli user-generated media per cercare prodotti; tendono ad ignorare i consigli del personale di vendita; acquisendo esperienza online, le persone tendono ad utilizzare Internet per svolgervi attività più complesse. L’approccio di soluzione e il mercato virtuale Una soluzione è una combinazione di prodotti e servizi che creano un valore superiore alla somma delle sue parti. Essa non consiste quindi nel semplice accorpamento di componenti collegate. È il livello di personalizzazione e di integrazione a porre le soluzioni al di sopra dei prodotti e servizi o delle loro combinazioni e a giustificare una maggiorazione del prezzo. In un’impresa orientata al mercato occorre definire una soluzione coerentemente con la richiesta del cliente, il ché rappresenta un compito particolarmente impegnativo. Il mkt strategico definisce il mercato facendo riferimento a bisogni generici o a “problemi” di cui hanno esperienza i potenziali clienti. Ciò che il mkt operativo propone, poi, non sono “prodotti” ma “soluzioni” a questi problemi. Nell’approccio di soluzione, obiettivo prioritario è la comprensione dei problemi del cliente. I clienti non cercano necessariamente prodotti specifici, ma piuttosto una soluzione globale, che può implicare l’uso di un pacchetto di prodotti e servizi. L’approccio di soluzione ai problemi del cliente propone un nuovo modo di guardare agli elementi del marketing mix: - Prodotto: una soluzione a un problema e il pacchetto di benefici che il prodotto rappresenta; - Luogo: un comodo accesso alla soluzione cercata dal compratore; - Prezzo: tutti i costi monetari e non monetari (compreso il prezzo) sostenuti dal cliente per acquistare la soluzione; - Comunicazione: le informazioni, i messaggi relativi alle soluzioni disponibili e alle loro caratteristiche distintive - Vendita: il processo di negoziazione o il dialogo organizzato col cliente nella ricerca della soluzione più adeguata al suo problema. Per ottenere la soluzione desiderata, i clienti vengono coinvolti in diverse attività, direttamente o indirettamente collegate al risultato cercato. Queste attività formano ciò che viene definito mercato virtuale, che rappresenta quindi una sequenza temporale completa di attività logicamente collegate nello spazio cognitivo dei clienti, mentre cercano una soluzione a un bisogno generico. Per esempio, per soddisfare il bisogno generico di “possedere una casa”, i clienti devono relazionarsi con imprese costruttrici, agenzie immobiliari, compagnie di assicurazione, istituti di credito, imprese di traslochi, ecc. Quindi in un mercato virtuale, le attività intraprese dai potenziali clienti sono in genere trasversali, travalicano i confini tradizionali dei settori e dei prodotti-mercati, e potrebbero non necessariamente far parte del core business dell’impresa. Di conseguenza, i mercati virtuali assorbono una percentuale molto più elevata di spesa del cliente rispetto a uno specifico prodotto-mercato e rappresentano quindi un potenziale di mercato più elevato. La sfida per l’impresa, è passare dal concetto piuttosto astratto di mercato virtuale a quello di metamercato, che consiste in un’offerta o in un assortimento di offerte definite con riferimento a tutti gli elementi (attività e servizi), compresi nello spazio cognitivo del cliente. In altre parole, si crea un “metamercato” quando le associazioni cognitive tra attività diverse, logicamente correlate, vengono riprodotte nel mercato fisico, razionalizzando le attività del cliente. L’agente, che rappresenta i diversi partner che collaborano nel fornire la soluzione nel metamercato, viene definito metamediario. I metamediari risolvono 4 principali problemi dei consumatori: tempo di ricerca; garanzia di qualità; facilitazione delle transazioni per acquisti collegati; informazioni imparziali sui contenuti. In conclusione possiamo aggiungere che Internet offre anche la possibilità ai potenziali clienti di sviluppare l’idea di un nuovo prodotto a partire dalla soluzione ricercata e di selezionare un fornitore in grado di realizzarlo. I consumatori, come membri delle comunità online, possono apportare valore all’innovazione in tutte le fasi, dalla generazione di idee, alla concezione, progettazione e prova. Proprio in questo consiste il paradigma del cliente attivo, che sta guadagnando popolarità nella letteratura accademica, in seguito alla pubblicazione del best-seller di Tapscott e Williams (2006) “Wikinomics”. Il libro sostiene che le nuove tecnologie di comunicazione stanno democratizzando la creazione del valore attraverso la collaborazione di massa (outsourcing di massa), che si basa sulla libertà dei singoli individui di unirsi e collaborare, per migliorare una situazione o risolvere un problema. Il modello di business di Wikinomics è basato su 4 principi base: openness, peering, sharing, acting globally. Toffler, inoltre, come ben sappiamo nel 1980 ha introdotto il concetto di prosumer o prosumption per descrivere come la distinzione tra produttori e consumatori stia diventando sempre meno netta: i consumatori partecipano alla creazione di prodotti in modo attivo e costante, co-innovando e co-producendo beni che essi stessi consumano. Parte seconda: La comprensione del comportamento del cliente Cap.5 L’analisi dei bisogni del cliente Il bisogno può essere descritto come una necessità, una sensazione di disagio derivante dall’assenza totale o parziale di qualcosa che ci dà benessere. La sua soddisfazione quindi permette all’individuo di vivere meglio. Ciascuno di noi può patire due tipi di carenze, corrispondenti ad altrettante tipologie di bisogni: 1) le carenze biologiche e/o fisiologiche, inerenti al funzionamento dell’organismo, che si manifestano, per esempio, quando abbiamo fame o sete, definiscono i bisogni innati o naturali, identici per tutti gli individui; 2) le carenze derivanti dalla nostra personalità, dall’esperienza o dalle condizioni sociali e ambientali danno origine ai bisogni acquisiti o psicologici, i quali invece cambiano da persona a persona. Il bisogno del consumatore, in quest’ottica, corrisponde alla necessità di acquisire un bene. In tali condizioni, qualsiasi bisogno verrà soddisfatto in maniera razionale, e cioè calcolando il valore di tutte le azioni disponibili e scegliendo la migliore possibile sulla base di una personale graduatoria delle preferenze e del limite del reddito disponibile. La teoria economica del consumatore afferma che tutti gli individui a parità di condizioni si comporterebbero nello stesso modo, dunque in maniera prevedibile. Ciò sarebbe vero, però, solo nel caso in cui esistesse un sistema di preferenze note e stabili nella mente di chi deve decidere, il che è ben lontano dalla realtà. Il consumo, infatti, non è solo l’espressione di un comportamento razionale, ma è anche fortemente condizionato da fattori psicologici e sociologici. Occorre fare molta attenzione a non confondere la condizione di disagio, che corrisponde al bisogno, e il bene (servizio) che ci permette di attenuare o far scomparire quella sensazione di disagio. Il marketing quindi non è in grado di creare bisogni, come si credeva diffusamente fino a qualche tempo fa, ma può solo creare una domanda per i beni e servizi che permettono di soddisfare quei particolari bisogni, i quali pre-esistono e sono legati allo stesso vivere di ciascuno di noi. Un bisogno generico è un problema che un consumatore cerca di risolvere acquistando prodotti o servizi, mentre un bisogno derivato è una specifica risposta tecnologica a un bisogno generico e rappresenta l’oggetto del desiderio del consumatore. (ad esempio, l’automobile è un bisogno derivato in relazione al bisogno generico di trasporto individuale autonomo). A parità di bisogno generico da soddisfare, i differenti bisogni derivati sono alternativi e competono tra loro. Quale bisogno derivato prenderà il sopravvento sugli altri, dipenderà dalle caratteristiche dell’individuo, nonché da ragioni psicologiche e culturali. Un ruolo importante del mkt strategico consisterà dunque nel favorire l’adattamento dell’impresa all’evoluzione osservata nella soddisfazione dei bisogni; evoluzione caratterizzata dalla saturazione relativa dei bisogni derivati, provocata dal progresso sia a livello di performance dei prodotti stessi, sia a livello di sostituzione pura e semplice di una soluzione tecnologica con un’altra, talvolta migliore (VinileCD-ROM). In questa prospettiva l’azienda ha quindi interesse a definire la sua mission facendo riferimento al bisogno generico piuttosto che al bisogno derivato, visto che il secondo a differenza del primo, è variabile. Keynes nell’ambito dei bisogni generici ha compiuto un’ulteriore distinzione in: - Bisogni assoluti, che sono quelli che noi sentiamo qualunque sia la condizione altrui e sono dunque saturabili. - Bisogni relativi, che sono quelli la cui soddisfazione ci porta al di sopra dei nostri simili, donandoci una sensazione di superiorità nei loro confronti e sono dunque insaziabili, poiché più sale il livello generale, più essi andranno oltre. È il fenomeno per cui gli individui hanno la tendenza a considerare la loro situazione peggiorata, anche se in termini assoluti il loro livello di vita è migliorato nettamente, se coloro che servono abitualmente da elemento di confronto hanno visto migliorata la loro posizione relativa più di loro. Lo scarto tra la realtà e il livello di soddisfazione tende a spostarsi continuamente, con un aumento dell’insoddisfazione e quindi produrre per soddisfare i bisogni relativi significa concorrere a svilupparli ulteriormente. Si stabilisce un’altra distinzione per quanto riguarda i bisogni: - Bisogni espressi, di cui il cliente potenziale è consapevole; - Bisogni latenti, di cui il cliente potenziale non è ancora consapevole, perché non sono ancora presenti nella sezione conscia del pensiero, ma si attivano quando si manifestano determinate circostanze I bisogni latenti sono universali, in quanto esistono in ogni consumatore. Il ruolo del mkt strategico proattivo è quello di scoprirli e di analizzare il loro potenziale di redditività, attivando un dialogo interfunzionale con il reparto R&S, gli analisti di marketing e gli addetti alla produzione. Da una parte ci sono i cosidetti “bisogni consapevoli”, che a loro volta comprendono i bisogni espressi (ciò che il cliente dice), i bisogni non espressi (ciò che il cliente si aspetta) e i bisogni immaginari ( i sogni del cliente). Dall’altra, invece, ci sono i “bisogni non consapevoli”, che includono i bisogni effettivi (il benessere del cliente) e i bisogni inconsci (ciò che motiva inconsciamente il cliente). L’obiettivo del mkt strategico è quello di fornire al cliente soluzioni concepite sulla base di una buona comprensione dei suoi bisogni effettivi, di cui sia consapevole o meno. I bisogni esistenziali sono quei bisogni la cui soddisfazione fornisce una certa utilità, che è strettamente legata al funzionamento del bene/servizio acquistato e consumato. Il semplice possesso di quel bene fa sentire meglio il cliente, lo gratifica. Tuttavia, nella realtà di tutti i giorni, le persone si ritrovano immerse in un “vuoto esistenziale” caratterizzato dall’assenza di specifici bisogni o di precisi obiettivi e attività concrete da svolgere. In queste situazioni il benessere psico- fisico diminuisce ed è allora possibile che ci si ritrovi a svolgere qualche attività, o ad utilizzare dei beni, senza avere un fine preciso, ma per il solo gusto di farlo; tali azioni sono fini a se stesse e piacevoli in quanto tali. Questi sono i bisogni esperienziali, che provocano azioni compiute per il piacere che si prova mentre le si fa e senza obiettivi specifici: tutti provano questo tipo di bisogni, in particolare quando sentono la necessità di tenersi occupati o interessarsi a qualcosa. Quindi in un’ottica di analisi dei bisogni del cliente, le imprese devono tenere in considerazione anche altri aspetti di natura esperienziale ed edonistica oltre a quelli funzionali e tecnici del bene o del servizio. Il filone del marketing esperienziale si dedica proprio allo studio e all’analisi dell’esperienza di consumo nei differenti contesti, mettendo a disposizione dei marketing manager una serie di strumenti, strategici e operativi, tali da poter migliorare la soddisfazione dei propri clienti. La motivazione può essere definita come quell’energia che ci spinge a mettere in atto un comportamento finalizzato a un preciso obiettivo. In pratica quando un individuo avverte una sensazione di malessere, dovuta alla mancanza di qualcosa (quando avverte un bisogno) inizierà a porre in essere tutta una serie di comportamenti e azioni volte a soddisfare quel bisogno e a far cessare la sensazione di malessere. La spinta, l’impulso di questi comportamenti finalizzati è ciò che in psicologia viene definito “motivazione”. La motivazione svolge due funzioni: attiva i comportamenti, dando l’impulso, e li orienta, definendone la direzione e la tipologia. Vi sono due approcci di tipo psicologico che spiegherebbero l’origine della motivazione e dunque del comportamento individuale: l’approccio comportamentista e l’approccio cognitivista. Il primo studia il comportamento senza fare riferimento alla consapevolezza dell’individuo; il secondo attribuisce consapevolezza e volontà all’individuo, il quale con i suoi ragionamenti è in grado di decidere come comportarsi. Per gli studiosi comportamentisti, il concetto fondamentale è l’apprendimento: il comportamento di un individuo dipenderebbe da ciò che ha fatto in passato e dai risultati dei comportamenti già messi in atto. Per gli studiosi cognitivisti, invece, i concetti fondamentali sono l’elaborazione delle informazioni, la memoria e tutti i processi cognitivi che avvengono dentro di noi quando ci si trova di fronte a una decisione da prendere. Le teorie della motivazione La teoria della riduzione delle pulsioni o teoria “omeostatica” (Cannon) Parte dal presupposto che vi siano alcuni bisogni fondamentali, i quali danno luogo a specifiche pulsioni. Le pulsioni, a loro volta, orientano i comportamenti individuali: la motivazione, quindi, secondo tale teoria, è legata all’equilibrio delle pulsioni. Qui si parla allora di “omeostasi”, cioè di un meccanismo attraverso il quale un problema crea una pulsione, grazie alla quale l’attività che ne risulta mira a ristabilire l’equilibrio, sopprimendo la pulsione. L’organismo è considerato come essenzialmente reattivo, nel senso che esso risponde in modo specifico agli stimoli che riceve, con uno schema tipico di S-R (stimolo-risposta). Il concetto di comportamento motivato o diretto ad uno scopo (Tolman) Sviluppato da Tolman, si fonda sull’ipotesi che l’anticipazione o l’attesa del risultato sia il motore principale nell’orientare la nostra condotta, servendo in pratica da stimolo all’azione. Tolman introduce le cosidette “variabili intervenienti” o “intermedie”, le quali non sarebbero altro che i processi interni che connettono la situazione-stimolo iniziale con la risposta osservabile. La formula S-R si trasforma in S-I-R, dove la variabile intermedia è ciò che avviene all’interno dell’organismo (variabili intervenienti o intermedie), che provoca poi una determinata risposta come reazione allo stimolo. La teoria dell’incentivo (Hull) Hull introduce un’altra variabile proveniente dall’ambiente esterno: gli incentivi. Essi amplificano le pulsioni fondamentali o ne evocano altre non direttamente collegate ai bisogni fisiologici. Secondo questa teoria il comportamento è regolato da una relazione costi-benefici: l’individuo imparerà a reagire a certi stimoli ponendo in essere quei comportamenti che procurano un beneficio o comunque degli effetti positivi ed evitando quei comportamenti che implicano costi o che hanno in passato procurato effetti negativi. Quindi il meccanismo che permette di giudicare se un comportamento avrà effetti negativi o positivi è quello dell’apprendimento e dell’esperienza. L’incentivo rappresenta lo scopo o una sorta di ricompensa che influirà sull’intensità della motivazione dell’individuo. La teoria dell’attivazione (Hebb) Tale teoria si basa sull’ipotesi che l’organismo non sia fisiologicamente inerte, ma, al contrario, abbia un’attività naturale che costituisce una sorta di automotivazione. La motivazione nascerebbe, per Hebb, non tanto dall’abbassare il livello generale di stimolazione, quanto dal mantenerlo a un livello ottimale, che non è uguale per tutti gli individui. I livelli di attività di un individuo dipenderebbero dal grado di energia mobilizzata, cioè dalla variazione del livello di risveglio o di attenzione, misurato attraverso le variazioni di corrente elettrica nel tronco cerebrale e controllate tramite un elettroencefalogramma. Hebb ammette l’esistenza di un livello ottimale di risveglio che favorirebbe il funzionamento rapido del meccanismo stimolo-risposta. Quando lo scarto, rispetto al livello ottimale, è negativo, provoca una sensazione di noia; nel caso opposto, provoca una sensazione di fatica e ansia. Tale motivazione implica da una parte, un comportamento di riduzione delle tensioni che soddisfi i diversi bisogni psico-fisici e riduca un livello di risveglio troppo elevato; dall’altra parte, un comportamento di lotta contro la noia che cerchi di non far abbassare troppo il livello di risveglio, innalzandolo con la ricerca di stimoli. Per gli economisti, la riduzione del livello di risveglio è particolarmente importante, perché, a loro giudizio, quasi tutte le attività umane, compreso il consumo, hanno origine da questo processo. Teoria della ricerca della novità (Berlyne) Berlyne dimostrò che per spiegare i processi di apprendimento occorreva introdurre i concetti di complessità dello stimolo – per cui gli stimoli relativamente più complessi sono di solito preferiti agli stimoli più semplici – e di novità - nel senso di sorpresa, di diversità rispetto al passato o a ciò che ci si aspettava. Precisiamo tuttavia che il nuovo e l’insolito, se usati sempre, attirano solo fino a un certo punto, al di là del quale infastidiscono o disorientano. Questo rapporto si traduce in curva a forma di U rovesciata, la “curva di Wundt”, fig. 5.2 pag 87: ciò che non è abbastanza nuovo né sorprendente annoia, ciò che lo è troppo disorienta. Un grado intermedio di novità sembra essere il più attraente. Il bisogno di piacere Gli psicologi sperimentali hanno evidenziato l’esistenza del piacere come fenomeno diverso dall’assenza di sofferenza o dalla presenza di benessere. Le sensazioni di piacere nascerebbero dalle variazioni del livello di risveglio, in particolare quando queste variazioni riportano verso l’optimum un livello di risveglio troppo basso o troppo alto. Si possono identificare due fonti di piacere: quella che deriva dal processo di soddisfazione di un bisogno e dalla riduzione di tensione che procura; quella che deriva dallo stesso stimolo. Il processo di soddisfazione di un bisogno è gradevole in sé e spinge l’organismo a continuare l’attività alla quale si è dedicato fino alla sazietà e anche oltre. Nel caso in cui, invece, il piacere derivi dallo stimolo in sé, l’obiettivo del bisogno non consiste nel colmare una mancanza, ma nello sviluppare l’individuo in quanto tale, attraverso la trasmissione all’individuo di una volontà di progresso e superamento; si ottiene maggiore soddisfazione lottando per un obiettivo che non raggiungendolo. Una volta superata la fase del trionfo, l’individuo è quasi deluso dall’aver raggiunto il suo scopo, dandosi allora un’altra meta ancora più lontana, forzando così il suo ambiente a stimolarlo. Benessere individuale E’ possibile descrivere le 3 forze motivazionali (determinanti) che determinano il benessere individuale: - La ricerca di comfort, che deriva da 2 tipologie di comportamento: una che riduce le tensioni soddisfacendo i bisogni omeostatici; l’altra che lotta contro la noia con stimoli legati a novità, cambiamento, rischio, ecc; - La ricerca di piacere, derivante anch’essa da due fonti: il piacere dato dalla riduzione delle tensioni e quello derivante dalla stimolazione; - La ricerca di stimolazione, non solo come mezzo per combattere la noia, ma anche come obiettivo in sé. La ricerca di comfort si propone di colmare una mancanza e di assicurare così un bene negativo; il piacere e la stimolazione, invece, hanno lo scopo di assicurare un bene positivo. La progressiva escalation del marketing, che prende la forma di prodotti rinnovati in continuazione, non fa altro che adeguarsi all’evoluzione dei bisogni di piacere e stimolazione che si osserva nelle società opulente, dove i bisogni di base sono ampiamente soddisfatti, ma dove al contrario i bisogni di novità, sorpresa e rischio diventano necessità vitali. Si tratta, dunque, di una ricerca senza fine , dal momento che non esiste saturazione possibile per questo tipo di bisogno. La struttura multidimensionale dei bisogni -L’elenco dei bisogni di Murray Murray sostiene che un bisogno è un costrutto ipotetico che rappresenta una forza nella corrispondente regione del cervello e che organizza e guida il comportamento della mente e del corpo al fine di mantenere l’organismo in una condizione di equilibrio. Egli fornisce un elenco schematico dei bisogni dell’individuo, che classifica secondo quattro dimensioni: bisogni primari (viscerogenici) o secondari (psicogenici), a seconda che abbiano origine fisiologica o meno; bisogni positivi o negativi, a seconda che il soggetto sia attirato o respinto dall’oggetto; bisogni manifesti o latenti, a seconda che il bisogno conduca a un comportamento reale o immaginario; bisogni consapevoli o inconsapevoli, a seconda che mantenga nei loro confronti un atteggiamento introspettivo o meno. Murray fornisce una lista di 37 bisogni suddivisi in queste diverse categorie. Egli ritiene che tutti gli individui abbiano gli stessi bisogni, ma che la loro espressione possa variare da persona a persona, in base a differenze caratteriali o di contesto. Si possono distinguere tre stati diversi: refrattario, in cui nessuno stimolo è in grado di risvegliare il bisogno; inducibile, in cui il bisogno è inattivo ma può essere risvegliato; attivo, in cui il bisogno determina il comportamento dell’organismo. -La gerarchia dei bisogni di Maslow Maslow raggruppa i bisogni fondamentali in 5 categorie: bisogni fisiologici, di sicurezza, sociali, di stima e di autorealizzazione (vedi approfondimento 5.2). L’analisi di Maslow postula l’esistenza di una gerarchia