NOV 2011 N.3 anno IV Il Magazine ManpowerGroup di Economia e Cultura del Lavoro Incontro con il maestro Andrea Pestalozza Cover story a pagina 8 con trap p unti Un’Italia per giovani? È ancora possibile L’opinione di Jacopo Morelli, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Letture ascoLti & Visioni L’industriale Pierfrancesco Favino protagonista del nuovo film di Giuliano Montaldo PEnsiero complesso esecuzione semplice p ostfazi on e A lezione di coaching di Dan Peterson Cosa serve oggi alle organizzazioni per essere vincenti © 2011 ManpowerGroup. All rights reserved. C’è Chi non vede oltre i luoGhi CoMuni. e Chi fA CresCere nuove opportunità. noi di experis sappiamo ascoltare le necessità della vostra azienda e trovare per voi il miglior talento che può sviluppare il vostro business. experis è la nuova talent company di ManpowerGroup specializzata nella ricerca e selezione di professionisti di alto profilo. experis.it Mil A no roM A torino pA dovA BoloGn A Francesco Maria Gallo
[email protected] prefa zione PAROLA D’ORDINE: SEMPLIFICARE complessità tag ottimizzazione / processi / decisioni / mercati globalizzati / Ci salverà la semplificazione? Probabilmente sì. Almeno questo è quello che insegnano gli ultimi cinquanta anni di storia del management. Tutte le aziende che hanno saputo semplificare e ottimizzare i processi, senza smarrire in questo i valori di fondo, sono state in grado non solo di gestire le complessità ma di farlo anche durante le più critiche fasi di discontinuità. I grandi leader sono stati spesso dei grandi semplificatori. Il pensiero corre ad esperienze diventate casi di scuola. IBM, che quest’anno festeggia i cento anni di vita, ha trovato nella semplificazione la scialuppa a cui aggrapparsi nei turbolenti anni ’90. Lo ha raccontato bene Louis Gerstner, lo storico presidente chiamato al capezzale del gruppo e protagonista di un turnaround fra i più celebri e celebrati (a cui qualche anno dopo ha dedicato il libro autobiografico: “La mia IBM: chi dice che gli elefanti non possono ballare?”, pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer). Quando arrivò nel 1993 l’azienda era in preda a una paralisi, macchinosa, incapace di gestire con efficacia i processi decisivi, con un rosso da quasi 8 miliardi di dollari. Per Wall Street IBM non aveva speranze. Gerstnet snellì, ringiovanì e innovò l’elefante IBM. I risultati, in breve, si fecero vedere. La stessa lezione arriva dai ricordi di un altro manager che si è trovato a guidare una azienda complessa, articolata, che di anni ne ha oltre centotrenta: General Electric. Jack Welch, che ha condotto il gruppo alla massima espansione (dal 1981 al 2011) ha orientato la sua azione ad una massima che ha spesso ripetuto alle quasi 300.000 persone che in tutto il mondo lavorano per GE: “semplificate costantemente”. “I messaggi semplici - è la lezione di Jack Welch - vengono recepiti più velocemente. Eliminando il disordine, le decisioni vengono prese più rapidamente. La semplicità non è facile ma è senz’altro efficace. E fa la differenza”. Per questo riteniamo che “semplificare” sia la parola d’ordine che ogni azienda deve fare propria quando specchiandosi si vede goffa, disarmomica, quando i propri dipendenti diventano incapaci di conoscersi e riconoscersi, quando la cultura aziendale diventa sfilacciata, equivocata, dimenticata. La semplificazione permette a un’azienda di adattarsi più velocemente alla imprevedibilità dei mercati globalizzati, imparando a fare cose nuove e più rapidamente. Un elevato grado di complessità ormai è imposto da un mondo interconnesso in cui gli stakeholder di una azienda sono cresciuti a dismisura e dove le aziende, naturalmente incapaci di prevedere il futuro, debbono organizzarsi per sopravvivere anche nelle situazioni più complicate. Di questo parliamo nel numero di Lavori in Corso che state sfogliando. Come sempre, buona lettura! Francesco Maria Gallo External & Internal Relations Manager ManpowerGroup Abst La semplificazione permette alle aziende di adattarsi più velocemente alla imprevedibilità dei mercati globalizzati, imparando a fare cose nuove e più rapidamente OP Complessità. Un’introduzione semplice di I. Licata :duepunti, 2011 1 N3 anno IV, novembre 2011 Lavori in Corso è un trimestrale ManpowerGroup di Economia e Cultura del Lavoro. Registrazione Tribunale di Milano: n. 620 del 16/10/2008 Presidente Stefano Scabbio Direttore responsabile Francesco Maria Gallo Redazione Antonella Guidotti, Silvia Bordiga, Sara Malgrati Segreteria di redazione Angelica Durante
[email protected] 02.230037100 Hanno collaborato a questo numero Giuseppe Califano, Mariano Di Domizio, Pier Carlo Maruzzi, Andrea Montefusco, Stefano Pedrazzi, Dan Peterson, Giulio Sapelli, Serena Scarpello, Maria Verdini Foto iStockphoto Progetto grafico, copertina e impaginazione Distribuzione Caterina Martinelli - Bologna /
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È ancora possibile di Pier Carlo Maruzzi Semplifico ergo sum 24 Alla guida di una giusta causa di Antonella Guidotti contrappunti 8 pensiero complesso esecuzione semplice Sintesi di un pensiero complesso di Giuseppe Califano workshop opinion leader 26 Cosa serve oggi alle organizzazioni per essere vincenti 12 Change management: la via dell’incertezza e dell’instabilità di Andrea Montefusco di Stefano Pedrazzi La sfida della complessità: Hera la vince così hr allo specchio 14 di Serena Scarpello hr talent 28 Persone che fanno l’impresa di Mariano Di Domizio Cisco Italia: pensare global, operare local società e territori 18 letture ascolti visioni 31 Dove il lavoro non conosce crisi di Maria Verdini L’Industriale a cura della Redazione 20 Lavorare nella complessità: cosa chiedono le persone alle aziende di Silvia Bordiga postfazione 32 A lezione di coaching di Dan Peterson 3 edito riale Stefano Scabbio EDUCARE ALLA DIVERSITà PER EDUCARE AL FUTURO tag multiculturalità / gender gap / pil / integrazione / competitività Le organizzazioni sembrano essere tutte d’accordo quando si parla dell’importanza di gestire la diversità presente nelle proprie strutture, quella realtà differenziata frutto di un mix di nazionalità, etnie, culture, generi, religioni, età, scolarità, conoscenze, capacità lavorative. Il fronte comune viene meno però quando si parla dei piani adottati e, ancor prima, quando si entra nel merito delle motivazioni che hanno guidato l’attuazione di determinate strategie. In Italia il tema esula generalmente dall’ordine del giorno delle imprese, e quando invece compare è sovente catalogato come pratica di compliance o di social responsability, risultato di una percezione quasi assistenzialistica della promozione delle diversità in azienda. Lontana - troppo - da ogni connessione al business. Prima di noi i Paesi anglosassoni, storicamente meta di flussi migratori che ne hanno determinato la spiccata multiculturalità del tessuto socio-economico, si sono trovati oltre vent’anni fa ad affrontare la questione della diversità. E sin da allora le aziende sono state stimolate a comprendere il valore delle differenze e a ridisegnare gli esistenti modelli “impersonali” di gestione del personale tenendo conto di una realtà non più uniforme che offriva nuovi vantaggi e opportunità. Nel nostro Paese la questione, finora percepita quasi esclusivamente dalle grandi multinazionali, si è inevitabilmente presentata anche per le piccole e medie imprese, ossatura del sistema economico italiano, quale effetto della globalizzazione. Aziende che oggi devono comprendere la portata innovativa della diversità e il suo impatto sul business, e mettere in discussione l’efficacia - in termini di produttività e crescita - delle attuali gestioni standardizzate della forza lavoro. L’introduzione di nuove culture e modalità di lavoro che valorizzino le differenze espresse dalle proprie persone deve passare infatti dalla consapevolezza che per un’azienda integrare la diversità significa rendersi più competitiva. Pensiamo alle donne, al “giacimento di Pil potenziale” da esse rappresentato in un’Italia che se raggiungesse gli obiettivi di Lisbona - occupazione femminile al 60%, laddove oggi è ferma al 46,1% - vedrebbe il suo prodotto interno lordo aumentare del 7% Stefano Scabbio Amministratore Delegato ManpowerGroup Italia e Iberia Abst L’introduzione di nuove culture e modalità di lavoro che valorizzino le differenze espresse dalle persone deve passare dalla consapevolezza che per un’azienda integrare la diversità significa aumentare la sua competitività 4 editoriale di differenti bisogni e condizioni da poter tradurre in prodotti e servizi che rispondano alle esigenze di nuovi potenziali consumatori. Il multiculturalismo è una realtà. Le donne che vogliono lavorare sono una realtà. I giovani - laureati o diplomati, poco esperti d’azienda ma anche pieni di energie - e i lavoratori maturi - più esperti ma spesso anche meno aperti al “nuovo” - sono una realtà. Le differenti capacità e il differente valore delle