tra questi bisogni, che sarebbe in funzione dello sviluppo dell’individuo. Ci sarebbe, quindi, secondo lui un ordine prioritario nei bisogni, nel senso che ognuno di noi comincia a ricercare la soddisfazione dei bisogni prioritari prima di passare alla categoria successiva. Questi bisogni di ordine inferiore, una volta soddisfatti, lasciano spazio ai bisogni della classe superiore, che iniziano cosi a divenire motivanti e a influenzare il nostro comportamento. Queste categorie di bisogni coesistono sempre; ciò che cambia è il grado d’importanza che ognuna di esse può assumere a seconda dell’individuo o, per uno stesso individuo, a seconda delle circostanze. Quindi nel realizzare il processo di marketing, è importante essere consapevoli del ruolo dei beni e delle marche non semplicemente dal punto di vista funzionale, ma anche per i valori emozionali o simbolici che portano con sé. -La lista dei valori di Rokeach I valori sono strettamente legati ai bisogni umani, ma si esprimono a un livello più vicino a noi; essi sono le rappresentazioni mentali dei bisogni sottostanti, individuali, ma anche sociali e istituzionali. In altre parole, un valore è la convinzione durevole del fatto che uno specifico modello di comportamento o di vita sia preferibile a un altro opposto o diverso, sul piano personale e sociale. Un “sistema di valori” è un insieme organizzato di convincimenti durevoli, relativamente a modelli di comportamento o di vita. Esistono 2 tipi di valori: i valori terminali, che sono i nostri convincimenti riguardo agli obiettivi che ci proponiamo di raggiungere (felicità, saggezza); mentre i valori strumentali indicano i nostri convincimenti sulle modalità di comportamento da adottare per raggiungere i valori terminali (comportarsi onestamente, assumersi delle responsabilità,ecc.). Dato che i valori si acquisiscono attraverso la cultura, la maggiorparte delle persone appartenenti a una stessa società possiede gli stessi valori, anche se in misura diversa. L’importanza relativa di ogni valore, varierà quindi da persona a persona e tali differenze possono essere utilizzate come criterio di segmentazione del mercato. La comprensione dei cambiamenti nei valori, all’interno di una società, faciliterà lo sviluppo di strategie efficaci nell’affrontare la dinamica del cambiamento sociale. -Il modello della catena mezzi-fini di Reynolds e Gutman L’obiettivo della teoria “mezzi-fini” (modello MEC: Means-End Chain Model) è quello di utilizzare i valori nelle ricerche di mkt per confrontare il comportamento del consumatori con i suoi valori, in quanto produttivo sia analiticamente sia previsionalmente. I mezzi sono i prodotti e servizi acquistati, che serviranno al consumatore a ottenere le conseguenze desiderate, ovvero i fini, che non sono altro che i valori terminali evocati da Rokeach. La rappresentazione mentale della catena è composta da 3 elementi: gli attributi (tangibili e intangibili); le conseguenze (fisiologiche e psico- sociali) derivanti dal comportamento di consumo da parte del consumatore; i valori (strumentali e terminali). Per scoprire varie gerarchie di mezzi e fini, Reynolds e Gutman hanno sviluppato un metodo d’intervista e analisi profonda, detto laddering, che consente di scoprire le relazioni causali tra gli attributi, le conseguenze e i valori. Per ogni attributo rilevante il ricercatore farà domande che gli consentano di ottenere una mappa delle catene mezzi-fini, organizzata in chiave gerarchica, che consente di evidenziare gli attributi più rilevanti e i collegamenti tra essi e le conseguenze e i valori. -La teoria dei valori del consumo di Sheth, Newman, Gross Applicando il concetto di valore ai comportamenti d’acquisto essi descrivono la decisione d’acquisto come un fenomeno multidimensionale che chiama in causa valori diversi, funzionali, sociali, emozionali, epistemici (di novità), circostanziali (in base alla situazione-contesto). Questi 5 valori apportano contributi diversi in una situazione di scelta, nel senso che alcuni valori possono possedere un’importanza maggiore rispetto ad altri. Essi sono tutti ugualmente indipendenti gli uni dagli altri: ogni valore si aggiunge agli altri e contribuisce alla formazione della scelta. L’analisi compiuta sinora ha riguardato unicamente i bisogni e le motivazioni dell’individuo in quanto consumatore finale. Tuttavia, in ogni economia, esiste una parte molto importante dell’attività commerciale che è incentrata sulle transazioni tra organizzazioni o imprese (B2B – Business-to-business). Si tratta soprattutto di imprese che vendono attrezzature, merci, semilavorati, materie prime e cosi via e che si rivolgono ad altre imprese utilizzatrici di questi prodotti nel loro sistema di produzione. La domanda industriale è una domanda derivata, cioè espressa da un’organizzazione che utilizza i prodotti acquistati, all’interno del suo sistema di produzione, per poter rispondere alla domanda sia di altre organizzazioni sia del consumatore finale. La domanda industriale, quindi, si inserisce in una filiera che dipende da una domanda che sta a valle e che a sua volta deriva dalla richiesta di beni di consumo. La domanda industriale, in particolare di beni d’investimento, è molto instabile e reagisce bruscamente a una debole variazione della domanda finale. Il cliente industriale è un acquirente professionista tecnicamente competente; l’atto d’acquisto è caratterizzato da un più alto livello di standardizzazione, rispetto a quello del consumatore finale. Il prodotto industriale ricercato è generalmente indicato con precisione dal cliente industriale che sa ciò che vuole a livello di “specifiche tecniche”; le prestazioni attese sono chiaramente specificate e il margine di manovra del fornitore è limitato. In un’impresa industriale le decisioni d’acquisto sono prese quasi sempre da un gruppo di persone, chiamato centro decisionale d’acquisto, che devono prendere insieme una specifica decisione d’acquisto. Ognuno di essi esercita un ruolo specifico nel processo decisionale. Il gruppo d’acquisto è caratterizzato dalla presenza di un sistema di comunicazione o d’interazione e da un insieme di valori e norme condivise, che orientano e vincolano, al contempo, il comportamento di ogni membro del centro d’acquisto. Nel centro d’acquisto si individuano ruoli diversi, coinvolti a vario titolo nell’atto d’acquisto, con diverse motivazioni, obiettivi e comportamenti, il che comporta che la maggiorparte delle decisioni d’acquisto siano conflittuali e frutto di un lungo processo di negoziazione interna. I ruoli sono: acquirente, ovvero colui che all’interno dell’organizzazione ha il compito formale di definire le condizioni d’acquisto, di selezionare i fornitori e negoziare i contratti (direzione acquisti); utente, colui che utilizza il prodotto e quindi può formulare specifiche rivendicazioni essendo nella posizione migliore per valutare le prestazioni dei prodotti/servizi acquistati (ingegnere di produzione o operai); prescrittore, che non necessariamente ha il potere d’acquistare, ma è in grado di influenzare la decisione finale, definendo dei criteri che restringono la scelta possibile (personale del settore R&S, progettisti, ingegneri, consulenti, ecc); decisore, cioè la persona responsabile della scelta finale delle marche e dei venditori. In genere esiste un tetto massimo di spesa per cui può impegnarsi direttamente, mentre gli acquisti più importanti possono spettare ad altri componenti dell’impresa, come il C.d.A; filtri, cioè i membri del gruppo che controllano il flusso di informazioni all’interno del gruppo stesso e che possono influenzare direttamente il processo d’acquisto. Saranno la complessità della decisione e il suo grado di novità per l’impresa a influenzare la composizione del centro d’acquisto. Esattamente come per il consumatore, il bisogno generico dei clienti industriali ha una struttura multidimensionale, in riferimento a 5 dimensioni: 1. Dimensione tecnologica (specifiche del prodotto, tecnologia all’avanguardia, qualità del prodotto); 2. Dimensione finanziaria (competitività del prezzo, costo del trasporto, installazione, manutenzione, puntualità delle consegne); 3. Dimensione di assistenza (servizio post-vendita di assistenza per l’installazione e la messa in opera, assistenza tecnica); 4. Dimensione d’informazione (comunicazione, qualificazione del personale, accesso all’innovazione e alla formazione, business intelligence); 5. Dimensione strategica (rapporti reciproci, modalità di organizzazione, reputazione di marca e impresa). Nonostante le determinanti del benessere del cliente industriale siano di natura molto diversa rispetto a quelle che presiedono al benessere del consumatore finale, le idee alla base dell’approccio hanno la stessa pertinenza: adattare l’offerta alla multidimensionalità del bisogno espresso dal cliente. Cap.6 Il comportamento d’acquisto del cliente Ogni transazione richiede che il cliente realizzi 3 tipi di azione: l’acquisto, cioè la scelta di un prodotto o servizio; il pagamento del prodotto o servizio acquistato; l’utilizzo o consumo. Un cliente quindi può esercitare 3 ruoli: acquirente, pagante e consumatore. L’acquirente è la persona che partecipa al processo d’acquisto nel mercato. Il pagante è la persona che finanzia l’acquisto. Il consumatore, infine, è la persona che usa e consuma il prodotto o beneficia del servizio. Tutti questi ruoli possono essere esercitati dalla stessa persona o unità organizzativa, oppure da diverse persone o istituzioni. La persona che paga il prodotto non è necessariamente quella che lo utilizzerà. Allo stesso tempo la persona che lo utilizza non è sempre quella che lo ha acquistato sul mercato. Ognuno di questi ruoli attribuisce a una persona la qualifica di cliente. È quindi importante conoscere, a seconda delle situazioni di mercato, il modo in cui i clienti si spartiscono tra loro questi ruoli, allo scopo di adattare di conseguenza gli sforzi di marketing in base al ruolo ricoperto. Acquisto e consumo nei mercati B2C Il comportamento d’acquisto è quell’insieme di attività che precedono, accompagnano e seguono le decisioni d’acquisto e durante le quali l’individuo interviene attivamente, al fine di compiere scelte con cognizione di causa e non in modo casuale e incerto. (può essere considerato come un processo di risoluzione di problemi). Nel processo d’acquisto intervengono le fasi tipiche del processo di risoluzione di un problema, da parte del cliente. Possiamo distinguere 5 fasi del processo d’acquisto: 1) individuazione del problema; 2) ricerca d’informazioni; 3) valutazione delle possibili soluzioni alternative; 4)decisione d’acquisto; 5)comportamento dopo l’acquisto. La complessità del processo decisionale varia a seconda del tipo di decisione e del livello di coinvolgimento del cliente. Il comportamento d’acquisto non è dunque casuale o condizionato dal contesto, ma piuttosto razionale, nel senso indicato dal principio di razionalità limitata, cioè nei limiti delle capacità cognitive e di apprendimento degli individui. Tale principio si basa su alcune ipotesi implicite. Presuppone innanzitutto che le scelte siano oggetto di una riflessione preliminare da parte del cliente, più o meno estesa secondo l’importanza del rischio percepito. Presuppone, inoltre, che le scelte si effettuino sulla base della previsione di dati futuri e non solo su osservazioni di breve periodo. Infine, ritiene che le scelte siano guidate dal principio della scarsità generalizzata, secondo cui ogni atto umano, ogni decisione, comporta un costo-opportunità. Questo approccio prende il nome di comportamento risolutorio razionale: i comportamenti adottati saranno considerati razionali nella misura in cui si dimostreranno coerenti rispetto agli obiettivi fissati inizialmente. Il comportamento razionale non esclude però quello impulsivo, che potrebbe essere adottato per il semplice gusto di farlo, per affrontare le conseguenze rischiose che ne deriverebbero, pur rimanendo comunque un comportamento di tipo razionale, perché voluto dal soggetto stesso. La razionalità comporta solo l’adozione di una procedura sistematica di scelta, ossia l’utilizzo coerente di un insieme di principi che portano alla scelta. Se la scelta, invece, viene fatta a caso, il comportamento diventa imprevedibile e casuale, e l’analisi impossibile. Il marketing accetta l’esistenza di quest’ultima tipologia di comportamento, ma non la ritiene rappresentativa del comportamento osservato nella maggior parte delle situazioni reali. Si possono distinguere tre tipi di comportamenti risolutori: estensivo, che verrà adottato laddove il valore delle informazioni e il rischio percepito siano elevati (ad es. di fronte a nuove marche in una categoria di prodotti nuova per il cliente) criteri di scelta mal definiti e ricerca approfondita di informazioni; limitato, che si osserverà quando l’acquirente si trovi di fronte a una marca nuova e sconosciuta all’interno di una classe di prodotti nota criteri di scelta già definiti, ma sarà richiesta comunque una preliminare ricerca di informazioni; di routine, quando il cliente sia riuscito ad accumulare una quantità sufficiente di esperienza e di informazioni, oltre a formulare preferenze ben definite su una o più marche in una categoria di prodotti nota  il processo di scelta sarà semplice e ripetitivo, quasi senza ricerca di informazioni e si osserverà un alto livello di fedeltà abitudinaria. La maniera in cui il cliente cercherà le informazioni necessarie a prendere la decisione d’acquisto dipende da una serie di fattori, quali: il rischio percepito; il grado di coinvolgimento; la familiarità e competenza con la tipologia di prodotto/servizio; lo stile di shopping. Il rischio percepito dipenderà dall’incertezza sulla portata delle conseguenze derivanti dalla scelta da compiere. Si identificano abitualmente 6 tipi di rischi avvertiti dall’acquirente: rischio funzionale, finanziario, di perdita di tempo, fisico, sociale, psicologico (approfondire pag 106). Per ridurre il rischio percepito prima della decisione d’acquisto, il cliente può ricorrere all’informazione proveniente da varie fonti. Il coinvolgimento può essere definito come una situazione di risveglio vissuta da un individuo riguardo a un’attività legata al consumo. Un forte grado di coinvolgimento comporta un livello elevato di riflessione preliminare e una forte reazione affettiva; un basso grado si determina, invece, quando i consumatori investono poco in termini di riflessione e sentimento. La familiarità con la tipologia di prodotto/servizio si riferisce alle precedenti esperienze che l’acquirente ha avuto col prodotto, sia in relazione a precedenti utilizzi o acquisti, sia in relazioni a comunicazioni pubblicitarie viste o informazioni già raccolte. La competenza, invece, corrisponde alla conoscenza specifica relativamente alla composizione del prodotto, alle sue caratteristiche tecniche (specifiche del prodotto) o al suo funzionamento. Si potrebbe pensare che i consumatori con meno competenza abbiano bisogno di più informazioni al fine di bilanciare il deficit di conoscenza. In realtà, sono i consumatori più competenti a ricercare più informazioni. Esistono poi due stili di shopping: funzionale, in cui lo shopping viene considerato come strumentale all’approvvigionamento di beni; ricreativo, in cui il consumatore valuta l’attività di shopping come un’attività autonoma rispetto all’acquisto, in quanto garantisce la possibilità di soddisfare altri bisogni, di tipo psicologico, come lo svago e l’intrattenimento. Per quanto riguarda i costi dell’informazione è possibile raggruppare in 3 categorie i costi di ricerca legati all’obiettivo di ridurre l’incertezza sulle alternative possibili, sul loro valore, nonché su termini e condizioni d’acquisto: i costi di ricerca, che sono sostenuti per conoscere i mercati e delimitare l’insieme delle opportunità che il cliente può considerare come alternative. I costi di percezione, invece, sono sostenuti per identificare le caratteristiche dei beni inseriti nell’insieme sotto esame, nonché i termini di scambio. I costi di valutazione, infine, permettono di valutare il grado di presenza delle caratteristiche percepite e di verificare l’autenticità dei segnali inviati dal mercato sulla qualità dei beni. Il costo in termini di tempo impiegato nell’acquisto, misurato dal costo-opportunità varia da individuo a individuo e anche a seconda delle situazioni. Per quanto riguarda le fonti d’informazione, una prima categoria comprende le fonti di informazione dominate dai produttori, cioè la pubblicità, il parere di venditori e distributori, gli espositori e le brochure. I vantaggi sono la gratuità e la facilità d’accesso. Tuttavia si tratta di informazioni incomplete e parziali, che valorizzano unicamente le caratteristiche positive del prodotto, cercando di non mettere in luce quelle negative. Una seconda categoria è costituita dalle fonti d’informazione personali, rappresentate dagli amici, dai vicini, dagli opinion leader o dal cosiddetto “passaparola”. Spesso questo tipo di info si addice ai bisogni del futuro acquirente e la loro affidabilità dipenderà da quella della fonte. Un’ultima categoria è costituita dalle fonti d’informazione neutre, quali gli articoli sui giornali o sulle riviste specializzate che trattano di vari settori. I vantaggi di questa fonte sono l’obiettività, il carattere concreto e la competenza dei consigli formulati. Laddove però il costo di percezione delle caratteristiche distintive di un prodotto sia particolarmente elevato, diventa conveniente per l’individuo unirsi ad altri consumatori (associazioni di consumatori) per compiere valutazioni approfondite che sarebbero irrealizzabili dal singolo. Si assiste così a una forma di sindacalizzazione dei consumatori, che rappresenta un contropotere (consumerismo) nei confronti dell’impresa, il cui principale scopo è la riduzione del costo di reperimento delle info da parte del consumatore. Processo d’acquisto nei mercati B2B Anche il processo d’acquisto del cliente industriale può suddividersi in diverse fasi; Webster e Wind ne propongono sei: identificazione dei bisogni; determinazione delle specifiche; identificazione delle alternative d’acquisto; valutazione delle alternative; scelta dei fornitori; controllo e valutazione delle performance. È chiaro che non tutte le decisioni del cliente industriale seguono necessariamente questo processo. Saranno la complessità della decisione e il suo grado di rischio o novità a determinare il grado di formalizzazione del processo d’acquisto, anche se ci potranno essere comunque delle variazioni nelle procedure organizzative e decisionali tra imprese, sia a seconda del settore sia delle dimensioni. Concetto centrale nei mercati B2B è quello di filiera industriale, che è costituita da tutti gli stadi del processo produttivo che porta, dalle materie prime, a soddisfare il bisogno del cliente finale, indipendentemente dal fatto che questo bisogno riguardi un bene materiale o un servizio. La sua struttura tipica è questa: (fig.6.5 pag 110) 1) Prima trasformazione. La domanda riguarda materie prime che vengono trasformate in prodotti semilavorati. 2) Trasformazione finale. La domanda riguarda prodotti grezzi che saranno trasformati in prodotti trattati, più complessi. 3) Primo assemblaggio. La domanda riguarda prodotti finiti che vengono utilizzati per fabbricare prodotti più complessi, che rappresentano , a loro volta, componenti di altri prodotti. 4) Assemblaggio finale. La domanda riguarda prodotti finiti che vengono assemblati in prodotti destinati alla domanda finale. 5) Assemblatori. La domanda riguarda una gran varietà di prodotti che vengono assemblati per creare sistemi o grandi complessi. Dal punto di vista del cliente si può definire il prodotto come un “paniere di attributi” che fornisce al cliente stesso il valore funzionale o “di base” specifico di quella classe di prodotti. Nel paniere è compreso anche un insieme di valori e caratteristiche secondarie (benefici o servizi) che possono a loro volta essere necessari o aggiunti. Sono soprattutto questi ultimi a differenziare le marche e a influenzare in maniera determinante le preferenze del cliente. Il servizio di base offerto da un prodotto o da una marca corrisponde al valore funzionale della categoria di prodotto, costituendo il vantaggio di base, o generico, fornito da ciascuna delle marche che fanno parte della categoria di prodotto. Tutte le marche appartenenti allo stesso mercato di riferimento offrono al cliente il medesimo servizio di base, con modalità che tendono ad uniformarsi, poiché le performance tecnologiche si equilibrano per effetto della concorrenza e della diffusione del progresso tecnologico. Sarà più discriminante come criterio di scelta, quindi, il modo in cui si offre il servizio di base. Il prodotto, infatti, come detto, offre un insieme di altre utilità o servizi supplementari, secondari rispetto al servizio base, ma la cui importanza può essere decisiva quando le prestazioni di due marche diverse si equivalgono. Tali servizi supplementari possono essere: necessari, ovvero modalità di produzione del servizio di base e tutto ciò che accompagna di norma il servizio base (confezione, consegna, termini di pagamento, servizio post-vendita); aggiunti, ovvero utilità non legate al servizio di base, offerte in più dalla marca e che rappresentano un importante elemento di differenziazione. È evidente che diversi clienti possano attribuire differenti gradi d’importanza alla presenza di alcuni attributi. Possiamo quindi definire una marca, come un paniere di attributi che genera il servizio di base e alcuni servizi supplementari, necessari o aggiunti, la cui importanza e utilità possono essere percepite in modo diverso dai potenziali clienti. Bisogna sottolineare che ogni marca possiede almeno una caratteristica unica (di solito più di una) e la sua percezione globale da parte del cliente costituisce dunque l’immagine di marca (identità di marca percepita dal cliente). Il Customer Relationship Management (CRM) La gestione del rapporto con il cliente (CRM, Customer Relationship Management) è al centro nel processo di marketing e prevede che le imprese valutino in modo sistematico il grado di soddisfazione del cliente e monitorino attitudini e livello di soddisfazione raggiunti anche dopo l’uso o il consumo. Può esservi una differenza significativa tra la qualità concepita dal produttore e quella voluta e percepita dal cliente, senza che quest’ultimo esprima necessariamente la sua insoddisfazione. Da qui la necessità di interpellare direttamente il cliente e di misurare formalmente il suo grado di soddisfazione o d’insoddisfazione. Oggi le aziende hanno acquisito una maggiore possibilità di utilizzare tecnologie e di gestire relazioni one-to-one con un numero di clienti potenzialmente enorme, in un contesto di mercato globale. Lo scopo del CRM è quello di aumentare in modo efficace ed efficiente l’acquisizione e il mantenimento di clienti redditizi avviando in modo selettivo, costruendo e mantenendo con loro un rapporto adeguato. Anche il marketing relazionale (relationship marketing) si propone di sviluppare relazioni reciproche e a lungo termini con i clienti più redditizi, ma all’interno di una visione che contempla più soggetti portatori d’interesse. Con il CRM si parte dall’identificazione, all’interno del segmento target, degli indiziati, cioè i clienti che potrebbero essere molto interessati al prodotto/servizio offerto; dei candidati, ossia i potenziali clienti che hanno già un forte interesse nei confronti del prodotto e che hanno i mezzi per pagarlo, e infine dei candidati non accreditati, cioè coloro che l’azienda esclude perché non sufficientemente affidabili o redditizi. A questo punto l’impresa cercherà di convertire i candidati accreditati in nuovi clienti e, se soddisfatti, in clienti affezionati. La sfida successiva è quella di trasformare i clienti in sostenitori, ossia consumatori che lodano l’azienda, incoraggiando altre persone a rivolgersi alla stessa per i loro acquisti. I progressi nell’information technology e nelle tecnologie web possono aiutare ad instaurare questo tipo di relazioni selettive, con strumenti e software in gran numero che permettono all’azienda di mettere in atto il CRM, acquisendo, interpretando ed utilizzando una grande quantità di dati sui clienti. Non bastano però tali software o strumenti per mettere in pratica un buon piano di CRM; la ricerca ha provato, infatti, che affinchè il rapporto col cliente sia efficace, è necessario che membri delle diverse funzioni dell’impresa (mkt operativo, sistemi informativi e gestione delle risorse umane, lavorino insieme per costituire team interfunzionali appositi. È inoltre necessario che la cultura aziendale, orientata al mercato o al cliente, sia presente a ogni livello dell’organizzazione. Relazione cliente-fornitore nei mercati B2B In questi mercati si possono identificare 3 diverse categorie di cliente, in base al grado di controllo e volontà di collaborazione nel corso dell’esperienza d’acquisto da parte sua: il cliente collaborativo, che vuole e può avere un rapporto di controllo condiviso col fornitore, con scambio dinamico di informazioni su esigenze del cliente e offerte del fornitore (tipologia ideale di orientamento al cliente per far funzionare il mkt one-to-one); il cliente attivo, che ricerca il controllo quasi totale della relazione d’acquisto, definendo le specifiche, i termini di consegna e i parametri di costo, facendo adattare i fornitori alle sue richieste; il cliente passivo, che ha un basso livello di coinvolgimento nell’esperienza d’acquisto e non mostra fedeltà e disponibilità a informarsi di più. La tipologia del cliente è fondamentale per adattare il CRM. Comportamento post-acquisto del cliente L’obiettivo del CRM è quello di costruire rapporti redditizi, durevoli e reciproci con buoni clienti. Per farlo è necessario: monitorare la soddisfazione del cliente; gestire correttamente i reclami dei clienti insoddisfatti; trovare soluzioni appropriate ai loro problemi; ricompensare i clienti che collaborano e dimostrano fedeltà. I clienti che pongono dei problemi sono: (a) quelli che sono scontenti e non si lamentano; (b) quelli che si lamentano ma non sono soddisfatti del modo in cui il loro reclamo è stato accolto e trattato dall’impresa. Le perdite di clienti provengono da questi 2 gruppi e costituiscono una forma di pubblicità negativa tramite passaparola, dannosa e difficilmente controllabile dall’impresa. Il modello di misurazione della soddisfazione/insoddisfazione del cliente è lo stesso modello del paniere di attributi di cui si è già parlato. Le domande riguardano l’importanza di ciascun attributo e il grado di presenza percepita dell’attributo stesso (performance) nel prodotto/servizio in esame. La procedura d’indagine si articola in 3 fasi. Viene stabilito prima il livello generale di soddisfazione dell’intervistato; quindi gli viene chiesto di attribuire un punteggio (da 1 a 10) all’importanza e alla performance di ciascun attributo; infine vengono misurate le intenzioni volte a una ripetizione dell’acquisto.  Matrice 6.10 pag 119 Se il livello di soddisfazione del cliente è alto, la sua fedeltà naturalmente crescerà, diventando il principale motore della performance finanziaria a lungo termine. Alla radice di un comportamento fedele c’è un processo valutativo che occorre identificare, e che è correlato al livello di soddisfazione del cliente. Jacoby e Kyner hanno elencato 6 criteri considerati necessari e sufficienti, nell’insieme, a determinare la fedeltà alla marca: 1 risposta comportamentale; 2 premeditata (non casuale); 3 espressa nel tempo; 4 da una unità decisionale; 5 con rispetto a una o più marche alternative; 6 dipendente da un processo psicologico (decisionale, valutativo). Il concetto di fedeltà alla marca è importante in particolare alla luce della relazione esistente tra fedeltà e soddisfazione, oltre che per l’impatto che la fedeltà del cliente ha sulla redditività dell’impresa. Si tenderebbe a pensare che il rapporto tra soddisfazione e fedeltà sia di tipo lineare. In realtà è più complesso e vi possono essere differenze a seconda della situazione competitiva (fig. 6.11 pag 121). Nei mercati non competitivi, il grado di soddisfazione ha un impatto limitato sul grado di fedeltà, perché si tratta essenzialmente di mercati monopolistici regolamentati o mercati in cui i costi di trasferimento sono molto elevati, in cui i clienti sono vincolati e, quindi, non hanno scelta. Nei mercati competitivi, invece, in cui la concorrenza è intensa, esistono molti beni succedanei e i costi di trasferimento sono minimi, vi sono notevoli differenze tra i clienti “soddisfatti” (punteggio di 4) e quelli “pienamente soddisfatti” (tra 4 e 5). Quindi possiamo concludere affermando che limitarsi semplicemente a soddisfare clienti che hanno libertà di scelta non è più sufficiente per conservare la loro fedeltà. Soltanto i clienti pienamente soddisfatti, infatti, saranno clienti veramente fedeli. Parte terza: l’implementazione del marketing strategico Cap.8 L’analisi dei mercati attraverso la segmentazione Una delle prime decisioni strategiche che l’impresa deve prendere ha attinenza all’identificazione del mercato di riferimento e alla scelta dei segmenti di clienti target. Questa scelta comporta innanzitutto la scomposizione del mercato totali in sottoinsiemi di clienti omogenei in termini di bisogni, comportamenti e motivazioni d’acquisto, i quali andranno a costituire mercati potenziali a sé stanti. L’impresa può scegliere di rivolgersi al mercato nel suo complesso o di concentrarsi su uno o più segmenti del mercato di riferimento. Il tipico risultato di un’analisi di segmentazione è una griglia che descrive il profilo qualitativo e quantitativo dei segmenti principali. In un secondo tempo, sulla base di tale scomposizione, l’impresa potrà valutare il livello di attrattività di ogni segmento, misurando la sua competitività, prima di decidere a quale segmento target rivolgersi e che posizionamento adottare all’interno dei segmenti scelti. Il processo di segmentazione strategica si compone di 4 fasi fondamentali. La prima fase è costituita dall’analisi di segmentazione, ossia la suddivisione dei prodotti-mercati in gruppi di potenziali acquirenti aventi le stesse aspettative o richieste (condizione di omogeneità), che devono essere diverse da quelle dei consumatori di altri segmenti (condizione di eterogeneità). La seconda fase riguarda l’individuazione del mercato target, oppure la selezione di uno o più segmenti cui rivolgersi, in base all’ambizione strategica dell’impresa e alle sue capacità distintive. È una decisione fondata sui risultati dell’analisi di attrattività e di competitività. La terza fase consiste nel posizionamento sul mercato, in cui si decide come l’azienda intenda essere percepita dal potenziale cliente, in base alle qualità distintive del prodotto e alle posizioni già occupate dai concorrenti. La quarta fase, infine, prevede la programmazione di marketing, mirata ai segmenti target, cioè lo sviluppo e la messa in opera di specifici programmi di mkt, per conquistare il posizionamento desiderato nei segmenti target. L’analisi di segmentazione (1 fase) viene a sua volta suddivisa in 2 momenti: macrosegmentazione, che mira all’identificazione dei prodotti-mercati, e microsegmentazione, che porta a distinguere i segmenti di clienti all’interno di ciascun prodotto-mercato preso in esame. Esistono 4 metodi per applicare la microsegmentazione: 1 la segmentazione descrittiva, basata sulle caratteristiche socio-demografiche del cliente; 2 la segmentazione in base ai benefici o vantaggi ricercati, invece, considera esplicitamente la categoria del prodotto e il sistema di valori dell’individuo; 3 la segmentazione in base allo stile di vita, basata sulle caratteristiche socio- culturali del cliente, a prescindere dalla categoria di prodotto; 4 la segmentazione comportamentale, infine, classifica i clienti in base al loro comportamento d’acquisto. Analisi di “macrosegmentazione” Nella maggior parte dei mercati è praticamente impossibile soddisfare tutti i clienti con un unico prodotto o servizio: clienti diversi hanno infatti interessi e desideri diversi. Le imprese sono spinte quindi ad abbandonare sempre più le strategie di mkt di massa per evolvere verso strategie di mkt mirate a uno o più gruppi di clienti. La segmentazione definisce il campo di attività dell’impresa, guida lo sviluppo della strategia e determina la tipologia di competenze necessarie nell’unità di business. Per realizzarla si presuppone la definizione della missione dell’impresa, cioè il suo ruolo in un’ottica di orientamento al mercato: in quale settore/i operare? In quali settore/i non operare? Bisogna rispondere a queste domande in una prospettiva orientata alle soluzioni cercate dal cliente, in quanto quest’ultimo identifica il prodotto con la soluzione che offre: nessuno compra un prodotto in quanto tale, ma ciò che si cerca è appunto la soluzione a un problema che il prodotto è in grado di offrire. La definizione della mission del business costituisce il punto di partenza per lo sviluppo della strategia, perché aiuta a identificare i clienti da servire, i concorrenti da superare, i fattori di successo da controllare e le tecnologie a disposizione per la produzione del servizio. Occorre perciò definire il mercato di riferimento dal punto di vista del cliente in base a 3 dimensioni: i clienti, o chi occorre soddisfare (a livello di macrosegmentazione si considerano le caratteristiche generali, mentre a livello di microsegmentazione si prendono in considerazione le fasce d’età, i vantaggi perseguiti, i comportamenti d’acquisto o lo stile di vita); le tecnologie utilizzate per soddisfare i bisogni e che potranno essere sostituite da altre col tempo; i bisogni o funzioni da soddisfare. Da un punto di vista grafico si ottiene così uno schema tridimensionale (fig. 8.3 pag 163). Per quanto riguarda i confini di mercato possiamo distinguere 3 concetti: prodotto mercato, definito da un gruppo specifico di clienti che cerca una determinata funzione o un assortimento di funzioni basate su una singola tecnologia; mercato-soluzione, definito dall’esecuzione di determinate funzioni per un gruppo di clienti determinati, comprese tutte le tecnologie sostitutive che possono eseguire la stessa funzione; industria, definita da una particolare tecnologia, ma che include diversi business (funzioni o bisogni) e numerosi gruppi di clienti. Queste 3 definizioni corrispondono a 3 diverse strategie di copertura del mercato (fig. 8.4 pag 164  approfondire da lì). Griglia di macrosegmentazione Una volta identificate le variabili di segmentazione rilevanti, il compito successivo è quello di individuare le combinazioni pertinenti e costruire una griglia di segmentazione. Si considerano i vari bisogni o funzioni in primis, poi le tecnologie disponibili e infine i gruppi di clienti. Si può approfondire l’analisi su un particolare bisogno/tecnologia/gruppo di clienti e ottenere di conseguenza il numero di segmenti interessati (vedi es. “automezzi pesanti”, pag 164-165-166). L’analisi di pertinenza, poi consente di ridurre ulteriormente il numero di segmenti considerati, in base alle variabili che rivestono un’importanza strategica; le variabili tra loro correlate vanno raggruppate in modo da ridurne il numero, mentre le combinazioni impossibili vanno eliminate. I segmenti che presentano differenze trascurabili o dimensioni troppo contenute vanno raggruppati e la griglia di segmentazione deve comprendere non solo i segmenti esistenti, ma anche quelli potenziali. Per verificare l’utilità della griglia di segmentazione è necessario collocare i clienti dell’impresa e i suoi concorrenti principali nei segmenti considerati, con l’obiettivo di valutare il potenziale di ciascun segmento in termini di dimensioni e di crescita e misurare la quota di mercato dell’impresa in ciascun segmento. Tutto ciò aiuterà l’impresa a definire la strategia di copertura del mercato e a raggruppare i segmenti che presentano le stesse richieste e/o gli stessi concorrenti. Sottoposta alla pressione del progresso tecnologico e dei cambiamenti nelle abitudini di consumo, la definizione dei confini del mercato non rimane stabile, ma viene interessata da processi evolutivi lungo le 3 dimensioni: bisogni, tecnologie, clienti. In particolare, l’estensione verso nuovi gruppi di clienti avviene attraverso un processo di adozione e diffusione (pc nelle scuole). L’estensione verso nuove funzioni, invece, avviene attraverso un processo di sistematizzazione e attraverso la creazione di prodotti che inglobano una combinazione di funzioni (telefoni con fax e segreteria telefonica). L’estensione verso nuove tecnologie, infine, è possibile attraverso un processo di sostituzione tecnologica (fotografia digitale che sostituisce quella tradizionale). Sono queste forze a spiegare i diversi profili del ciclo di vita del prodotto, criterio chiave nella determinazione dell’attrattività dei prodotti-mercati. Microsegmentazione nei mercati dei beni di consumo Obiettivo della microsegmentazione è l’analisi più approfondita della diversità nelle richieste dei vari gruppi di clienti all’interno dei prodotti-mercati (o macrosegmenti) identificati attraverso la macrosegmentazione. I clienti appartenenti a uno stesso prodotto-mercato richiedono lo stesso tipo di servizio di base; tenendo presente il concetto di prodotto come paniere di attributi, possono esserci delle differenze nelle modalità di erogazione del servizio di base o nei servizi supplementari. L’analisi di microsegmentazione si propone quindi d’individuare gruppi di clienti che cercano nel prodotto lo stesso paniere di attributi. Si può cosi arrivare a una strategia di differenziazione che, tramite il miglioramento del servizio o la soddisfazione delle richieste del cliente, fornisca un vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti. La segmentazione socio-demografica (o descrittiva) è un metodo di segmentazione indiretta dei clienti che si basa sul presupposto che persone che presentano diversi profili socio-demografici hanno anche diversi bisogni e aspettative verso prodotti e servizi. Le variabili più utilizzate sono il sesso, l’età, il reddito, la provenienza geografica, le dimensioni del nucleo familiare, il livello d’istruzione, il tipo di occupazione e la classe sociale: tutte variabili che riflettono dati statistici facilmente rilevabili e misurabili. Nella pratica, tale segmentazione si basa contemporaneamente su diverse variabili [fig. 8.6 pag 169 la risposta del mercato viene descritta in rapporto a due variabili dipendenti: la percentuale di famiglie che hanno acquistato la marca (tasso di occupazione) e la quantità media acquistata per famiglia (tasso di penetrazione); la media nazionale è rappresentata dal punto d’intersezione tra le due linee tratteggiate]. I vantaggi di questo metodo sono i costi ridotti e la facilità di applicazione, in quanto nella maggior parte dei mercati, le informazioni relative a variabili socio-demografiche sono direttamente accessibili attraverso fonti ufficiali. Un grande difetto di questo metodo di segmentazione è dato dal suo valore previsionale, che tende a diminuire nelle economie industrializzate, in seguito alla crescente standardizzazione delle modalità di consumo nelle diverse classi sociali (appartenere al gruppo ad alto reddito non implica più necessariamente un comportamento d’acquisto diverso da quello di un soggetto appartenente alla classe media). La segmentazione socio-demografica quindi va completata attraverso altri metodi d’analisi, per poter spiegare e prevedere i comportamenti d’acquisto dei consumatori La segmentazione in base ai vantaggi perseguiti si concentra sulle differenze all’interno dei sistemi di valori dei clienti. Il fattore critico della motivazione da individuare è il valore o il vantaggio ricercato in un determinato prodotto (differenze nelle preferenze). Ogni segmento è definito in base al paniere completo di attributi ricercati; è questo che consente di distinguere i segmenti tra loro, e non semplicemente il fatto che un segmento ricerchi un attributo diverso rispetto ad un altro. Ciò che fa la differenza è l’importanza relativa assegnata ai singoli attributi quando i clienti si trovano di fronte alla scelta: tale valore può risultare efficace come criterio di segmentazione del mercato. Le opportunità di segmentazione nascono dunque dai compromessi che i consumatori sono disposti ad accettare tra i possibili benefici e il prezzo da pagare per averli. L’applicazione del modello del prodotto visto come paniere di attributi, presuppone la raccolta delle seguenti informazioni da un campione rappresentativo di consumatori target: - La lista degli attributi o vantaggi associati alla categoria di prodotti in esame; - Una valutazione dell’importanza relativa assegnata a ciascun attributo; - Un raggruppamento dei clienti che esprimono valutazioni simili; - Una valutazione delle dimensioni e del profilo di ciascun segmento identificato Sarebbe inoltre utile raccogliere informazioni supplementari sul profilo delle persone appartenenti a ciascun segmento. L’analisi in base ai vantaggi perseguiti presenta importanti implicazioni per la definizione della politica di prodotto. Una volta che il mkt ha compreso le aspettative di un determinato gruppo di consumatori, infatti, l’impresa può sviluppare prodotti nuovi o modificati indirizzati a un gruppo di clienti potenziali che ricerca una determinata combinazione di vantaggi. La maggiore difficoltà di un metodo di questo tipo riguarda l’identificazione degli attributi da privilegiare, poiché i consumatori sono poco inclini all’introspezione in tema di consumi. Inoltre, tale analisi implica la raccolta di dati primari, che costituisce sempre un’operazione costosa, in quanto è necessario dopo ricorrere a sofisticati metodi di misurazione statistica multivalutativa e l’analisi cluster per identificare i vari sottogruppi di clienti. La segmentazione tramite analisi congiunta ha come obiettivo quello di misurare le preferenze dei clienti per diversi livelli degli attributi dei prodotti e dei benefici da essi generati. Poiché queste misurazioni avvengono a livello individuale, l’analista che rileva un’eterogeneità nelle preferenze può tentare di formare segmenti raggruppando gli individui che assegnano la stessa utilità agli attributi (vedere esempio e tabella 8.5 pag 174) La segmentazione comportamentale si propone di classificare i consumatori rispetto al loro reale comportamento d’acquisto al momento della transazione; si qualifica dunque come un metodo di segmentazione applicato a posteriori. I criteri più usati sono l’utilizzo del prodotto (utilizzatori, non utilizzatori, ex utilizzatori, utilizzatori potenziali, regolari, occasionali), il volume d’acquisto (piccoli, medi e grandi utilizzatori; gli ultimi meritano un trattamento speciale) e il tipo di fedeltà (clienti a fedeltà incondizionata, non esclusiva e non fedeli). Tale metodo di segmentazione è basato sul sistema informativo interno dell’azienda e su banche dati dei clienti ed è alla base del cosiddetto CRM. Al contrario nella cosiddetta segmentazione tribale sono gli individui stessi a raggrupparsi spontaneamente in base a caratteristiche comuni. In un moto di resistenza alla solitudine, sembra che molte persone cerchino oggi di creare legami sociali e vicinanza affettiva. Sotto la spinta di questo ritorno alla comunità, la società si evolverebbe così verso la ricostituzione delle tribù, ovvero microcomunità nelle quale i soggetti sono stretti da forti legami emotivi e da una sorta di cultura comune. L’appartenenza a una tribù non è il risultato di caratteristiche individuali, ma di un’esperienza comune della realtà. Ciononostante queste tribù sono più volatili ed effimere delle comunità tradizionali, poiché ogni individuo è libero di uscirne quando desidera. La segmentazione socio-culturale o per stili di vita viene in sostegno a quella demografica aggiungendo elementi come attività, attitudini, interessi, opinioni, percezioni e preferenze allo scopo di ottenere un profilo più completo del consumatore. L’obiettivo è quello di fornire un ritratto più umano dei clienti, che comprenda anche livelli meno ovvii, quali la motivazione e la personalità. Lo scopo principale consiste nel mettere in relazione il comportamento d’acquisto e una serie di variabili della personalità. Quando si parla di stile di vita, s’intende generalmente il modo in cui una persona vive, come trascorre il tempo e come spende il suo denaro. In particolare si può definirlo come il risultato globale del sistema di valori di un individuo, dei suoi atteggiamenti, dei suoi interessi e delle sue opinioni, oltre che del suo