persone sono una realtà. Includere e trattare queste molteplicità quali facce di in un’unica realtà aziendale che persegue un obiettivo comune a tutti - il successo dell’impresa, che inevitabilmente passa dal contributo delle persone che in essa operano - è la sfida della contemporaneità. Da vincere riconoscendo il valore economico generato dalla diversità per perseguirlo attraverso valide strategie di inclusività, capovolgendo anzitutto la prospettiva: coltivare le differenze come una risorsa profittevole e non relegarle a criticità o ancor peggio a un costo da sostenere (talvolta nemmeno troppo volentieri) per questioni di immagine, etica generalista, pratiche politically correct. La diversità è il futuro - laddove non già il presente - dell’economia e della società globalizzata. Educare le organizzazioni a valorizzarla è la strada verso la competitività. Il rischio? Guardare gli altri, da lontano, tagliare per primi il traguardo. (stime di Bankitalia). E il nostro 74esimo posto (tra 134 Paesi) nel Global Gender Gap Index non è solo un indice di arretratezza culturale ma un grave fattore di perdita economica. C’è bisogno di un welfare più vicino alle famiglie (a cui oggi è destinato solo l’1,4% del Pil, contro la media Ocse del 2,2%, in Francia addirittura il 3,8%), politiche che concilino vita privata e professionale - orari flessibili, part time, telelavoro, congedi parentali ma anche di un cambiamento delle stesse culture aziendali che non penalizzino le donne, ad esempio passando da una modalità time at desk a una modalità measure by results nella valutazione delle performance, evitando quindi di legarle al tempo trascorso in ufficio. Ma pensiamo anche alla convivenza all’interno delle organizzazioni di differenti generazioni, i lavoratori più giovani e quelli meno giovani, portatori di molteplici saperi e culture come pure di differenti approcci al lavoro. Favorire il continuo scambio di conoscenza e visioni attraverso strategie di integrazione che sappiano valorizzare le abilità del singolo perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi di crescita di tutto il gruppo significherà per l’azienda poter contare su processi innovativi e know how avanzati, capaci di rispondere prontamente agli stimoli di un mercato sempre più diversificato. Nel mondo globalizzato, le moderne organizzazioni devono fare i conti anche con i cambiamenti demografici della forza lavoro. E inevitabilmente parliamo di quei flussi migratori che l’Italia, con un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa (1,4 figli per donna, rispetto a una media Ocse di 1,74), non può permettersi di ignorare né tantomeno di non sfruttare per il suo sviluppo economico. Il Ministero del Lavoro ha stimato in un milione e 800mila unità il fabbisogno di lavoratori nei prossimi dieci anni. L’integrazione delle popolazioni straniere assume quindi i termini di una scelta strategica e intelligente, che va oltre gli aspetti civili e umanitari, e investe direttamente il contributo al Pil. Ma si pensi anche all’inestimabile valore per le aziende di nuove visioni ed esperienze: lo sviluppo di competenze interculturali determina una maggiore capacità di operare in ambienti complessi e internazionalizzati; una forza lavoro differenziata significa maggior apporto di innovazione e creatività, ma anche di nuovi approcci decisionali e di problem solving; molteplici identità interne all’azienda comportano la conoscenza diretta OP Economia aziendale, diversity management e capitale umano: peculiarità nei sistemi complessi M. Zifaro Giuffrè, 2011 5 contro edito riale Giulio Sapelli
[email protected] SEMPLIFICO ERGO SUM tag cura / disciplina / imperfezione / cambiamento / potere Esistono molte biblioteche colme di libri sul concetto di complessità. Non esiste neppure un libro sulla semplicità. La questione è sospetta. Dovrebbe essere il contrario. Parlare e scrivere di questioni semplici dovrebbe essere più facile del farlo di questioni complesse. Invece è tutto il contrario e la ragione risiede nell’antico assunto che ha guidato i pensatori della classicità che ci fa dire che la verità si raggiunge piuttosto per sottrazione che per addizione. Sottrazione di che? Di tutto ciò che è ridondante, ossia che non ci aiuta a uscire dal tunnel delle situazioni della vita a cui dobbiamo dare una soluzione. Quest’ultimo pensiero potrebbe essere anche una definizione del semplice: è semplice tutto ciò che ci aiuta a raggiungere un obiettivo con la massima frugalità