tipo di consumo. Esso descrive il modo di essere di un soggetto e lo distingue dagli altri. I sistemi d’analisi degli stili di vita sviluppati finora hanno riguardato soprattutto Attività-Interessi-Opinioni (AIO): - Le attività degli individui, cioè il modo in cui impiegano il loro tempo; - Gli interessi degli individui, cioè tutto quanto reputano importante per se stessi nel proprio ambiente. - Le opinioni riguardo sé e il mondo che li circonda; - Alcune caratteristiche demografiche di base, quali la fase del loro ciclo di vita, il reddito, l’istruzione e il luogo di residenza I risultati di queste indagini vengono registrati e regolarmente aggiornati. L’analisi fattoriale della variabili misurate permette d’identificare della macrocaratteristiche, nonché dei nuclei di risposta coerenti e significativi che corrispondo agli stereotipi o “stili sociali”, che caratterizzano la società o il gruppo di individui studiato. (tabella 8.6 pag 178) Microsegmentazione nei mercati dei beni industriali Concettualmente non esistono differenze rilevanti tra la segmentazione dei mercati dei beni industriali o quella dei beni di consumo, anche se vengono utilizzati criteri molto diversi. È possibile tracciare la stessa distinzione tra macro e micro segmentazione. La segmentazione descrittiva consiste nell’utilizzare delle caratteristiche aziendali che descrivono il profilo del cliente B2B, come il settore industriale, la localizzazione geografica, la dimensione dell’impresa, la composizione della base azionaria o i mercati finali serviti. Questo tipo di informazioni è di facile accesso tramite le agenzie governative, che pubblicano dettagliate classificazioni industriali. Molte imprese scelgono di avere due diverse aree vendite, per clienti piccoli e per clienti grandi: spesso l’azienda si occupa di questo secondo gruppo, mentre i distributori gestiranno tutti gli altri clienti. La segmentazione in base ai vantaggi perseguiti poggia direttamente sui bisogni specifici del cliente industriale che vengono, nella maggior parte dei casi, definiti molto chiaramente. Si classificano i clienti in base al settore o all’utilizzo finale del prodotto. Le funzioni esercitate da un prodotto industriale e la loro importanza nel processo produttivo del cliente industriale variano a seconda che si tratti di beni strumentali principali (stabilimento) o secondari (radiatore e camioncino); di prodotti intermedi semilavorati (lamiere) o di componenti (motori elettrici); di prodotti di consumo (piccola utensileria); di materie prime grezze (carbone, lubrificante); di servizi (ingegneria, pulizia, manutenzione). La percezione economica del prodotto da parte del cliente industriale sarà molto diversa a seconda di queste diverse categorie di beni. La segmentazione comportamentale ha come obiettivo quello di adattare le strategie d’approccio ai clienti in rapporto alle strutture e alle caratteristiche di funzionamento del centro decisionale d’acquisto. Il grado di formalizzazione del processo d’acquisto può variare notevolmente a seconda della complessità delle decisioni da prendere e delle strutture organizzative. Emergono anche altre caratteristiche legate al centro d’acquisto, quali le motivazioni dei suoi diversi membri, i rapporti di forza tra le diverse funzioni rappresentate, il grado di formalismo e il tempo necessario a prendere una decisione. Tali caratteristiche di comportamento non sono in genere direttamente osservabili e, di conseguenza, è spesso difficile identificarle. Ciononostante è estremamente importante per i venditori esserne a conoscenza. Per essere efficace e utile, l’analisi di segmentazione deve identificare gruppi di clienti che rispettano 5 condizioni: - Risposta differenziata. I segmenti identificati devono essere diversi dal punto di vista della loro sensibilità a una o più variabili di marketing controllate dall’impresa. Bisogna quindi che il criterio di segmentazione applicato massimizzi le differenze tra i segmenti (condizione di eterogeneità) e minimizzi quelle tra clienti nell’ambito di uno stesso segmento (condizione di omogeneità). Uno stesso individuo può partecipare a due o più segmenti; prodotti che appartengono a segmenti diversi possono essere acquistati dalla stessa persona. Un segmento quindi non raggruppa necessariamente degli acquirenti, ma piuttosto gli acquisti che essi effettuano. - Dimensione sufficiente. I segmenti identificati devono costituire un mercato potenziale di dimensioni tali da giustificare l’elaborazione di una specifica strategia di marketing. Questa condizione non riguarda soltanto la dimensione del segmento in termini di volume o frequenza degli acquisti, ma anche il suo ciclo di vita. È quindi importante accertarsi che la nicchia identificata non sia effimera e la durata della sua vita economica sia lunga; è importante, infine, anche che il prezzo accettabile per il segmento target sia sufficientemente remunerativo per l’impresa. - Misurabilità. Prima di scegliere un segmento target, bisogna poter stabilire le sue dimensioni, valutare il potere d’acquisto dei segmenti identificati e le caratteristiche comportamentali. - Accessibilità. Essa indica la misura in cui un segmento di mercato è raggiungibile utilizzando un unico programma di marketing. Esistono 2 modi per arrivare ai potenziali clienti. Uno consiste nell’ “autoselezione dei clienti”, per cui i consumatori si selezionano da soli in base all’attenzione che riservano alla pubblicità del prodotto. Con questa tecnica si arriva a un target più generico, mentre il prodotto e la pubblicità mirano direttamente al gruppo selezionato. L’altro, invece, consiste nella “copertura controllata dei segmenti”. Si tratta di una strategia più efficace dal punto di vista dell’impresa, che si basa su una strategia comunicativa che implica una buona conoscenza del profilo socio-demografico del segmento target, per raggiungere quasi esclusivamente quest’ultimo, evitando di sprecare risorse, cosa che non sempre si verifica quando la segmentazione è basata sui vantaggi ricercati e sugli stili di vita. - Attivabilità. Per raggiungere i segmenti è possibile elaborare programmi di marketing specifici. I segmenti transnazionali di mercato Nell’ America del Nord, in Giappone, in Europa occidentale e in alcuni dei paesi emergenti si individuano i cosiddetti segmenti transnazionali, ovvero gruppi di consumatori con gli stessi bisogni e le stesse aspettative, ma residenti in Paesi diversi. Globalizzazione non significa però standardizzazione degli stili di vita, perché comunque ogni gruppo manifesta il desiderio di mantenere e difendere la propria diversità culturale. L’interdipendenza dei mercati, unita a questa frammentazione culturale, dà luogo paradossalmente a una convergenza culturale, creando segmenti transnazionali di mercato. Si trovano insomma gruppi di consumatori in ciascun Paese con gli stessi bisogni e aspettative. La globalizzazione dei bisogni non è quindi sinonimo di standardizzazione degli stili di vita: essa si traduce invece nella nascita, in Paesi diversi, di gruppi di consumatori dal profilo simile, cui rivolgersi usando le stesse campagne pubblicitarie e le stesse marche. La segmentazione internazionale rappresenta un approccio globale alla vendita di prodotti fisicamente simili in tutto il mondo. L’obiettivo è scoprire nei diversi Paesi gruppi di consumatori con le stesse aspettative in relazione ai prodotti, a prescindere dalle differenze culturali e nazionali. Per adattarsi alle differenze locali, il prodotto può poi essere personalizzato con l’aggiunta di servizi accessori o modifiche di basso costo. Il potenziale di globalizzazione, però, non è uguale in tutti i prodotti della stessa categoria, per cui è necessario adottare approcci diversi. Cap.9 L’analisi di attrattività del mercato I risultati dell’analisi di segmentazione si presentano sotto forma di una griglia di segmentazione che descrive i diversi segmenti o prodotti-mercati che formano il mercato di riferimento. Il compito successivo è quello di misurare l’attrattività dell’opportunità economica che questi diversi segmenti rappresentano, per poi scegliere il segmento target. L’analisi di attrattività si propone di misurare e prevedere le dimensioni, il potenziale di vendita, il ciclo di vita e il profitto potenziale di ciascun segmento. Tali previsioni vengono poi utilizzate dalla direzione generale dell’impresa per calibrare l’investimento e la capacità di produzione. Analisi della domanda La domanda di un determinato prodotto corrisponde, innanzi tutto, alla quantità venduta. Per iniziare, bisogna distinguere fra 2 livelli di domanda: la domanda primaria o globale di mercato e la domanda relativa all’impresa o domanda selettiva. La domanda primaria di un determinato prodotto rappresenta il volume delle vendite realizzate presso un dato gruppo di clienti in un luogo e in un periodo specifici e in un determinato contesto economico e di micromarketing. Tale definizione comporta quindi l’identificazione preliminare del segmento o del prodotto-mercato di riferimento, ed è funzione degli investimenti di marketing sia del contesto sia del settore nel suo insieme. La domanda relativa alla marca o all’impresa rappresenta la quota della domanda primaria detenuta dalla marca o dall’impresa in una determinata categoria di prodotto e in un determinato segmento o prodotto-mercato. Si possono osservare due situazioni di mercato ben distinte: i mercati in cui la domanda primaria è detta espandibile, ovvero quando il livello delle vendite è influenzato da fattori del contesto macromarketing, nonché dall’intensità degli sforzi di marketing (è ciò che accade nella fase di introduzione e di crescita del ciclo di vita di un prodotto nuovo, quando il suo tasso di occupazione e penetrazione sono deboli inferiori al 20%); i mercati in cui la domanda primaria è stagnante e viene definita non espandibile, ovvero quando il livello totale delle vendite non è più influenzato dal contesto macromarketing in cui è inserito e dagli sforzi di mkt delle aziende concorrenti (è ciò che accade nei mercati che si trovano in fase di maturità, in cui si registrano tassi di occupazione e penetrazione molto alti; in queste situazioni l’impresa deve tener presente che potrà ottenere un aumento delle vendite solo ed esclusivamente aumentando la sua quota di mercato. La domanda primaria non è rappresentata da una quantità fissa ma da una funzione, che mette in relazione il livello delle vendite alle cause che lo determinano, le quali si definiscono “determinanti della domanda”. A determinare il livello delle vendite intervengo 2 categorie di fattori: fattori controllabili, rappresentati dagli sforzi totali di mkt delle imprese concorrenti nel mercato, e fattori esterni o non controllabili, legati al contesto macromarketing. Fattori di marketing (contabili) --- Fattori del contesto macromarketing (non controllabili) vedere figure e spiegazione nei paragrafi pag 188 e 189 Il mercato potenziale attuale (livello di saturazione) è rappresentato graficamente dal limite verso il quale tende la domanda primaria, per una pressione di mkt totale del settore tendente all’infinito, in un dato contesto e in un determinato periodo di tempo. Il mercato potenziale assoluto, può essere invece definito come il limite massimo della dimensione del mercato, nell’ipotesi fittizia di una copertura ottimale del mercato di riferimento. Esso dipende dal tempo, evolvendosi sotto l’influenza di fattori di diffusione e contagio o a causa di fattori esogeni, quali i cambiamenti nel livello dei prezzi, la legislazione, ecc. L’impresa non ha alcun controllo diretto su questi fattori, che tuttavia influiscono in modo decisivo sull’evoluzione del mercato. In alcuni casi le imprese possono riuscire ad influenzare le cause esogene (attraverso azioni di lobbying), ma il loro potere rimane limitato. Gran parte degli sforzi aziendali, quindi, sono diretti a cercare di prevedere i cambiamenti di contesto. Struttura della domanda primaria di beni di consumo L’analisi, la misurazione e la previsione della domanda sono la prima responsabilità delle ricerche di mercato, con l’obiettivo di arrivare a stime quantitative del mercato potenziale e del livello attuale della domanda, oltre che di formulare ipotesi sul suo sviluppo negli anni successivi. La stima della domanda dei beni di consumo si basa essenzialmente su 2 fattori: il numero di unità potenziali di consumo (n) e la quantità acquistata da ciascuna unità (q). Si ha quindi Q = n x q dove Q indica la domanda totale in quantità. Analogamente il volume d’affari totale si determina cosi  R = n x q x p, dove R indica il volume d’affari totale e p il prezzo medio per unità. Non durevoli La domanda totale di un bene non legato all’uso di un bene durevole può determinarsi ricorrendo ai dati seguenti: numero di unità di consumo potenziali; percentuale di clienti che utilizzano il prodotto (tasso di occupazione); dimensione o frequenza degli acquisti (tasso di penetrazione). Il mercato potenziale assoluto si determina ipotizzando un tasso di occupazione del 100% e un tasso di penetrazione ottimale per occasione di utilizzo. Si dovrà quindi disporre di dati sui comportamenti di consumo per determinare il livello attuale della domanda primaria. Durevoli Quando il bene di consumo è durevole, si deve distinguere tra domanda di primo acquisto e domanda di sostituzione. “La domanda di primo acquisto” chiama in causa i seguenti dati: numero di unità di consumo esistenti e loro tasso di dotazione; numero di nuove unità di consumo e il loro tasso di dotazione. Un dato importante per la crescita della domanda di primo acquisto è la velocità di diffusione del bene durevole nel segmento target. “La domanda di sostituzione” è più complessa da valutare e dipende direttamente dal ritmo al quale gli utenti si sbarazzano di un prodotto in quanto consumato oppure considerato obsoleto (tasso di rottamazione); chiama in causa le seguenti componenti: dimensioni del parco esistente; distribuzione dell’età del parco; distribuzione della durata di vita; tasso di rottamazione del prodotto; eventuale effetto di sostituzione (nuove tecnologie); tasso di mortalità delle unità di consumo. In linea generale, i tassi di rottamazione possono essere assunti in larga misura come proporzionali alla durata di vita fisica dei prodotti in una determinata categoria. In altri termini, se la durata media è di 12 anni, il tasso annuale di rottamazione dovrebbe teoricamente essere uguale al suo reciproco, ossia all’8,3 %. Le previsioni formulate sulla durata di vita tecnica dei beni durevoli influiscono direttamente sul livello previsto della domanda primaria negli anni successivi. Alcuni dei dati necessari per la previsione della domanda primaria possono essere ottenuti a partire dai dati storici relativi alle vendite, in particolare alla dimensione del parco e alla distribuzione della sua età. La domanda primaria di servizi La domanda di servizi nei mercati di consumo si determina esattamente come la domanda di beni di consumo, basandosi sul numero di unità di consumo potenziali e sulla frequenza di utilizzo del servizio. Essi però presentano un certo numero di caratteristiche distintive che influenzano pesantemente la gestione di mkt: sono immateriali e deperibili e la loro produzione necessita di un contatto diretto con la persona o organizzazione che eroga il servizio. La domanda di beni industriali La domanda industriale è una domanda derivata dal mercato di consumo finale. Il responsabile mkt dei beni industriali deve quindi non solo conoscere le condizioni del suo mercato, ma deve anche essere consapevole dell’evoluzione dei mercati serviti dai suoi clienti, e dai clienti dei suoi clienti. La domanda di beni industriali si struttura in modo diverso a seconda che si tratti di beni di consumo, di componenti o di attrezzature industriali. I dati necessari alla valutazione della domanda sono praticamente gli stessi che vengono utilizzati per i beni destinati al consumatore finale, con poche eccezioni. Beni industriali di consumo Si tratta di prodotti che l’impresa industriale utilizza nella sua attività produttiva e che non vengono incorporati nel prodotto finito. Le componenti della domanda sono: numero potenziale di imprese utenti (per dimensioni); percentuale di utenti effettivi (per dimensioni); livello di attività per utente effettivo; tasso d’impiego per occasione d’uso. Componenti industriali I componenti industriali vengono incorporati nel prodotto fabbricato dal cliente industriale. In questo caso la domanda dipende direttamente dalla quantità prodotta dall’impresa industriale cliente. Si hanno quindi le seguenti componenti della domanda: numero di potenziali utenti industriali (per dimensioni); percentuale di utenti effettivi (per dimensioni); quantità prodotta per utente effettivo; tasso d’impiego per unità di prodotto. Beni industriali strumentali In questa categoria rientrano prodotti come le macchine utensili o i pc, necessari all’attività produttiva. Si tratta di beni durevoli ed è quindi importante distinguere ancora una volta fra domanda di primo acquisto e domanda di sostituzione. La domanda di beni strumentali industriali dipende direttamente dalla capacità produttiva delle imprese clienti e quindi una variazione anche minima della domanda finale può tradursi in un cambiamento sostanziale nella domanda di beni strumentali. Questo fenomeno prende il nome di “effetto di accelerazione”. La volatilità della domanda di beni strumentali implica che per un’accurata previsione della propria domanda i produttori di tali beni devono analizzare non solo la propria domanda, ma anche la domanda finale che si rivolge alle imprese che essi riforniscono, da cui in definitiva dipendono. Opportunità di crescita nel mercato esistente Lo scarto tra il livello attuale e il livello assoluto della domanda primaria rappresenta un indicatore del grado di sviluppo o sottosviluppo di un prodotto-mercato. Maggiore è lo scarto, più il potenziale di crescita della domanda primaria sarà elevato; viceversa, minore è lo scarto, più si sarà vicini al livello di saturazione. Weber ha elaborato uno schema detto gap analysis, per studiare lo scarto tra il mercato potenziale attuale e quello potenziale assoluto, identificando 4 opportunità di crescita: gap nella distribuzione; gap nell’utilizzo; gap nell’offerta di prodotti; gap nella concorrenzialità. Gap nella rete distributiva Le carenze nella distribuzione sono dovute a un’assenza o a un’inadeguatezza della rete di distribuzione nel prodotto mercato. Si possono verificare 3 situazioni: 1) una copertura insufficiente, quando la linea di prodotto rilevante non è distribuita in tutte le aree geografiche desiderate; 2) un’intensità di distribuzione insufficiente, quando il prodotto è presente nell’area geografica in cui l’impresa ha copertura distributiva, ma in un numero troppo basso di punti vendita; 3) un’esposizione insufficiente, quando le linee di prodotto dell’impresa sono mal presentate o mal valorizzate sugli scaffali dei punti vendita. La domanda di una particolare linea di prodotti può essere penalizzata dal verificarsi di una o tutte queste tre situazioni. Gap nell’utilizzo del prodotto Si possono verificare tre tipi di gap nell’impiego del prodotto: 1) una carenza nel numero di utenti, quando molti utenti potenziale non impiegano il prodotto; 2) una carenza nelle occasioni di utilizzo del prodotto, quando gli utenti effettivi non utilizzano il prodotto in tutte le possibili occasioni d’impiego; 3) una carenza d’impiego, quando gli utenti effettivi utilizzano una quantità ridotta di prodotti a ogni impiego. Gap nelle linee di prodotti L’inadeguatezza delle linee di prodotti è dovuta alla mancanza di una linea completa. In questo caso si possono verificare 7 diverse situazioni: 1) gap nella dimensione delle linee di prodotti; 2) gap nelle opzioni disponibili nelle linee di prodotti; 3) gap nello stile, colore, gusto o profumo della linea di prodotti; 4) gap nella forma; 5) gap di qualità nelle linee di prodotti; 6) gap nelle linee di prodotti con marca del distributore; 7) gap nelle linee di prodotti relativi a un determinato segmento. (approfondire se necessario da pag 197 a 199). Il modello del ciclo di vita del prodotto (CVP) Nell’analisi di attrattività, l’analisi del potenziale di mercato, rappresenta una prima fase, che va completata con una valutazione del ciclo di vita del prodotto o servizio (CVP), ossia dell’evoluzione della domanda potenziale nel tempo. Il modello dinamico del ciclo di vita del prodotto descrive il ciclo vitale di un prodotto per mezzo di una funzione logistica a forma di “S” composta da cinque fasi: decollo o introduzione; crescita esponenziale; turbolenza; maturità; declino. (fig. 9.9 pag 200). Si ritiene generalmente che il livello di analisi più utile per quanto riguarda il ciclo di vita sia quello del prodotto-mercato. Un prodotto-mercato si presta meglio a un’analisi del ciclo di vita perché descrive meglio i comportamenti d’acquisto in una determinata categoria di prodotto e definisce più chiaramente il quadro di riferimento: un prodotto visto come un insieme specifico di attributi, destinato a un gruppo determinato di clienti. Uno stesso prodotto può, infatti, presentare un profilo di ciclo di vita diverso a seconda dei mercati geografici, o addirittura a seconda dei vari segmenti nell’ambito di uno stesso mercato di riferimento. A ogni prodotto-mercato, quindi, può corrispondere un ciclo diverso, che riflette non soltanto l’evoluzione del prodotto, determinata in larga parte dalla tecnologia, ma anche della domanda primaria e delle sue determinanti. Come abbiamo già detto i fattori più importanti dell’evoluzione della domanda primaria sono le variabili di contesto fuori controllo e, dall’altra, le variabili di marketing totalmente sotto controllo dell’impresa. Il modello CVP ritrae la storia delle vendite di un prodotto dotato di una determinata tecnologia, che costituisce una soluzione specifica (tra molte altre) a un bisogno di mercato per un gruppo specifico di acquirenti. Il CVP rimane sempre esposto all’influenza della pressione di mkt del settore, in particolare nella fase di espansione del mercato. È il dinamismo delle imprese che fa evolvere un mercato, lo sviluppa ed eventualmente lo rilancia attraverso modifiche al prodotto. Affermare che un prodotto ha un ciclo di vita significa che: - L’ambiente economico e competitivo è diverso in ogni fase; - L’obiettivo strategico prioritario deve essere ridefinito in ogni fase; - La struttura dei costi e dei profitti è diversa in ogni fase - Il programma di mkt deve essere adattato in ogni fase del CVP. La strategia di mkt deve evolvere, dunque, di pari passo con i cambiamenti dei comportamenti dei consumatori e della concorrenza, che intervengono nelle varie fasi. La fase di introduzione Nella fase di introduzione, il mercato è spesso (ma non sempre) caratterizzato da una crescita lenta delle vendite, dovuta a diversi fattori tipici del contesto: -l’incertezza tecnologica, quando l’impresa non domina ancora completamente la tecnologia e quindi non può ancora produrre al livello massimo di efficienza; -la distribuzione può mostrarsi restia in questa fase nell’offrire un prodotto non ancora affermato su un ampio mercato; -i clienti potenziali possono essere lenti nel modificare le loro abitudini di consumo o produzione, in ragione di un atteggiamento cauto nei riguardi dell’innovazione e dei costi ad essa legati (solo i più ricettivi adotteranno il prodotto per primi, contribuendo alla lenta crescita delle vendite); -la concorrenza, che inizialmente nei confronti di un’azienda innovatrice è inesistente, fino a quando durerà la protezione dell’innovazione. La concorrenza di prodotti succedanei può tuttavia essere molto forte, se si eccettua il caso di un’innovazione di rottura. Questa fase è caratterizzata da un elevato grado d’incertezza: infatti la tecnologia è ancora in evoluzione, i concorrenti non si sono ancora identificati, il mercato è mal definito e l’informazione di mercato è scarsa: quanto più si tratta di innovazione di rottura, tanto maggiore sarà l’incertezza. La fase introduttiva è caratterizzata anche da fattori interni all’impresa, come flussi di cassa fortemente negativi, elevate spese di marketing, alti costi di produzione e spesso investimenti in ricerca e sviluppo da ammortizzare. Tutti questi fattori pongono il nuovo prodotto in una posizione molto rischiosa dal punto di vista economico e finanziario, per cui quanto più breve è la fase introduttiva, tanto meglio è per la redditività d’impresa. Quindi l’obiettivo strategico di mkt fondamentale consiste nel creare la domanda primaria il più rapidamente possibile, perseguendo obiettivi di educazione del mercato; il programma di mkt, dunque, nella fase introduttiva, avrà in genere tali caratteristiche: una concezione di base del prodotto; una distribuzione selettiva o esclusiva; una situazione di scarsa sensibilità ai prezzi; un programma di comunicazione di tipo informativo La fase di crescita Se il prodotto supera con successo il test dell’introduzione sul mercato, entra nella fase di crescita, caratterizzata da un rapido sviluppo delle vendite. Una caratteristica importante di questa fase è la diminuzione regolare dei costi di produzione, dovuta all’aumento dei volumi prodotti e all’effetto d’esperienza che comincia a manifestarsi. I prezzi tendono a ridursi, consentendo in tal modo di raggiungere progressivamente la copertura totale del mercato potenziale. Le spese di mkt vengono quindi ripartite su un volume d’affari più consistente e i flussi di cassa diventano positivi. Nuovi concorrenti si affacciano sul mercato e la tecnologia comincia ad essere ampiamente diffusa nel mercato. Per far fronte a questa nuova situazione, gli obiettivi di mkt strategico diventano quelli di estendere la dimensione del mercato totale, costruendo una forte immagine di marca e creando la fedeltà ad essa. Tutto ciò sarà possibile arricchendo il prodotto di nuove caratteristiche, distribuendolo intensivamente o attraverso il metodo multicanale, riducendo il prezzo per penetrare il mercato e adottando una strategia comunicativa mirata alla costruzione dell’immagine. La fase di turbolenza Questa fase rappresenta una fase di transizione, durante la quale il tasso di crescita delle vendite subisce una decelerazione, pur rimanendo superiore a quello dell’economia generale. I concorrenti più deboli abbandonano il mercato in seguito alla diminuzione dei prezzi e quindi il settore aumenta il suo grado di concentrazione, complicando lo scenario. L’attenzione da un punto di vista strategico, si sposta dallo sviluppo della domanda primaria alla creazione o massimizzazione della quota di mercato. Inoltre, la segmentazione deve orientare la politica di prodotto, allo scopo di differenziare l’offerta dalle sempre più diffuse imitazioni e di allontanarsi dal concetto di “prodotto medio”, posizionando chiaramente la marca nella mente dei clienti, creando e mantenendo la fedeltà. Per raggiungere tali obiettivi, il programma di mkt dovrà adottare una differenziazione del prodotto guidata dalla segmentazione del mercato, espandere la distribuzione per ottenere la massima copertura di mercato, attuare una politica di prezzo basata sugli attributi della marca e promuovere un messaggio pubblicitario che miri a comunicare al mercato il posizionamento scelto. In questa fase l’indicatore chiave di performance aziendale, in questa fase (che può essere molto breve), diventa la quota di mercato. La fase di maturità Nel momento in cui la crescita della domanda primaria continua a rallentare, per poi assestarsi al ritmo di crescita del PIL in termini reali, o al ritmo della crescita demografica, il prodotto è entrato nella fase di maturità. La maggior parte dei prodotti si colloca in questa fase, che è solitamente la più lunga. In questa fase i tassi di occupazione e penetrazione del prodotto nel mercato sono molto elevati, e poco suscettibili di ulteriori aumenti, cosi come la distribuzione già intensiva e difficilmente aumentabile e la tecnologia, già stabilizzatasi, in attesa di piccole modifiche secondarie del prodotto. Il mercato, in tale fase, è molto segmentato e le imprese si sforzano di coprire l’intera gamma dei bisogni offrendo una vasta scelta di varianti dello stesso prodotto. Dunque si fa più elevata la probabilità di un rilancio tecnologico del prodotto, mentre tutti i concorrenti nel mercato si sforzano di prolungarne la vita media. Il mercato, dominato da pochi concorrenti, assume una struttura oligopolistica e, di conseguenza, l’obiettivo prioritario dell’impresa consiste nel mantenere e, se possibile, allargare la quota di mercato e ritagliarsi un vantaggio competitivo difendibile sui concorrenti diretti, dato che la concorrenza basata sul prezzo si fa più intensa, ma con un impatto ormai scarso o nullo sulla domanda primaria, divenuta anelastica rispetto al prezzo. Si potrebbe così differenziare i prodotti, con miglioramenti qualitativi o di stile, entrare in nuove nicchie di mercato oppure acquisire un vantaggio competitivo basato sulle variabili del mkt mix non legate al prodotto. Questa, a condizione che l’impresa riesca ad evitare una guerra di prezzi, è la fase in cui la redditività è più elevata; in teoria il livello di redditività corrisponderà alla quota di mercato mantenuta. La fase di declino Questa fase si traduce in un decremento strutturale della domanda in quanto possono comparire nuovi prodotti tecnologicamente più avanzati, che sostituiscono i prodotti esistenti, svolgendo la stessa funzione; possono modificarsi preferenze, gusti e abitudini di consumo, rendendo i prodotti superati; possono, inoltre, esserci cambiamenti nell’ambiente sociale, economico e politico, che in alcuni casi rendono i prodotti obsoleti, se non addirittura vietati. Quando le vendite e le previsioni di utile calano, alcune imprese disinvestono e si ritirano dal mercato; altre, al contrario, scelgono di specializzarsi sul mercato residuo nel caso in cui rappresenti ancora un’opportunità valida, cioè quando il calo delle vendite è graduale. Salvo inversioni di rotta del mercato, verificatesi in alcuni casi, l’abbandono di un prodotto tecnologicamente sorpassato è a lungo andare inevitabile Una delle difficoltà interpretative del modello del CVP è rappresentata dal fatto che le osservazioni sperimentali mostrano che la vita di un prodotto non sempre segue la curva a forma di “S” proposta dal modello. Non si presume l’esistenza di un solo modello di evoluzione che intervenga sempre, e non è sempre facile identificare la fase che il prodotto sta attraversando, tanto più che la durata delle fasi può variare da un prodotto all’altro, se non addirittura da un Paese all’altro per uno stesso prodotto. I diversi profili osservati si spiegano con l’evoluzione dei fattori quali la tecnologia, le abitudini di consumo e il dinamismo delle imprese. La difficoltà consiste, quindi, nel determinare in anticipo il tipo di evoluzione destinato a prevalere. In ogni fase del CVP l’impresa dinamica tenterà di: - Abbreviare la fase di introduzione; - Accelerare la fase di crescita; - Prolungare la fase di maturità; - Rallentare la fase di declino. Un profilo ideale di CVP è caratterizzato da una fase d’introduzione breve, una fase di crescita rapida, una fase di maturità lunga e un declino lento e progressivo, con la possibilità per l’impresa innovatrice di modificare attraverso le proprie iniziative il profilo del ciclo di vito del prodotto- mercato in questione. Conciliare obiettivi di crescita e di redditività La struttura dei flussi finanziari che accompagnano l’evoluzione (idealizzata) della domanda primaria nel tempo è descritta nella fig. 9.14 pag 211. I flussi finanziari sono ripartiti in modo estremamente disomogeneo tra le varie fasi del CVP. Nelle fasi d’introduzione e crescita, gli investimenti passati e le spese di mkt per il lancio del prodotto influiscono notevolmente sulla redditività, che può restare a lungo negativa, specie nei mercati in cui l’introduzione è lunga. Soltanto nelle fasi di turbolenza e maturità l’impresa innovativa entra nella zona di redditività, poiché recupera le perdite precedenti e realizza margini di profitto lordi più elevati oltre a una riduzione dei costi dovuta alle economie di scale. Una regola di gestione risultante da questa ripartizione dei costi e ricavi è rappresentata dalla necessità di mantenere un equilibrio nella struttura del portafoglio di attività dell’impresa, in termini di crescita e redditività. Tutto ciò comporta la presenza costante di prodotti del tipo “mucche da latte” (cash cow), che generano risorse finanziarie consistenti assorbendone poche, e di prodotti del tipo “problematico” (problem child), o prodotti nuovi, che hanno un potenziale di crescita elevato, ma il cui sviluppo richiede notevoli investimenti finanziari. La ricerca di un equilibrio tra crescita e redditività è il fondamento dei metodi di analisi del portafoglio. Cap.10 L’analisi di competitività dell’impresa Dopo aver valutato l’attrattività intrinseca dei prodotti-mercati e dei segmenti nel mercato di riferimento, il mkt strategico, nella fase successiva, ha l’obiettivo di analizzare la situazione competitiva di ciascuno dei prodotti-mercati e di valutare la natura e la portata del vantaggio competitivo dei concorrenti presenti in ognuno di essi. L’analisi di competitività si propone quindi di identificare il tipo di vantaggio competitivo su cui un’impresa o una marca possono contare e di valutarne la sostenibilità, tenuto conto della situazione competitiva, dei rapporti di forza esistenti e delle posizioni occupate dai concorrenti. Uno dei principali effetti della globalizzazione è l’interdipendenza tra i mercati: non è più possibile, infatti, considerare i mercati nazionali come entità a sé stanti, ma vanno piuttosto visti come parte di un mercato di riferimento regionale o mondiale. Quindi un’economia molto integrata nella rete globale diventa più vulnerabile a traumi esterni, quali la svalutazione, un improvviso aumento del prezzo del petrolio, una crisi finanziaria o la possibilità dello scoppio di una guerra. Per l’impresa transnazionale è sempre difficile mantenere un buon equilibrio tra due obiettivi apertamente conflittuali: da una parte la standardizzazione (supply-driven), dall’altra l’adattamento (market- driven). Il problema è capire fino a che punto spingersi con la standardizzazione, senza rischiare di perdere contatto con i mercati locali solo per ridurre i costi. Per vantaggio competitivo si intende l’insieme delle caratteristiche o attributi detenuti da un prodotto (o una marca) che gli conferiscono un certo grado di superiorità nei confronti dei concorrenti diretti. I fattori che conferiscono superiorità relativa ad un’azienda rispetto al “concorrente più pericoloso” possono essere suddivisi in 3 grandi categorie, in base al vantaggio competitivo che procurano: vantaggio competitivo di qualità, di costo o basato sulle competenze chiave. Il vantaggio competitivo di qualità (o esterno) Un vantaggio competitivo di qualità si basa su alcune qualità distintive del prodotto che forniscono un valore superiore al cliente, sia attraverso la riduzione dei costi di utilizzo del prodotto, sia attraverso l’incremento della sua performance, permettendo di stabilire un prezzo di vendita più alto rispetto a quello dei concorrenti. Un vantaggio competitivo esterno dà dunque all’impresa un maggiore potere di mercato, nel senso che la mette in condizione di far accettare al mercato un prezzo di vendita superiore a quello del principale concorrente, che potrebbe non detenere le stesse qualità distintive. Per il successo di una strategia fondata sul vantaggio competitivo di qualità, il supplemento di prezzo (premium price) che il cliente è disposto a pagare deve essere superiore al costo necessario a conferire il valore supplementare al prodotto. (strategia di differenziazione che chiama in causa soprattutto il know-how di mkt dell’impresa) Il vantaggio competitivo di costo (o interno) Un vantaggio competitivo di costo si basa sulla superiorità dell’impresa nel controllo dei costi di produzione, di amministrazione o di gestione del prodotto. Esso apporta un “valore al produttore”, garantendogli un costo unitario inferiore a quello del principale concorrente. Un vantaggio competitivo interno è il risultato di una maggiore produttività e di conseguenza dà all’impresa una maggiore redditività e capacità di resistere a una diminuzione del prezzo di vendita imposta dal mercato o dalla concorrenza (strategia di dominio attraverso i costi, che chiama in causa soprattutto il know-how organizzativo e tecnologico dell’impresa). Per il successo di una strategia fondata su un vantaggio di costo, l’impresa deve offrire al cliente un valore accettabile, in modo che il prezzo praticato si avvicini al prezzo medio della concorrenza. (analisi del vantaggio competitivo per potere di mercato o produttività, fig. 10.1 pag 216) Il vantaggio competitivo basato sulle competenze chiave Si definisce competenza chiave una capacità o una tecnologia particolare, che crea un valore unico per il cliente. Le capacità specifiche di un’impresa si concretizzano quasi per intero nell’insieme delle conoscenze delle persone che vi lavorano e nelle procedure organizzate d’interazione tra i dipendenti. Queste competenze chiave possono essere considerate il fondamento del vantaggio competitivo dell’impresa, perché se usate in modo corretto, possono rappresentare fonti sostenibili di vantaggio competitivo duraturo nel tempo, applicabili a loro volta in altri settori d’attività dell’impresa, anche se apparentemente non correlati. Una competenza chiave per essere sostenibile deve: generare un valore significativo per i clienti rispetto all’offerta dei concorrenti; essere difficile da imitare sul mercato, creando quindi una barriera competitiva all’entrata per i concorrenti; consentire all’impresa all’accesso a numerosi settori di attività apparentemente non collegati tra loro, grazie alla combinazione di abilità e tecnologie trasversali. Per identificare e sviluppare le competenze chiave, l’impresa deve isolare le abilità più importanti e affinarle all’interno di una definizione delle forze vitali dell’organizzazione. La ricerca del vantaggio competitivo sostenibile è centrale nel processo di elaborazione della strategia e rappresenta una delle responsabilità principali del mkt strategico. Ottenere un vantaggio competitivo operativo in un dato mercato comporta lo svolgimento delle stesse attività dei concorrenti, ma in modo più efficace, offrendo una qualità superiore oppure uguale ma ad un prezzo inferiore, operando più rapidamente dei concorrenti, collocandosi più vicino al cliente e fornendogli una maggiore assistenza. Ogni funzione aziendale avrà la responsabilità di sorpassare i concorrenti sul piano dell’efficienza operativa, che è un obiettivo necessario ma non sufficiente, da solo, per mantenere una redditività superiore. Ma tutto ciò è sempre più difficile a causa della rapida diffusione delle best practice, che vengono subito imitate dalla concorrenza. Per contro, ottenere un vantaggio competitivo strategico comporta un elemento di differenziazione che può essere di 2 tipi: (a) esercitare nel mercato di riferimento delle attività differenti da quelle dei concorrenti diretti; (b) esercitare attività simili, ma in modo diverso. Il posizionamento strategico risulta più sostenibile a lungo termine rispetto a quello operativo. Minacce per l’impresa [Le 5 forze competitive 4 esterne + 1 interna (concorrenza diretta)] 1) Nuovi entranti I potenziali concorrenti in grado di entrare in un mercato costituiscono una minaccia che l’impresa deve circoscrivere e contro la quale deve proteggersi, creando delle barriere all’entrata. La rilevanza della minaccia dipende dal livello delle barriere all’entrata e dall’intensità delle reazioni che il potenziale entrante può attendersi. Le possibili barriere all’entrata possono essere legate alle economie di scala, differenziazione del prodotto o immagine di marca, fabbisogno di capitale, costi di trasferimento del cliente, accesso ai canali distributivi e all’effetto di esperienza con conseguente vantaggio di costo. È l’insieme di queste condizioni – l’esistenza di barriere difendibili e la capacità di risposta dei concorrenti affermati nel settore (con un passato di aggressività nei confronti dei nuovi entranti, con un alto grado di coinvolgimento in quel prodotto-mercato, con una disponibilità di risorse finanziarie considerevoli per controbattere) – che dissuaderà il potenziale concorrente dall’ingresso nel mercato. 2) Prodotti sostitutivi I prodotti si definiscono sostitutivi quando svolgono una funzione simile per lo stesso gruppo di clienti, basandosi però su tecnologie diverse. (mercato che raggruppa l’insieme delle tecnologie per una funzione e uno specifico gruppo di clienti). Questi prodotti costituiscono una minaccia permanente, in quanto la sostituzione è sempre possibile e il loro prezzo impone un tetto al prezzo che le imprese possono praticare nel loro prodotto-mercato, soprattutto se sono soggetti a miglioramenti del rapporto qualità-prezzo rispetto al prodotto del settore di riferimento. Occorre, dunque, individuare sistematicamente i prodotti che rispondono allo stesso bisogno generico o che ricoprono la stessa funzione, che a volte può condurre a settori molto lontani da quelli di origine. Il tutto attraverso un sistema di monitoraggio permanente che tenga d’occhio le principali scoperte tecnologiche e permetta l’adozione di un comportamento proattivo e non solo reattivo. 3) Potere di contrattazione dei clienti I clienti detengono un potere di contrattazione nei confronti dei fornitori e quindi possono influenzare la redditività di un’impresa costringendola a concedere riduzioni di prezzo, servizi più estesi e condizioni di pagamento più favorevoli. La rilevanza di questo potere di contrattazione dipende da un certo numero di condizioni: - Il gruppo di clienti è concentrato o acquista quantità consistenti rispetto al volume d’affari dell’impresa; - I prodotti sono standardizzati o poco differenziati; - I costi di trasferimento per il cliente, cioè il costo del passaggio a un altro fornitore, sono contenuti; - Il cliente dispone di informazioni complete sulla domanda, sui prezzi attuali e sui costi del fornitore. Una situazione in cui il potere di contrattazione dei clienti è molto alto, si osserva spesso nel settore alimentare, dove la grande distribuzione è molto concentrata ed è in grado di dettare ai produttori le proprie condizioni. Un’impresa può migliorare la propria posizione competitiva attraverso una politica di selezione della propria clientela, con l’obiettivo di realizzare una buona ripartizione del portafoglio clienti, e di evitare qualsiasi forma di dipendenza nei confronti dei gruppi di clienti serviti. 4) Potere di contrattazione dei fornitori Il potere di contrattazione dei fornitori nei confronti dei propri clienti deriva dalla possibilità per i primi, di aumentare i prezzi delle forniture, di ridurre la qualità dei prodotti o di limitare le quantità vendute a un dato cliente. Fornitori influenti così possono ridurre la redditività di un settore se i clienti non sono in grado di recuperare gli aumenti imposti nei costi, sui prezzi di vendita. Le condizioni che assicurano ai fornitori un elevato potere di contrattazione sono analoghe a quelle che determinano il potere dei clienti. Le quattro forze competitive esterne, a cui bisogna aggiungere la quinta e cioè la concorrenza diretta tra imprese all’interno dello stesso prodotto-mercato, determinano la redditività e il potenziale potere di mercato dell’impresa. 