sia dell’universo tecnico di cui disponiamo sia della nostra energia fisica e psichica. Questo principio vale anche per le arti: Mondrian ci affascina perché è semplice. Ma non è meno profondo, per il fatto che è semplice. Hofmannsthal diceva che la profondità sta alla superficie: la semplicità quindi può essere un criterio per giudicare la bellezza che infatti si nutre di interiorità. Le organizzazioni sono associazioni umane e tecniche che sono state costruite per risolvere situazioni. Quando non risolvono situazioni, e quindi problemi, sono state invece costruite per addensare e concentrare potere. La semplicità, quindi, non vive di potere ma di autorità ossia, per chi non ricorda più Max Weber, di autorevolezza. Vi sono fondamentalmente nelle organizzazioni umane mondiali due modelli per raggiungere la semplicità. Il primo, amato e praticato dalle culture asiatiche (in primis giapponesi), è quello che predica e pratica che la semplicità si fonda sull’estrema cura della progettazione degli strumenti e dei rapporti umani atti a perseguire lo scopo. In effetti questo assunto, che è anche una pratica, si è sviluppato in culture che fanno dell’execution disciplinata, ossia dell’implementazione, un criterio tanto etico quanto estetico. Basta pensare al ruolo che la calligrafia ha in queste culture. La seconda via per raggiungere un’execution perfetta o quasi perfetta, attraverso la semplicità, è quella tipica delle culture anglosassoni. Non a caso sono culture che promanano da sistemi sociali a commom law e che non hanno la presunzione di raggiungere la perfezione dei contratti, come è invece presuntuosamente nei sistemi a diritto romano-germanico. È la consapevolezza della imperfezione Giulio Sapelli Docente di Storia Economica all’Università Statale di Milano Abst La semplicità più che un’ecologia della mente è una deontologia della mente e dell’anima, come la verità. E solo nella verità si può praticare il cambiamento 6 contro editoriale eterna dei contratti che obbliga alla semplicità. Più si è semplici, infatti, più si è aperti al cambiamento. Entrambe queste posizioni culturali si fondano su una capacità piuttosto che su una competenza: quella di semplificare nell’execution il pensiero complesso. Anzi, è solo il pensiero complesso che consente di raggiungere la semplicità nell’implementazione operativa. Perchè quanto più un sistema è complesso, tanto più riflette una concettualità molteplice come l’essere sociale. Come è noto, si può sottrarre solo da ciò che è molteplice. Chi non pensa il molteplice ma pensa il semplice, di norma complessifica e quindi rende più difficile l’esecuzione perché non sottopone il suo comportamento cognitivo all’essenziale dilavamento che è tipico della verità raggiunta per sottrazione. Il pensiero organizzativo europeo che deriva piuttosto che dalla società dagli stati assoluti, dagli eserciti, dalle Chiese, e si è troppo celermente trasformato in pensiero organizzativo applicato alle organizzazioni a finalità economiche, di fatto non possiede nessuna delle virtù della sottrazione prima evocate: non è né calligrafico e quindi estetico, né conscio dell’imperfezione nelle relazioni, e quindi orgogliosamente presupponente. Per questo nel Vecchio Continente, di norma, il potere domina nelle organizzazioni e quindi il semplifico ergo sum non trova posto nelle associazioni umane che lo configurano. In definitiva, la semplicità più che un’ecologia della mente è una deontologia della mente e dell’anima, come la verità. E solo nella verità si può praticare il cambiamento. OP Un racconto apocalittico. Dall’economia all’antropologia. G. Sapelli Bruno Mondadori, 2011 7 cover story Contra ppunti Photo: Vico Chamla Giuseppe Califano* SINTESI DI UN PENSIERO COMPLESSO tag visione d’insieme / comunicazione / fiducia / leadership / fare squadra Guidare un’azienda e dirigere un’orchestra. L’analogia non appare così azzardata se pensiamo che il successo di entrambe dipende dalla capacità del manager-direttore di coordinare le diverse componenti da cui sono costituite, convogliare molteplici abilità e visioni verso il raggiungimento di un obiettivo comune, unico e corale perché conquistato grazie al contributo di tutto il gruppo, nessuno escluso. Da qui nasce l’incontro con lo stimatissimo direttore d’orchestra Andrea Pestalozza, che ha raccontato a Lavori in Corso la sua esperienza e la sua visione del ruolo che ricopre. Fare il direttore d’orchestra non è un mestiere comune. Per lei si è trattato di