5) Concorrenti Il management può essere indotto a prestare attenzione solo ai concorrenti con cui si verifichi una sovrapposizione di prodotti o tecnologie, perché sono i più evidenti. La definizione di mercato di riferimento in termini di soluzioni ricercate e l’utilizzo della macrosegmentazione dovrebbero essere utili per evitare un approccio miope nella definizione del contesto competitivo. Anche la matrice 10.5 a pag 223 può risultare utile (studiare dal libro la matrice) Il vantaggio competitivo basato sul potere di mercato L’intensità e le forme della lotta competitiva tra rivali diretti in un prodotto-mercato variano a seconda della natura della struttura competitiva osservata, che descrive il grado d’interdipendenza tra concorrenti e il grado di potere di mercato posseduto da ciascuno. Si distinguono solitamente 4 situazioni competitive: concorrenza pura o perfetta, oligopolio, concorrenza monopolistica (o imperfetta), monopolio. Concorrenza pura o perfetta Tale modello competitivo è caratterizzato dalla presenza sul mercato di un gran numero di venditori da un lato e di acquirenti dall’altro, nessuno dei quali è abbastanza forte da influire sul livello dei prezzi. I prodotti, dalle caratteristiche tecniche molto ben definite, sono perfettamente sostituibili tra loro e si vendono al prezzo di mercato, rigorosamente stabilito dall’incontro della domanda con l’offerta. In questa situazione i venditori non detengono alcun potere di mercato e i loro comportamenti non sono influenzati dalle rispettive azioni. La sola manovra possibile per l’impresa che cerchi di migliorare la propria performance competitiva consiste nel modulare l’offerta o variare la propria capacità produttiva, aumentandola o diminuendola a seconda del prezzo di mercato. Quindi a breve termine è importante tenere sotto controllo la concorrenza, per anticipare l’evoluzione dei prezzi di mercato, mentre a lungo termine, se si vuole uscire dall’anonimato della concorrenza pura, sono necessarie una fase di ricerca sistematica delle opportunità di differenziazione e una di segmentazione accurata del mercato, per scoprire segmenti di mercato che adottino criteri d’acquisto più selettivi. L’impresa quindi tenterà di differenziare i suoi prodotti per ridurre il loro grado di sostituibilità o tenterà di creare un costo di trasferimento per il clienti, per spingerlo a restare fedele. (rigido controllo della qualità, accompagnato da una politica di marca). Oligopolio L’oligopolio è una situazione in cui l’interdipendenza tra imprese rivali è molto forte, a causa del numero ridotto di concorrenti o della presenza di alcune imprese dominanti. Nei mercati concentrati come questo, le forze a confronto sono note a ciascuno e le azioni intraprese da un concorrente si ripercuotono profondamente sugli altri, che tendono pertanto a reagire. Il risultato di una manovra strategica, quindi, dipende in larga misura dall’atteggiamento più o meno reattivo dei concorrenti. La dipendenza tra concorrenti è tanto più forte quanto più sono indifferenziati i prodotti delle imprese a confronto: si parla in questo caso di oligopolio indifferenziato, per distinguerlo dall’oligopolio differenziato, in cui i beni presentano caratteristiche distintive rilevanti per il cliente. Le situazioni di oligopolio si incontrano soprattutto nei prodotti-mercati che attraversano la fase della maturità del loro CVP, cioè quando la domanda primaria è stagnante e non espandibile. In condizioni di oligopolio indifferenziato i prodotti sono percepiti come commodity e la scelta del cliente dipende in gran parte dal prezzo e dal servizio. È quindi una situazione che favorisce una intensa competizione sul prezzo, a meno che un’impresa dominante non sia in grado d’imporsi e di far accettare un prezzo di riferimento per l’insieme dei concorrenti (leadership di prezzo). Se invece si sviluppa una competizione sul prezzo, si va generalmente verso una diminuzione della redditività di tutte le imprese rivali, soprattutto se la domanda primaria non è espandibile. La concorrenza monopolistica o imperfetta La situazione di concorrenza monopolistica si colloca a metà strada tra la concorrenza pura e il monopolio. I concorrenti sono numerosi e le loro forze sono equilibrate, ma i prodotti sono differenziati, cioè presentano caratteristiche distintive importanti per il cliente (qualità, immagine della marca, dettagli tecnici, servizi offerti). La competizione monopolistica si fonda dunque su una strategia di differenziazione pensata per generare un vantaggio competitivo esterno (leggere “le condizioni di successo di una strategia di differenz. a pag 231) che ha l’effetto di conferire all’impresa un certo potere di mercato, in ragione delle preferenze e della fedeltà accordata dai clienti, nonché della minor sensibilità al prezzo che ne deriva. Il risultato è una sorta di mini- monopolio, in quanto il potere di contrattazione del cliente viene parzialmente neutralizzato, l’impresa è più protetta dagli attacchi della concorrenza e gode quindi di una relativa autonomia d’azione nei confronti dei rivali. Inoltre la differenziazione permette all’impresa di difendersi meglio dal potere di contrattazione dei fornitori e dai prodotti sostitutivi. Si tratta della tipica situazione che il mkt strategico tenta di creare. Una buona descrizione di strategia di differenziazione efficace è presentata dalla matrice “importanza-performance” 10.6 pag 233. ( studiare dal libro la matrice). Monopolio Esso rappresenta un caso limite, al pari della concorrenza pura. Il mercato è dominato da un solo produttore, che si trova di fronte un grande numero di clienti: il suo prodotto, per un periodo di tempo limitato, non ha concorrenti diretti nella sua categoria. È una situazione che si osserva nella fase introduttiva del CVP, nei settori emergenti, caratterizzati da forti innovazioni tecnologiche, che conferiscono all’impresa innovatrice un elevato potere di mercato, che può venire rapidamente minacciato dai nuovi entranti attratti dal potenziale di crescita e di profitto. Un dato essenziale è la durata prevedibile del monopolio, che dipenderà dalla forza dell’innovazione e dall’esistenza di barriere difendibili contro l’ingresso di nuovi concorrenti. I monopoli di Stato seguono una logica diversa da quella dell’impresa privata: non più la logica del profitto ma quella dell’interesse comune e del servizio pubblico. Nei servizi pubblici la difficoltà di attenersi a questi obiettivi deriva dall’assenza di incentivi all’adozione di un orientamento al mercato, con una gestione maggiormente accentrata su problemi interni di funzionamento o burocrazia. A conclusione, si può constatare che il potere di mercato e il potenziale di profitto possono variare enormemente a seconda della situazione di mercato. La realtà dei mercati si colloca naturalmente tra i due casi limite della concorrenza pura e del monopolio, e l’azione delle forze concorrenziali favorisce ora l’una ora l’altra situazione. Il vantaggio competitivo basato sui costi Il vantaggio competitivo di un’impresa può anche dipendere dalla presenza di differenziali di costo, rispetto ai concorrenti diretti, dovuti a una maggiore produttività e al controllo dei costi, attraverso economie di scala, effetto di esperienza, abbassamento del costo dei fattori produttivi, migliore tecnica di produzione, migliore design ed efficienza organizzativa. Nei settori in cui il valore aggiunto al prodotto rappresenta un ‘alta percentuale del costo totale, si constata una tendenza alla riduzione dei costi man mano che l’impresa accumula esperienza nella fabbricazione del prodotto. La scoperta dell’esistenza dell’ “effetto di esperienza” si deve a Wright (1936) e al team del BCG, che formulò a fine anni Sessanta la legge dell’esperienza che afferma che il costo unitario del valore aggiunto di un prodotto standard, misurato in unità monetarie costanti (al netto dell’inflazione), diminuisce di una percentuale fissa ogni volta che la produzione totale cumulata raddoppia. (fig. 10.7 pag 234). L’effetto di esperienza riguarda principalmente i costi legati al valore aggiunto, cioè quelli su cui l’impresa esercita un controllo: costi di trasformazione, di assemblaggio, di distribuzione e di servizio. Ricordiamo che il valore aggiunto è uguale alla differenza tra il prezzo di vendita e il costo degli input; il costo di realizzazione del valore aggiunto è dato, invece, dalla differenza tra il costo unitario e il costo degli input. I fattori che contribuiscono a ridurre i costi lungo la curva di esperienza sono soprattutto legati ai miglioramenti apportati al processo di produzione grazie all’apprendimento realizzato con l’accumulo della produzione. Tuttavia l’esperienza in sé non produce una riduzione dei costi; tutt’al più fornisce occasioni affinché ciò si verifichi; spetta poi alla direzione aziendale cogliere tali opportunità. (formula matematica della legge di esperienza Approfondimento 10.4 pag 236). Nell’ottica di una strategia basata sulla legge di esperienza, accrescere la propria quota di mercato e adottare una politica di prezzo di penetrazione sono fattori chiave per ottenere un vantaggio competitivo basato sul dominio dei costi. La politica di prezzo di penetrazione (fig. 10.8): l’impresa anticipa l’evoluzione del suo costo unitario in termini di produzione cumulata e si pone il raggiungimento di un obiettivo che comporta una crescita delle vendite più rapida di quella del mercato di riferimento e la conseguente crescita della propria quota di mercato relativa. È in rapporto a tale volume previsto che sarà stabilito il prezzo di vendita da praticare nel lancio dell’attività. Una volta raggiunto il livello di esperienza, le ulteriori riduzioni dei costi si ripercuoteranno sul prezzo di vendita per mantenere il vantaggio rispetto ai concorrenti principali. Prima di adottare una strategia basata sull’esperienza è importante procedere a un calcolo del tempo e degli investimenti necessari per raggiungere l’obiettivo prefissato. La legge di esperienza non ha un’applicazione universale: regge soprattutto nelle attività in cui un volume maggiore conferisce un vantaggio economico e in cui il processo di apprendimento è importante. Dall’altro lato, un’impresa dominata, nel suo mercato di riferimento, da un concorrente che dispone di un vantaggio di costo irraggiungibile, può adottare 2 strategie: una strategia di differenziazione che offra al cliente attributi distintivi, per cui sia disposto a pagare un prezzo superiore; oppure una strategia basata sullo sviluppo tecnologico, che la collocherà su una curva di esperienza più favorevole, neutralizzando di conseguenza il vantaggio di costo detenuto dal leader. Il vantaggio competitivo internazionale Tradizionalmente la teoria del commercio internazionale considera le risorse naturali, la manodopera e il valore della moneta, come le fonti principali del vantaggio competitivo internazionale di un Paese. Nell’analizzare la composizione della domanda interna, Porter identificò 3 situazioni che favoriscono la conquista di tali vantaggi competitivi nazionali: 1) alta percentuale di domanda locale. Le imprese di un paese hanno buone possibilità di conquistare un vantaggio competitivo in segmenti globali, che rappresentano una parte importante della domanda interna, ma pesano per quote meno rilevanti negli altri Paesi. 2) acquirenti sofisticati ed esigenti. La conquista di un vantaggio competitivo da parte delle imprese nazionali in un dato segmento dipende dal grado di sofisticazione e dalle esigenze dei clienti locali. 3) anticipazione dei bisogni degli acquirenti. Il fatto che determinati bisogni vengano espressi prima dalla clientela nazionale e poi da quella straniera rappresenta un vantaggio per le imprese locali, poiché la domanda locale anticipa bisogni destinati a generalizzarsi. Quindi concludiamo dicendo che la composizione qualitativa della domanda interna sta alla base del vantaggio competitivo delle nazioni. Cap.11 Il mercato target e le strategie di posizionamento Completata la segmentazione del mercato e l’analisi di “attrattività-competitività” dei diversi prodotti-mercati e segmenti, la decisione successiva consiste nello scegliere il tipo di copertura del mercato a cui mirare e le strategie di posizionamento da adottare all’interno di ciascun segmento target. Si tratta di una delle fasi più importanti nel processo di mkt strategico, che permette all’impresa di individuare il modo migliore per differenziare la propria marca rispetto a quelle dei concorrenti. Strategie di copertura L’impresa ha a disposizione diverse strategie di copertura del mercato (fig. 11.1 pag244), in cui i due estremi sono la strategia di “marketing di massa” e quella di “customizzazione di massa”; tra queste due esistono moltissime opzioni intermedie. Strategia di focalizzazione I confini del mercato vengono definiti nei termini generali di funzioni, tecnologie e gruppi di clienti. La strategia di focalizzazione è quella dello specialista alla conquista di una grossa quota di mercato all’interno di una nicchia ristretta, che concentra le sue risorse sui bisogni di un numero ridotto di segmenti, se non uno soltanto, adottando dunque una strategia di specializzazione. Quest’ultima può riguardare una funzione (specialisti di funzione) o un determinato gruppo di clienti (specialista di clienti). Nel primo caso, l’impresa svolge un numero ridotto di funzioni, se non una soltanto, ma si rivolge ad una vasta gamma di clienti. Nel secondo caso, invece, si ha una situazione in cui i confini del mercato sono definiti in modo ampio per quanto riguarda la funzione, e ristretto in merito al gruppo di clienti, verso i cui bisogni è orientata l’attenzione. L’applicabilità di questo tipo di strategie dipende dalle dimensioni del segmento e dalla forza del vantaggio competitivo conquistato dall’azienda. Copertura totale del mercato In questa strategia i confini del mercato sono definiti in modo ampio sia dal punto di vista della funzione sia da quello dei gruppi di clienti: l’impresa si rivolge all’intero mercato. L’azienda che adotta tale strategia può poi scegliere tra una strategia di mkt differenziato e indifferenziato. Se adotta una strategia di mkt indifferenziato, o mkt di massa, l’impresa ignora le diversità presenti all’interno del segmento e decide di rivolgersi all’intero mercato come un tutt’uno, concentrandosi sui punti in comune nei bisogni dei clienti, tralasciandone le differenze, senza servirsi, quindi, della segmentazione. La scelta di questa strategia può essere motivata dal risparmio conseguito non solo a livello di produzione, ma anche in fase di stoccaggio, distribuzione e promozione. Nelle società del benessere è un metodo difficile da applicare, perché raramente un prodotto/marca vanno bene a tutti. Se invece adotta una strategia di mkt differenziato, o customizzazione di massa, l’impresa si rivolge sempre all’intero mercato, ma con programmi di mkt su misura per ciascun segmento. Tale strategia permette all’impresa di operare in diversi segmenti adottando prezzi, sistemi di distribuzione e di comunicazione ad hoc. I prezzi di vendita vengono stabiliti in base alla sensibilità al prezzo di ciascun segmento. Strategia mista L’impresa diversifica le sue attività in termini di funzioni e/o gruppi di clienti. Garantire che il portafoglio dell’impresa sia equilibrato (in termini di profitto e potenziale di crescita) e ben diversificato (in termini di rischio) rientra tra gli obiettivi dell’analisi del portafoglio. La scelta di una di queste strategie di copertura dipenderà dal numero di segmenti identificabili e potenzialmente redditizi nel mercato di riferimento e dalle risorse dell’impresa. Applicando una strategia di segmentazione si può arrivare a considerare 2 politiche estreme: 1. L’ipersegmentazione che dà vita a prodotti su commissione realizzati per soddisfare i bisogni individuali; in questo caso l’impresa offre, oltre alla funzione di base, una vasta gamma di funzioni secondarie a costi elevati. 2. La controsegmentazione, in cui l’impresa offre un prodotto base, senza fronzoli né extra, con poche opzioni, ma a un prezzo molto più ridotto. È questo il dilemma tra standardizzazione e adattamento che affrontano le aziende, quando progettano una strategia globale o transnazionale. Nell’ elaborare una strategia di segmentazione spesso entrano in conflitto due logiche opposte: quella market-driven e quella supply-driven. La logica guidata dal mercato richiede il massimo grado di adattamento alle diversità dei bisogni e porta a personalizzare prodotti in base alle preferenze individuali del cliente. La logica basata sulla produzione (supply-driven) cerca piuttosto di incrementare la produttività attraverso la massima standardizzazione del prodotti. Naturalmente aumentare il numero di formati, design, dimensioni e colori dello stesso prodotto per far fronte a tutte le diversità può essere controproducente e mettere a repentaglio la produttività, riducendo i guadagni potenziali ottenibili attraverso economie di scala. Selezione dei segmenti prioritari (fig.11.4 pag 247) Decisioni di posizionamento strategico Dopo aver deciso il tipo di copertura del mercato, il passo successivo sarà la scelta della strategia di posizionamento da adottare all’interno di ciascuno dei segmenti target. Si tratta di un momento critico nel processo di implementazione del mkt strategico, perché l’impresa deve decidere come differenziare al meglio la sua marca rispetto a quelle dei concorrenti. Il posizionamento è la decisione dell’impresa relativa al(i) beneficio(i) che la marca deve possedere, per conquistare una posizione distintiva nel mercato. Il posizionamento si può descrivere rispondendo a 4 domande chiave: - Una marca per che cosa? (Promesse della marca e benefici che ne derivano per il cliente); - Una marca per chi? (Quali segmenti target); - Una marca per quando? (Si riferisce alla situazione d’uso o di consumo); - Una marca contro chi? (Diretti concorrenti). La strategia di posizionamento è la modalità operativa adottata per introdurre una strategia di differenziazione basata (a) sull’analisi interna dei punti di forza e debolezza aziendali, (b) sul contesto competitivo e (c) sul tipo di beneficio distintivo e unico che la marca può fornire al cliente. L’obiettivo dell’impresa sarà quindi di comunicare nettamente questo elemento di differenziazione ai potenziali clienti, in modo che sia chiaramente delineato nella loro mente. La percezione che il consumatore ha nella propria mente della marca è detta “Immagine di marca”. Il posizionamento costituisce la base del programma di mkt operativo, che deve essere coerente al posizionamento di marca. La differenziazione rivendicata deve essere “unica”, “importante” per il consumatore, “sostenibile”, “comunicabile” e “accessibile”. Essenzialmente si possono distinguere tre tipologie di differenziazione: 1. Differenziazione del prodotto. Posizionare la marca, facendo leva sui benefici del prodotto, ossia sulle caratteristiche come performance, affidabilità, design, novità, ecc., per differenziare la marca. 2. Differenziazione del prezzo. Alcune imprese utilizzano il prezzo per distinguersi dai concorrenti. Esistono diverse strategie basate sul prezzo: applicare il prezzo più alto della categoria (Gucci, Cartier), il più alto valore del denaro (Ikea, Nivea), il prezzo più basso nella categoria (Ryanair, Aldi). 3. Differenziazione dell’immagine. In molti settori le marche non sono differenziabili sulla base di caratteristiche tangibili e quindi, a fare la differenza, può intervenire l’immagine. Come indicato da Kotler e Keller (2006), nel posizionamento bisogna evitare 4 errori fondamentali: 1. Sottoposizionamento. I clienti potenziali hanno un’idea vaga di quale sia il fattore distintivo della marca, quindi non ci vedono nulla di speciale. 2. Sovraposizionamento. I clienti hanno un’immagine troppo ristretta della marca, perché la percepiscono come troppo specializzata. 3. Posizionamento confuso. I clienti sono confusi perché l’impresa avanza troppe rivendicazioni sul suo prodotto, oppure cambia troppo spesso posizionamento. 4. Posizionamento ambiguo. I potenziali clienti non riescono a credere ai vantaggi promessi dalla marca, alla luce dei suoi trascorsi, o di quelli del prezzo o del produttore. Il comportamento di risposta del cliente al posizionamento d’impresa Per “risposta” si intende ogni attività psico-fisica provocata nel cliente da uno stimolo utilizzato dal produttore. I diversi livelli di risposta del cliente potenziale possono essere raggruppati in 3 categorie: risposta cognitiva, che chiama in causa le informazioni possedute e la conoscenza; la risposta affettiva, che analizza l’atteggiamento e il sistema di valutazione; la risposta comportamentale, che descrive l’azione, vale a dire comportamento prima, durante e dopo l’atto d’acquisto. Questi tre livelli di risposta sono posti in una scala gerarchica, che l’individuo attraversa in sequenza, secondo quest’ordine: 1 cognitivo (learn); 2 affettivo (feel); 3 comportamentale (do). Si parla dunque di processo di apprendimento, osservabile principalmente quando il cliente potenziale è fortemente coinvolto nella sua decisione d’acquisto, per esempio nel caso di forte sensibilità alla marca o nel caso di elevato rischio percepito. Il modello “learn-feel-do” rimane valido per la strutturazione delle informazioni raccolte sui comportamenti di risposta, in particolar modo se usato insieme ai concetti di “rischio percepito” e di “coinvolgimento dell’acquirente”. Il modello di coinvolgimento di Foote, Cone e Belding (FCB) La teoria della specializzazione del cervello postula che una separazione anatomica tra le zone del cervello corrisponde a una specifica percezione della realtà: l’emisfero sinistro presiede agli aspetti intellettuali, l’emisfero destro a quelli affettivi o sensoriali. La parte sinistra , ovvero l’apprendimento di tipo intellettuale, si basa essenzialmente sulle informazioni logiche e fattuali, sul linguaggio e l’analisi, cioè sulla funzione cognitiva. Al contrario la parte destra, ovvero l’apprendimento di tipo emotivo, si occupa della sintesi, è più intuitiva e reattiva agli stimoli non verbali; si tratta cioè della funzione affettiva. Vaughn (1986) per ottenere uno schema concettuale che integrasse il modello gerarchico “learn-feel-do”, il grado di coinvolgimento del consumatore e la teoria della specializzazione del cervello, ha elaborato una griglia in cui il processo della decisione d’acquisto viene analizzato in base a due dimensioni: un coinvolgimento alto-basso e una percezione basata su pensare-sentire (apprendimento emotivo-intellettuale). L’incrocio tra modalità di apprendimento e di coinvolgimento porta alla matrice “apprendimento- coinvolgimento” in fig 11.5 pag 252), nella quale possiamo identificare 4 percorsi diversi del processo di risposta. (studiare matrice dal libro). Mappa percettiva basata sugli attributi (fig. 11.6 pag 253) Nel giudicare la rilevanza degli attributi occorre prestare attenzione al problema della ridondanza: due attributi sono ridondanti quando il loro grado di significatività è identico e quindi equivalgono a selezionare un unico attributo. L’analista dovrebbe definire una lista degli attributi rilevanti ma non ridondanti. Le ricerche sull’immagine di marca misurano le percezioni dei consumatori e aiutano a scoprire quali siano le aspettative del mercato, come si può vedere nella mappa percettiva. Nel determinare quale strategia adottare per modificare un posizionamento sfavorevole, è importante capire il modo in cui i consumatori percepiscono i prodotti concorrenti all’interno di un segmento. Esistono 6 strategie diverse: - Modificare il prodotto. Se la marca non corrisponde alle aspettative del mercato, si può modificare il prodotto rinforzando la caratteristica che risulta carente. - Modificare il peso degli attributi. Si tratta di convincere il mercato che la caratteristica che l’impresa possiede è molto importante. - Modificare le convinzioni relative alla marca. Il mercato può essere mal informato e sottostimare alcuni attributi realmente distintivi della marca (riposizionamento percettivo). - Modificare le convinzioni relative alle marche concorrenti. Se il mercato sovrastima alcune caratteristiche dei concorrenti, c’è la possibilità di utilizzare pubblicità comparative. - Attrarre l’attenzione verso attributi finora ignorati. Implica la creazione di un nuovo vantaggio, non ancora considerato dal mercato target. - Modificare il livello di attributi richiesti. E’ possibile che il mercato si aspetti un determinato livello qualitativo per un tipo di applicazione del prodotto. L’impresa può tentare, quindi, di convincere il segmento che la qualità offerta è adeguata a quello scopo. Nell’individuazione di un elemento di differenziazione unico è necessario evitare, da una parte, di individuare un elemento di unicità apprezzato dai clienti, ma che non si è in grado di offrire, dall’altra, di identificare un elemento di unicità che l’impresa è in grado di offrire, ma che non è apprezzato dai clienti. A questo scopo il modello della catena del valore di Porter (1980), risulta particolarmente utile (Fig. 11.7 pag 255). Secondo tale modello qualunque impresa può essere descritta mediante un insieme di attività volte a ideare, produrre, commercializzare, distribuire e sostenere i propri prodotti. Queste attività possono essere raggruppate in due grandi categorie: attività primarie e attività di supporto. Le possibili fonti di differenziazione per le attività primarie (o di base) sono: 1. Acquisti: qualità e affidabilità di componenti e materiali; 2. Produzione: tempi brevi di fabbricazione, scarti minimi, possibilità di personalizzazione; 3. Immagazzinaggio e distribuzione: consegna rapida e nei tempi richiesti, sistema efficace di gestione degli ordini, scorte sufficienti a soddisfare una domanda eccezionale; 4. Marketing e vendite: forte intensità e creatività pubblicitaria, elevata copertura della forza vendita; 5. Assistenza ai clienti: assistenza all’installazione, riparazioni rapide ed affidabili. Analogamente, le fonti di differenziazione per le attività di supporto sono 1. Risorse umane: formazione avanzata del personale, impegno nel servizio ai clienti; 2. Ricerca e sviluppo: caratteristiche uniche del prodotto, rapidità di sviluppo di nuovi prodotti; 3. Infrastruttura: reputazione dell’impresa, sensibilità ai bisogni dei clienti. L’obiettivo consiste nell’ individuare i fattori di unicità di ogni attività, ovvero le variabili e/o le azioni attraverso le quali l’impresa può acquisire un elemento di unicità che la differenzi dai concorrenti e la valorizzi agli occhi del cliente. La misurazione del potere di mercato Il potere di mercato è misurato dalla capacità dell’impresa di imporre un prezzo superiore a quello praticato dalla concorrenza. Una misura di questa capacità è data dall’elasticità al prezzo della domanda dell’impresa per il prodotto differenziato. Minore è l’elasticità della domanda, più bassa sarà la volatilità o sensibilità della quota di mercato di fronte a un aumento di prezzo del prodotto. L’impresa, o la marca, che detiene un potere di mercato presenta quindi una domanda meno elastica rispetto a quella di un prodotto meno differenziato, ed è pertanto in grado di far accettare un prezzo superiore al gruppo di clienti sensibili all’elemento di differenziazione. È possibile, inoltre, individuare 5 indicatori forza della marca: 1. Più limitata sensibilità al prezzo. Una marca forte resiste meglio a un aumento di prezzo rispetto ai concorrenti. 2. Accettazione di premium price. Una marca è forte se i clienti sono disposti a pagarla di più rispetto alle marche concorrenti. 3. Tasso di esclusività. Il consumatore più fedele è quello per cui la marca detiene una maggiore percentuale di requisiti all’interno della categoria. 4. Tasso di fedeltà dinamico. Anziché guardare alla percentuale di requisiti di categoria, si può prendere in esame lo schema d’acquisto nel tempo, per stimare la possibilità che un consumatore riacquisti la stessa marca nell’occasione successiva d’acquisto. 5. Misure attitudinali positive. Indicatori dell’atteggiamento quali il grado di familiarità con la marca, il grado di stima, la qualità percepita, le intenzioni d’acquisto, ecc., sono buoni indicatori della forza della marca. Segmenti target internazionali La segmentazione globale dei mercati può essere definita come il processo d’identificazione di segmenti di clienti potenziali (formati da gruppi nazionali o da singoli acquirenti) che abbiano attributi e comportamenti d’acquisto simili. Nella segmentazione globale si possono adottare 3 approcci distinti: (a) identificazione di gruppi di Paesi che richiedono prodotti simili; (b) identificazione di segmenti presenti in più Paesi; (c) scelta di segmenti target diversi in ciascun Paese, pur con lo stesso prodotto. (a) Gruppi di Paesi target Il mercato globale viene in genere segmentato in base a variabili geografiche, ossia raggruppando Paesi simili per condizioni climatiche, lingua, religione, sviluppo economico, canali di distribuzione, ecc. Molti prodotti non necessitano di essere adattati in ogni Paese (eccezion fatta per i problemi di etichettatura dei prodotti e di traduzione dei cataloghi). (b) Vendere in segmenti universali che attraversano i confini tra i Paesi Molti prodotti sono sempre più accettati su scala mondiale perché soddisfano bisogni e desideri che travalicano i confini nazionali. Quindi anche se in generale i bisogni sono diversi, può esistere un segmento del mercato che presenta bisogni identici in ogni Paese. La sfida delle imprese internazionali consiste innanzi tutto nell’identificare questi segmenti universali e, successivamente, nel raggiungerli con programmi di mkt che soddisfino i bisogni comuni di tali clienti potenziali. Questi segmenti universali riuniscono, per esempio, i clienti con redditi elevati, gli sportivi professionisti. In generale, ne fanno parte gli utilizzatori più esigenti, poiché più esposti ai contatti e alle esperienze internazionali. Le dimensioni di un segmento di questo tipo possono essere molto limitate in alcuni Paesi, ma è la loro somma a renderli attraenti. (c) Rivolgersi a segmenti differenti in ogni Paese Anche se i bisogni sono differenti in ogni Paese, si può vendere lo stesso prodotto in ciascun Paese ma in segmenti diversi, adottando un posizionamento specifico sulla base di variabili come il network distributivo, la pubblicità o il prezzo. Questo approccio richiede una serie di notevoli adattamenti delle strategie di comunicazione e di vendita, aumentandone i costi o comunque impedendo di beneficiare di una loro diminuzione grazie alla standardizzazione. Dei tre approcci al problema della segmentazione internazionale, quello della segmentazione universale (b) è il più radicale e dà all’impresa un vantaggio competitivo significativo, perché il prodotto e la comunicazione possono essere standardizzati e trasferiti in Paesi diversi. L’azienda ne guadagna in reputazione e coerenza d’immagine e il posizionamento risulta rinforzato a livello internazionale. Compromesso tra standardizzazione e adattamento Un certo grado di adattamento dei prodotti e/o della strategia di comunicazione sarà quindi necessario nella maggior parte delle situazioni di mercato. L’idea di base della segmentazione transnazionale può essere cosi sintetizzata: puntare alle somiglianze transnazionali adattandosi alle differenze locali. Questa prospettiva dovrebbe aiutare il management a determinare le somiglianze che superano i confini nazionali, ricercando allo stesso tempo le differenze presenti all’interno di ogni singolo Paese. Si possono adottare tre tipi di politica di prodotto: 1. Il prodotto venduto è fisicamente identico in ogni Paese, a parte l’etichetta e la lingua utilizzata nei manuali (prodotto universale); 2. Il prodotto di base è lo stesso, ma viene apportata qualche modifica riguardante il voltaggio, il colore, la dimensione o gli accessori per rispondere a differenze locali in fatto di leggi, gusti, abitudini d’acquisto e consumo (prodotto modificato); 3. Il prodotto è appositamente studiato per soddisfare i bisogni di un dato Paese (prodotto adattato a un Paese). Possiamo concludere dicendo che non tutti i prodotti hanno necessariamente una vocazione universale e alcuni si prestano meglio di altri a una strategia di sviluppo internazionale. Nella realtà tale vocazione globale di un prodotto, o di una marca, è strettamente legata al carattere universale del vantaggio ricercato. Nella misura in cui un prodotto soddisfi efficacemente i bisogni di un determinato gruppo di acquirenti in un Paese, è logico aspettarsi che esso riscuota il medesimo o quasi successo presso lo stesso gruppo di clienti in altri Paesi, avendo opportunamente adattato il prodotto alle condizioni, alle caratteristiche e alle normative locali. Più il prodotto si avvicini ai poli hi-tech/hi-touch, più diventa universale, perché queste due categorie di beni hanno in comune il fatto di essere prodotti a forte coinvolgimento e ricorrere a un linguaggio universale. In particolare, i prodotti hi-tech si rivolgono a un pubblico di acquirenti specializzati che condividono simboli e linguaggio tecnico. La semplice esistenza, quindi, di un gergo comune facilita la comunicazione e aumenta le probabilità di successo di una marca su scala globale. Al contrario, i prodotti hi-touch ricorrono più all’immagine che alle caratteristiche tecniche, ma si basano su temi o bisogni universali, come l’amore, la ricchezza, l’eroismo, il gioco, ecc. Sono utilizzati per vendere prodotti come profumi, gioielli, orologi, capi d’abbigliamento. Per queste due categorie di prodotti, in tutto il mondo, i clienti utilizzano e comprendono lo stesso linguaggio e ricorrono agli stessi simboli e quindi il potenziale di globalizzazione è più facilmente realizzabile per prodotti che si avvicinano a uno di questi 2 estremi. Cap.12 La formulazione di una strategia di marketing Esaminiamo come un’impresa orientata al mercato possa selezionare un’adeguata strategia competitiva per ottenere una performance di profitto superiore alla media nelle diverse unità di business presenti nel suo portafoglio. Due sono gli insiemi di fattori che determinano la performance di un’unità di business: l’attrattività complessiva del mercato di riferimento in cui opera e la forza della sua posizione competitiva rispetto ai concorrenti diretti. L’attrattività del mercato di riferimento dipende in larga misura da forze che l’azienda non può controllare, mentre la competitività dell’unità di business può essere condizionata dalle scelte strategiche dell’impresa. L’analisi del portafoglio prodotti mette in relazione gli indicatori di attrattività e competitività per aiutare la riflessione strategica, suggerendo così specifiche strategie di mkt che permettono di ottenere un mix di prodotti equilibrato, in grado di garantire performance redditizie e crescita a lungo termine. L’analisi del portafoglio prodotti L’obiettivo di un’analisi del portafoglio prodotti è quello di aiutare un’impresa multibusiness a decidere come allocare risorse limitate fra i diversi prodotti-mercati nei quali compete. In generale, la procedura adottata consiste nel classificare ciascuna attività in base a 2 dimensioni indipendenti: l’attrattività del mercato di riferimento e la competitività (capacità dell’impresa di cogliere le opportunità offerte dal mercato). I due metodi matriciali più utilizzati per misurare i parametri di attrattività e competitività sono: il metodo del BCG (Boston Consulting Group) detto della matrice “crescita-quota di mercato relativa” (fig. 12.1 pag 265); e il metodo di analisi multifattoriale della General Electric e McKinsey, detto della matrice(griglia) “multicriteri/ attrattività-competitività” ( tabella 12.1 pag 271, figura 12.5 pag 272). (vedere dal libro e approfondire attentamente) L’analisi SWOT ( Strenghts, Weaknesses, Opportunities, Threats) E’ una struttura molto usata per organizzare le informazioni raccolte dal sistema informativo aziendale e dall’ambiente macromarketing su punti di forza, punti deboli (dell’impresa), opportunità e minacce (ambientali). Elaborata da Andrews, la tecnica consiste in un’analisi basata su più criteri, simile ai due metodi precedenti, ma con due differenze: è di tipo puramente qualitativo e non tenta di giungere a misure oggettive o dati sensibili; definisce in modo diverso i concetti di attrattività (data da fattori esterni) e competitività (data da fattori interni) dell’azienda. Eseguire quest’analisi significa , infatti, valutare strutturalmente ciò che l’impresa può fare (punti di forza) e ciò che non riesce a fare (punti deboli) in un dato istante, mettendo in relazione questi fattori con le condizioni ambientali che favoriscono (opportunità) o sfavoriscono (minacce) l’azienda stessa. Se eseguita correttamente, l’analisi SWOT aiuta l’azienda a evidenziare i suoi punti di forza e minimizzare quelli di debolezza, per perseguire le opportunità che si offrono ed evitare le minacce. I fattori che si possono prendere in esame nell’analisi SWOT sono numerosi e dipendono dal tipo di azienda e di settore in esame (il Suggerimento applicativo 12.1 pag 274) L’analisi di portafoglio rappresenta il risultato e la concretizzazione delle nozioni di marketing strategico. Poggia sui seguenti principi: la suddivisione precisa delle attività dell’impresa in prodotti-mercati o segmenti; gli indicatori di competitività e attrattività che permettono di valutare e di confrontare il valore strategico delle diverse attività; il legame tra posizione strategica e performance economica e finanziaria, principalmente nel modello BCG. Le rappresentazioni matriciali consentono di sintetizzare i risultati di questo processo di riflessione strategica e di visualizzarli in modo chiaro ed efficiente. La loro elaborazione non è facile, ma presuppone l’esistenza di informazioni complete ed attendibili sul funzionamento dei mercati e sui punti di forza e debolezza dell’impresa e dei suoi concorrenti. Questo tipo di analisi stimola l’impresa a ragionare in termini di attrattività e competitività, inducendola a stabilire delle priorità in materia di distribuzione delle risorse umane e finanziarie. Infine, contribuisce a creare un linguaggio comune nell’organizzazione e a fissare obiettivi visibili, che rafforzino la motivazione e facilitino il controllo. Il principale punto debole dei metodi di analisi di portafoglio è il fatto di fornire un’immagine del presente o di un passato recente, dedicando troppo poco tempo alla valutazione dei cambiamenti futuri e delle strategie per affrontarli. Gli strumenti descritti, dunque, devono essere considerati non come prescrittivi per le imprese, bensì come una guida alla riflessione strategica. Le opzioni strategiche di base Il primo passo da compiere nell’elaborare una strategia di sviluppo consiste nel determinare la natura del vantaggio competitivo sostenibile, che servirà da punto d’appoggio alle successive attività strategiche e tattiche. Il vantaggio competitivo può essere definito in rapporto a 2 dimensioni: produttività (vantaggio di costo) e potere di mercato (vantaggio in termini di massimo prezzo di vendita accettabile). L’interrogativo è il seguente: quale dimensione del vantaggio privilegiare, considerando le caratteristiche dell’impresa e del prodotto-mercato? La questione può essere analizzata da due prospettive: quella dei mercati esistenti e quella dei mercati futuri. Competere nei mercati esistenti (Porter) La prima visione consiste nella scelta di un mercato o prodotto-mercato, nel quale l’impresa intende essere presente e nel quale potrà differenziarsi dai concorrenti diretti, esercitando attività diverse o esercitando le stesse attività in modo diverso. Si tratta quindi di ricercare un “vantaggio competitivo sostenibile” in un dato prodotto-mercato, analizzandone la struttura competitiva, chiedendosi in particolare quali siano i punti di forza e debolezza propri e dei diretti concorrenti rispetto ai fattori chiave di successo in quel prodotto-mercato o segmento considerato. Competere nei mercati futuri (Hamel e Prahalad) La seconda visione della strategia ha un carattere più proattivo. In questo caso l’obiettivo è “sviluppare le migliori previsioni possibili sul futuro, necessarie a forgiare in modo proattivo l’evoluzione del settore”. La lungimiranza nel settore aiuta i manager a dare risposta a tre domande critiche: che tipo di beneficio nuovo bisognerà cercare di offrire al consumatore tra 5,10 o 15 anni? Per farlo, quali nuove competenze bisognerà sviluppare o acquisire? Come sarà necessario ridisegnare il rapporto con il cliente nei prossimi anni? Secondo la “strategia del valore” di Kim e Mauborgne, è fondamentale che l’impresa trovi delle soluzioni a problemi che i consumatori non sanno nemmeno di avere, perché scoprire soluzioni innovative significa andare oltre quelle già in uso, ridisegnando i confini segnati per creare mercati e settori nuovi. Strategie di base nei mercati esistenti Le strategie di base varieranno a seconda del tipo di vantaggio competitivo ricercato, cioè in base al fatto che dipendano dalla produttività (di costo) o da un elemento di differenziazione (premium price). Porter ipotizza che esistano 4 strategie competitive di base per superare la concorrenza delle altre aziende in un dato settore: la differenziazione, il dominio di costo, la focalizzazione con differenziazione e la focalizzazione sui costi. -Strategie di dominio attraverso i costi Questa strategia si fonda sulla dimensione della produttività ed è generalmente legata alla presenza di un effetto di esperienza. Essa comporta un’attenzione costante ai costi di funzionamento, agli investimenti in produttività che permettano di valorizzare gli effetti di esperienza, ai costi legati al design del prodotto e alla riduzione dei costi di servizio, vendita, pubblicità,ecc. In questa strategia si pone l’accento soprattutto sulla definizione di costi inferiori a quelli della concorrenza, in quanto l’esistenza di un vantaggio di costo rappresenta una difesa efficace contro le 5 forze concorrenziali, perché sono i concorrenti meno efficienti a subire per primi gli effetti della concorrenza. -La differenziazione In questo caso l’obiettivo è di conferire al prodotto caratteristiche distintive importanti per il cliente, creando un’offerta percepita come unica. L’impresa tenderà quindi a creare una situazione di concorrenza monopolistica, nella quale essa detiene un potere di mercato, grazie all’elemento distintivo. La differenziazione può assumere diverse forme: design, immagine di marca, tecnologia, servizio al cliente, network distributivo e cosi via. La differenziazione, come il dominio di costo, difende l’impresa dalle 5 forze concorrenziali, ma in modo diverso. Rispetto ai concorrenti diretti, la differenziaz isola l’azienda dalla rivalità competitiva, perché accresce la fedeltà alla marca (brand loyalty), diminuisce la sensibilità al prezzo e migliora di conseguenza la redditività, rendendo non indispensabile ridurre i costi. Il successo della differenziazione permette quindi di realizzare profitti superiori a quelli dei concorrenti, grazie al prezzo più elevato che il mercato è disposto ad accettare e malgrado i costi, generalmente più alti. Tali strategie comportano solitamente investimenti consistenti nel mkt operativo, soprattutto in spese pubblicitarie, il cui obiettivo è quello di far conoscere al mercato le qualità distintive dell’impresa. -La focalizzazione (specializzazione) Una terza strategia di base è di focalizzazione sui bisogni di un segmento, di un gruppo di clienti o di un mercato geograficamente delimitato, senza pretendere di rivolgersi a tutto il mercato. L’obiettivo è quindi di scegliere un target ristretto e di soddisfarne i bisogni specifici meglio dei concorrenti che si rivolgono alla totalità del mercato. Questa strategia può comportare sia la differenziazione (focalizzazione con differenziazione) sia il dominio attraverso i costi (focalizzazione sui costi) o entrambi, ma limitatamente al segmento d’interesse. Una strategia del genere permette di conquistare, nel segmento target, quote di mercato elevate, che sono però relativamente basse rispetto al mercato globale. In generale possiamo concludere affermando che una strategia di dominio di costo presuppone investimenti sostenuti, un’elevata competenza tecnologica, un rigido controllo dei costi di fabbricazione e distribuzione e prodotti standardizzati che semplifichino la produzione. Una strategia di differenziazione richiede invece solide competenze di mkt e competenze tecnologiche avanzate. La capacità di analizzare e prevedere l’evoluzione delle esigenze del mercato diventa fondamentale, cosi come il coordinamento interfunzionale delle attività di R&S, produzione e marketing. Infine, una strategia di focalizzazione presuppone tutte le caratteristiche precedenti, però applicate a uno specifico segmento target. (fig.12.7 pag 278) Le strategie di crescita Gli obiettivi di crescita sono presenti nella maggior parte delle strategie aziendali, che si tratti dell’aumento delle vendite, della quota di mercato, del profitto o delle dimensioni dell’organizzazione. La crescita stimola le iniziative, accresce la motivazione del personale e del management ed è necessaria per sopravvivere agli assalti della concorrenza, grazie alle economie di scale e agli effetti di esperienza che genera. Un’impresa può definire un obiettivo di crescita a tre livelli diversi: nell’ambito del mercato di riferimento in cui opera (crescita intensiva); nell’ambito della filiera industriale, attraverso un’estensione laterale, a monte o a valle della sua attività di base (crescita integrata); nell’ambito di opportunità esterne al suo campo di attività abituale (crescita per diversificazione). A ciascuno di questi obiettivi di crescita corrisponde un certo numero di possibili strategie. -Le strategie di crescita intensiva Tale strategia è giustificata per un’impresa che non ha ancora sfruttato completamente le opportunità offerte dai prodotti di cui dispone nei suoi mercati naturali di riferimento. È possibile attuare diverse strategie. La strategia di penetrazione del mercato Consiste nel cercare d’incrementare o mantenere le vendite dei prodotti attuali nei mercati esistenti. Si possono seguire diverse vie: 1. Sviluppo della domanda primaria: espandere la domanda primaria per aumentare la dimensione del mercato totale, convertendo in consumatori coloro che non utilizzano il prodotto o stimolando i consumatori abituali ad aumentare la frequenza d’acquisto, la quantità media acquistata per ogni occasione d’utilizzo o identificando nuovi utilizzi del prodotto. 2. Aumento della quota di mercato: aumentare le vendite, attirando i clienti delle marche/imprese concorrenti con investimenti significativi nel mkt mix, che possono avere lo scopo di migliorare il prodotto o i servizi offerti, riposizionare la marca, attuare forti riduzioni di prezzo, rafforzare la rete di distribuzione e assistenza. 3. Acquisizione di mercati: aumentare la quota di mercato con una strategia di acquisizioni o creando delle “joint-venture” (ad es. acquisendo un’impresa concorrente, per ottenere la sua quota di mercato e creando una joint-venture per controllare una quota di mercato significativa). 4. Difesa di una posizione di mercato: difendere la quota di mercato detenuta (relazioni con i clienti, network, immagine, ecc.), rafforzando il mkt operativo, attraverso piccoli miglioramenti del prodotto, strategie difensive in materia di prezzi o intensificazione delle iniziative promozionali. 5. Razionalizzazione del mercato: modificare in modo significativo i mercati serviti, allo scopo di ridurre i costi e/o aumentare l’efficacia del mkt operativo, concentrandosi sui segmenti più redditizi, abbandonandone selettivamente alcuni o ricorrendo ai distributori più efficaci. 6. Organizzazione del mercato: influenzare, tramite pratiche legalmente accettate, il livello di competitività di un settore per cercare di migliorare la redditività, per esempio, fissando regole o direttive sulle pratiche concorrenziali (con il sostegno della Pubb. Amministraz.) e concludendo accordi di riduzione o stabilizzazione della capacità produttiva. Le strategie di sviluppo incentrate sui mercati Una strategia di sviluppo incentrata sui mercati si propone di aumentare le vendite introducendo i prodotti attuali dell’impresa su mercati nuovi o futuri. In questo caso esistono 4 approcci diversi per realizzare questo obiettivo: 1. Bisogni latenti. Consiste nel proporre soluzioni a bisogni che i consumatori non hanno ancora percepito o espresso, creando nuovi prodotti e mercati, servendosi di una strategia di mkt proattiva. 2. Nuovi segmenti di mercato. Prevede che l’impresa si rivolga a nuovi segmenti di clienti (non serviti) nello stesso mercato geografico. 3. Nuovi canali di distribuzione. Consiste nell’introdurre il prodotto in una rete di distribuzione diversa, complementare a quelle esistenti. 4. Espansione geografica. Consiste nell’insediamento in altre aree del Paese o in altri Stati. In genere le strategie di sviluppo incentrate sui mercati si basano principalmente sulle conoscenze distributive e sulle capacità di marketing dell’impresa. Le strategie di sviluppo incentrate sui prodotti Si propongono di aumentare le vendite perfezionando i prodotti o sviluppandone di nuovi per destinarli ai mercati già serviti dall’impresa. Le possibilità sono molteplici: innovazioni di rottura (lanciare un prodotto che offre benefici radicalmente diversi e richiede da parte dei consumatori un diverso comportamento di utilizzo); aggiunta di caratteristiche (per allargare il mercato, incrementando la versatilità del prodotto con l’aggiunta di nuove funzioni o valori sociali/emozionali al prodotto stesso); estensione della linea di prodotti (introdurre nuove varianti sotto la stessa marca ombrello, offrendo il prodotto in diverse forme, composizioni e confezioni, per aumentare o mantenere la quota di mercato); ringiovanimento di una linea di prodotti (sostituire prodotti obsoleti con prodotti migliorati funzionalmente e tecnologicamente); miglioramento della qualità (migliorare il modo in cui il prodotto espleta le funzioni che compongono il paniere di attributi); acquisizione di una gamma di prodotti (completare, migliorare o ampliare la gamma di prodotti esistenti ricorrendo a mezzi esterni, come l’acquisizione di altre imprese produttrice di prodotti complementari o la stipulazione un contratto di fornitura di prodotti complementari, che verranno poi rivenduti con il marchio dell’impresa o, ancora, la creazione di una joint-venture per lo sviluppo di un prodotto nuovo); razionalizzazione di una gamma di prodotti (modificare la gamma di prodotti per ridurre i costi di produzione o distribuzione, standardizzando una linea di prodotti e la sua confezione, ripensando il loro design o abbandonando prodotti poco redditizi). L’elemento su cui fanno leva queste strategie di sviluppo è quindi essenzialmente il settore R&S. -Le strategie di crescita integrata La strategia in questione descrive una serie di accordi di make-or-buy che l’impresa stipula per ottenere forniture rapide di materie prime strategiche e mercati pronti a ricevere i prodotti finiti. Si distinguono strategie d’integrazione verticale (a monte e a valle) e strategie d’integrazione orizzontale (o laterale). Le strategie d’integrazione a monte Una strategia del genere è solitamente alimentata dall’intento di consolidare, o difendere, una fonte di approvvigionamento d’importanza strategica per l’impresa, che si tratti di materie prime, semilavorati, componenti o servizi. In certi casi un’integrazione a monte è necessaria perché i fornitori non dispongono delle risorse o della competenza tecnologica necessarie a fabbricare componenti indispensabili all’attività, oppure quando ci si vuole assicurare l’accesso a una tecnologia chiave essenziale al successo dell’attività di base. Le strategie d’integrazione a valle Una strategia del genere ha come motivazione di base quella di garantire all’impresa il controllo degli sbocchi vitali per la sua esistenza. Per un’impresa produttrice di beni di consumo si tratterà di assicurarsi il controllo sulla distribuzione con sistemi di franchising o contratti d’esclusiva, o reti di punti vendita propri. Nei mercati industriali, invece, l’obiettivo principale è quello di controllare lo sviluppo delle attività di trasformazione o incorporazione a valle, che costituiscono sbocchi naturali. Ecco perché alcune imprese di base partecipano alla creazione di imprese di trasformazione situate a valle della loro attività. Talvolta, però, l’integrazione a valle si pone come obiettivo semplicemente quello di raggiungere una maggiore comprensione dei bisogni dei clienti che acquistano i prodotti, creando una filiale che svolge il ruolo di unità pilota, deputata a comprendere più efficacemente le esigenze dei clienti. La strategia d’integrazione orizzontale L’obiettivo è quello di rafforzare la posizione concorrenziale, assorbendo o controllando determinati concorrenti. Le motivazioni possono essere: neutralizzare un concorrente pericoloso; beneficiare della complementarità delle linee di prodotti; accedere a segmenti di mercati ristretti. -Le strategie di crescita basate sulla diversificazione Una strategia di crescita per diversificazione appare giustificata quando la filiera industriale dell’impresa non presenta più alcuna opportunità di crescita o redditività, perché la concorrenza occupa una posizione troppo forte o perché il mercato di riferimento è in declino. Una strategia di diversificazione comporta l’entrata in prodotti-mercati nuovi per l’impresa. Si distingue di solito tra diversificazione concentrica e diversificazione pura La strategia di diversificazione concentrica L’impresa esce dalla sua filiera industriale e commerciale e cerca di aggiungere attività nuove, complementari a quelle esistenti sul piano tecnologico e/o commerciale. L’obiettivo è quello di beneficiare degli effetti di sinergia dovuti alla complementarità delle attività, allargando così il mercato di riferimento dell’impresa e attirando, dunque, nuovi gruppi di clienti. La strategia di diversificazione pura L’impresa entra in attività nuove che non hanno collegamenti con le sue attività tradizionali, a livello sia tecnologico sia commerciale. L’obiettivo è in tal caso quello di orientarsi verso settori completamente nuovi, per rinnovare il portafoglio di attività; tali strategie dunque sono le più rischiose e le più complesse, perché conducono l’impresa su terreni completamente nuovi, con la necessità di impiegare consistenti risorse umane e finanziarie. In linea generale, qualunque strategia di diversificazione riuscita sfrutta in una certa misura la sinergia derivante dall’attività principale dell’impresa, che secondo Drucker, deve possedere almeno un punto in comune (mercato; tecnologia; processo produttivo) con la nuova attività per avere una strategia di diversificazione di successo. La valutazione previsionale delle sinergie di competenze, talenti e conoscenze tra il settore dell’attività tradizionale e quello nuovo rappresenta una fase particolarmente delicata nella pianificazione di una strategia di diversificazione, perché il rischio principale è, infatti, quello di sopravvalutare le sinergie di competenze esistenti tra le due attività. Scelta delle strategie competitive Posizione e comportamento dei concorrenti costituiscono dati importanti di cui bisogna tener conto nell’ambito di una strategia di crescita. Le analisi di competitività permettono di valutare l’importanza del vantaggio competitivo detenuto dall’impresa rispetto ai concorrenti più pericolosi e d’identificare i loro comportamenti competitivi. Si tratta ora di sviluppare una strategia basata su una valutazione realistica delle forze in gioco e di definire i mezzi da impiegare per raggiungere gli obiettivi definiti. Kotler e Keller distinguono fra 4 diverse strategie competitive, in base alla consistenza della quota di mercato detenuta: strategia del leader, dello sfidante, del follower e dello specialista. -Le strategie del leader di mercato L’impresa leader in un prodotto-mercato è quella che occupa la posizione dominante ed è riconosciuta come tale dai concorrenti, che la considerano come un punto di riferimento da aggradire, imitare o evitare. L’impresa leader può adottare diverse strategie. Sviluppo della domanda primaria. L’impresa leader è generalmente quella che contribuisce in modo più diretto allo sviluppo del mercato di riferimento. La strategia di sviluppo della domanda primaria consiste nello sforzarsi di individuare nuovi utenti del prodotto, di promuovere nuove forme d’impiego dei prodotti esistenti, di accrescere le quantità utilizzate in ogni occasione di consumo. Adottando questa linea di condotta, l’impresa leader estende il mercato di riferimento, il che va in definitiva a beneficio dell’insieme dei concorrenti. Questa strategia si osserverà soprattutto nelle prime fasi del ciclo di vita del prodotto, quando la domanda primaria è ancora espandibile, e di conseguenza la tensione competitiva è bassa. Strategie difensive. L’impresa leader, in questo caso, ha l’obiettivo di proteggere la quota di mercato contrastando l’attività dei concorrenti più pericolosi. È possibile adottare diverse strategie di difesa: l’innovazione e il vantaggio tecnologico, in modo da scoraggiare la concorrenza; il consolidamento del mercato, grazie a una distribuzione intensiva e a una politica di linea volta a coprire tutti i segmenti; oppure il confronto diretto attraverso guerra di prezzi e pubblicità comparative. Strategie aggressive. L’obiettivo, in questo caso, è trarre il massimo beneficio dall’effetto di esperienza e migliorare cosi la redditività. Esiste però un limite al di là del quale il costo di un ulteriore aumento della quota di mercato diventa proibitivo. Inoltre, una posizione di leadership troppo forte presenta l’inconveniente di attirare l’attenzione dell’autorità pubblica preposta a tutelare le condizioni di libera concorrenza sul mercato (nell’UE il ruolo è svolto dalla Commissione per la Concorrenza; negli USA esistono, invece, le leggi anti-trust). Le aziende dominanti, infine, sono più vulnerabili agli attacchi delle associazioni consumeriste, che solitamente prendono di mira i bersagli più visibili Strategia di demarketing. Comporta una riduzione volontaria della quota di mercato dell’impresa, al fine di evitare le accuse di monopolio o di quasi monopolio. Si applica il “demarketing” , allora, allo scopo di ridurre il livello di domanda per certi segmenti attraverso incrementi di prezzo, riduzione dei servizi offerti, nonché attività pubblicitarie. Si potrebbe anche diversificare verso altri prodotti-mercati, in cui l’impresa non detiene una posizione dominante, oppure tentare di valorizzare, attraverso una strategia di comunicazione o di relazioni pubbliche mirata, il ruolo sociale dell’impresa nei confronti delle varie componenti del suo pubblico. -Le strategie dello sfidante Lo sfidante adotta strategie aggressive, il cui obiettivo dichiarato è quello di prendere il posto del leader. I due problemi chiave che lo sfidante deve affrontare sono: la scelta del campo di battaglia sul quale attaccare l’impresa leader e la valutazione delle capacità di reazione o difesa di quest’ultimo. Nella scelta del campo di battaglia lo sfidante ha due possibilità: attacco frontale (opporsi in modo diretto al concorrente utilizzando le sue stesse armi, senza cercare di puntare sui suoi punti deboli, con un rapporto di forze che deve essere nettamente a favore dell’attaccante); attacco laterale (opporsi al leader su una dimensione strategica rispetto alla quale è debole o impreparato, colpendo, ad esempio, una rete di distribuzione in cui l’impresa leader non è ben rappresentata o anche un segmento di mercato nel quale il suo prodotto ha attecchito meno bene). La strategia classica dello sfidante consiste nell’attaccare l’impresa leader sul piano del prezzo: offrire lo stesso prodotto, ma a un prezzo sensibilmente inferiore. Tale strategia è tanto più efficace quanto più è alta la quota di mercato del leader, perché l’allineamento al livello di prezzo più basso lo porta a sostenere costi rilevanti, mentre lo sfidante, soprattutto se piccolo, subirà solo perdite proporzionali a un volume ridotto. Per quanto riguarda, la valutazione corretta della capacità di reazione del concorrente leader, Porter suggerisce di valutare tale capacità alla luce dei criteri di vulnerabilità (a quali manovre strategiche, iniziative del governo, eventi settoriali il concorrente sarà più vulnerabile?), provocazione (quali manovre o eventi provocherebbero un concorrente a tal punto da costringerlo alla vendetta, nonostante i costi elevati e la scarsa performance economica?) e rappresaglia (quali iniziative o eventi si potrebbero intraprendere senza determinare una risposta efficace da parte del concorrente stesso?). -Le strategie del “follower” Il follower è il concorrente che, disponendo di una quota di mercato ridotta, assume un comportamento adattivo, allineandosi alle decisioni prese dai concorrenti. Anziché attaccare il leader, queste imprese perseguono un obiettivo di “coesistenza pacifica”, adottando un atteggiamento conforme a quello del leader riconosciuto dal mercato. Questo tipo di comportamento si osserverà principalmente nei mercati oligopolistici, in cui le possibilità di differenziazione sono scarse e l’elasticità rispetto al prezzo elevatissima, tanto che nessun concorrente ha interesse ad avviare una lotta concorrenziale, che rischia di danneggiare la totalità delle imprese presenti. -Le strategie dello specialista (o delle nicchie di mercato) L’impresa che si specializza, s’interessa a uno o più segmenti anziché alla totalità del mercato. L’obiettivo perseguito è quello di essere un pesce grosso in un fiumiciattolo, piuttosto che un pesciolino in un grande fiume: è la strategia di focalizzazione, vista precedentemente nel capitolo. Il concetto chiave è: specializzarsi in una nicchia; una nicchia è redditizia e durevole quando: presenta sufficienti potenzialità di profitto; possiede un potenziale di crescita; è poco attraente per la concorrenza; corrisponde alle competenze distintive dell’impresa; dispone di barriere difendibili all’entrata. Per l’impresa che cerca di specializzarsi, il problema è quello di individuare la caratteristica o il criterio su cui costruire la sua specializzazione. Tale criterio può ravvisarsi in una caratteristica tecnica del prodotto, in una qualità distintiva particolare o in un qualsiasi elemento del mkt mix. Le strategie di sviluppo internazionale Keegan distingue 4 diversi orientamenti al marketing internazionale: l’organizzazione domestica; l’organizzazione internazionale; l’organizzazione multidomestica; organizzazione globale o transnazionale. - Nel primo caso, l’impresa si incentra sul mercato interno e l’esportazione viene vista come un’opportunità eventualmente da cogliere. - Nel secondo caso, l’internazionalizzazione è più attiva, ma l’impresa è sempre concentrata sul mercato interno, che resta il suo interesse primario. Una tale impresa ha un orientamento etnocentrico e ritiene che i metodi, i valori, gli approcci e le persone del Paese di origine siano trasferibili negli altri Paesi del mondo. L’attenzione è rivolta soprattutto alle similitudini col Paese d’origine e la strategia di base è una strategia di estensione del mercato: i prodotti ideati per il mercato nazionale vengono esportati cosi come sono negli altri Paesi. - Nel terzo caso, l’impresa è cosciente dell’importanza delle differenze esistenti tra i mercati e si sforza di adattare la sua strategia di mkt alle particolarità locali. L’interesse dell’impresa diventa cosi multinazionale e l’orientamento è policentrico. I mercati, in base ad esso, sono unici e diversi e, per avere successo, è quindi necessario adattarsi il più possibile alle particolarità nazionali. Ogni Paese ha una sua organizzazione e viene gestito come entità indipendente. - Nel quarto caso, si ha un mercato globale, raggiungibile cioè con lo stesso tipo di prodotto e messaggio di base. Prodotto, tecniche commerciali e promozionali possono richiedere un adattamento alle abitudini e pratiche locali; l’orientamento geocentrico (o regiocentrico) si basa sull’ipotesi che i mercati in tutto il mondo siano allo stesso tempo simili e differenti e che sia possibile sviluppare una strategia globale basata sulle similitudini che trascendono i particolarismi nazionali, adeguandosi alle differenze locali laddove necessario. Lo sviluppo internazionale non è più un fatto che riguarda solo le grandi imprese. Per crescere, o più semplicemente per sopravvivere, molte piccole imprese sono spinte a internazionalizzarsi. Gli obiettivi possono essere vari: allargare il mercato potenziale (ciò permette di incrementare il volume di produzione e di ottenere, in tal modo, risultati migliori grazie alle economie di scala realizzate); l’impresa potrebbe anche avere la necessità di prolungare il CVP del prodotto, entrando in mercati che si trovano a un diverso stadio di sviluppo del CVP e che hanno ancora una domanda totale espandibile; l’impresa potrebbe, poi, decidere di diversificare il rischio commerciale, basandosi su clienti che operano in vari contesti economici e che conoscono congiunture più favorevoli. Questo per quanto riguarda i clienti, mentre per ciò che attiene ai concorrenti, l’impresa potrebbe porsi l’obiettivo di controllare la concorrenza, diversificando le proprie posizioni e monitorando le attività dei concorrenti negli altri mercati. Esiste poi una serie di obiettivi maggiormente connessi alle attività dell’impresa, come ridurre i propri costi di approvvigionamento e produzione, sfruttando i vantaggi comparati dei diversi Paesi; oppure sfruttare una capacità di produzione in eccesso, esportando a basso prezzo verso altri mercati; o, ancora, di realizzare una diversificazione geografica, penetrando su nuovi mercati con prodotti esistenti. A questi obiettivi di base va aggiunto il fenomeno di globalizzazione dei mercati, che stimola le imprese ad approfittare della liberalizzazione dei mercati su scala mondiale. Le 6 modalità (o tappe) dello sviluppo internazionale 1. Esportazione. In un primo tempo l’esportazione deriva spesso dalla necessità di smaltire un surplus di produzione; in seguito può diventare un’attività regolare, sebbene da ricostruire ogni anno, senza che vi siano forme d’impegno a medio-lungo termine con l’estero. 2. Tappa contrattuale. In questo stadio l’impresa va alla ricerca di accordi a più lungo termine in modo da stabilizzare i suoi sbocchi; i contratti a lungo termine verranno stipulati con un importatore o un affiliato in franchising, oppure con un fabbricante licenziatario nel caso di un’impresa industriale. 3. Impegno dei propri capitali. Tutto ciò per ragioni di controllo sul partner straniero o per finanziare la sua espansione; stadio partecipativo che poi sfocia nelle società commerciali o di produzione in comproprietà. 4. Investimento diretto su una filiale controllata. Avviene se, dopo alcuni l’impegno diventa totale, con il possesso da parte dell’impresa del 100% del capitale della filiale straniera. 5. Filiale autonoma. Progressivamente, la filiale straniera cerca di svilupparsi in modo autonomo, ricorrendo a finanziamenti locali, a quadri nazionali, a un’attività di R&S autonoma, distinta da quella della casa madre. Se la casa madre possiede diverse filiali di questo tipo, si trasforma in una multinazionale. La filiale autonoma, può essere definita in maniera forse più corretta come “società multidomestica”, perché si pone l’accento sul fatto che ogni singola società è centrata sulle problematiche relative al proprio mercato interno e che le società del gruppo convivono in modo indipendente l’una dall’altra. 6. Impresa globale. Tale tipologia di impresa, che oggi costituisce la tappa evolutiva in corso, gestisce il mercato come fosse un unico e solo mercato, basandosi sull’interdipendenza dei mercati che, di conseguenza, non sono più gestiti in modo autonomo.
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