un lento percorso di avvicinamento alla “bacchetta” o ha sempre saputo che sarebbe stata la sua strada? In realtà da bambino “dirigevo” coi grissini in casa... “dirigevo” certo è una parola grossa, ma senz’altro ero attratto da questo aspetto della musica. Il mio percorso di formazione musicale però è stato di lento avvicinamento: ho studiato prima percussione e fatto per parecchi anni questa carriera come concertista, poi è arrivato il pianoforte, e per una decina d’anni è stata la mia strada; solo in seguito ho cominciato a studiare direzione d’orchestra sotto la guida di Piero Bellugi. Dunque posso dire che la direzione è arrivata come un esito naturale di un lungo percorso. Quali progetti realizzerà a breve e lungo termine? Quali sogni per il futuro? I miei sogni sono sempre dei nuovi progetti da realizzare: ogni concerto è per me sempre l’esito finale di un sogno fatto mesi o anni prima. Trasformo ogni sogno in un progetto da perseguire con convincimento e tenacia: che vuol dire desiderare con forza qualcosa e lavorare in una direzione precisa per ottenerlo. Ed è grazie alla tenacia che normalmente riesco a concretizzare i miei sogni. Domanda da un milione di dollari: a cosa serve un direttore d’orchestra? In realtà molta musica del passato può essere eseguita anche senza un direttore, e sicuramente ci sono alcuni repertori in cui la sua figura non è così rilevante. Ma se si vuole arrivare un livello più profondo della musica, allora le cose cambiano. Un direttore d’orchestra diventa ad esempio fondamentale quando c’è bisogno di creare unità in una esecuzione: un’orchestra è formata da 60-70 musicisti che pensano tutti alla propria maniera, ognuno dei quali ha una propria idea di come eseguire i brani a loro affidati. Il direttore non è banalmente colui Andrea Pestalozza Direttore d’orchestra Abst Amo creare un rapporto di collaborazione con i musicisti basato sul rispetto assoluto delle capacità di ognuno, ma le decisioni finali spettano al direttore perché è lui ad avere una visione d’insieme ed è guidato da una coerenza di pensiero che è quella che crea unità * Compositore e divulgatore musicale 8 Contrappunti cover story che dà il ritmo con il proprio gesto, ma ha il compito di controllare le sonorità, i fraseggi, stabilire i “rallentandi”, gli “accelerando”, di dare, insomma, una sua lettura di un brano grazie a una visione complessiva della musica che di volta in volta si trova a dirigere. Una stessa frase musicale la si può suonare in infiniti modi; il direttore può scegliere, per ogni singolo passaggio, per ogni singola arcata dei violini, il “suo” modo: l’importante è che il risultato finale rispecchi una coerenza di fondo e che ci sia, a sostenerlo, l’idea di un progetto più generale. Dare a un’orchestra un “suo suono” è l’impresa più difficile e questo vuol dire rendere i musicisti un vero “gruppo”, mettere d’accordo tanti diversi pensieri musicali. Quali mezzi usa per creare affiatamento fra personalità così diverse, ognuna con alle spalle un percorso differente? Il mezzo concreto più efficace è il gesto, sintesi di un pensiero complesso, che dovrebbe contenere le cose essenziali da indicare ai musicisti (intensità, fraseggio, velocità) ma che dovrebbe nel contempo contenere anche le sfumature. Il gesto è tutto ciò che c’è fra direttore e orchestra durante un concerto. Poi c’è l’altro momento importantissimo, quello delle prove, in cui è presente uno strumento in più: la parola. Parola e gesto sono due elementi fra loro assolutamente complementari, nessuno dei due da solo potrebbe bastare per comunicare con un’orchestra. La parola entra in gioco quando alcuni risultati non sono quelli che il direttore immagina, Photo: Vico Chamla ma poi il gesto deve rispecchiare e supportare ciò che la parola è servita a esplicitare in forma verbale. È un gioco di equilibri. Il grande direttore Sergiu Celibidache diceva: “Ogni direttore è un dittatore intransigente che per fortuna si soddisfa solo di musica” e molti la pensano come lui... Altri credono piuttosto che il direttore sia un “primus inter pares”. Lei cosa ne pensa? Io amo creare un rapporto molto cordiale con l’orchestra, ma naturalmente l’intransigenza è importante. Amo certamente uno spirito di collaborazione con i musicisti basato su un rispetto assoluto delle capacità di ognuno, ma qualcuno deve pur prendere le decisioni finali e queste spettano al direttore, senza dubbio, perché lui ha una visione d’insieme ed è guidato da una coerenza di pensiero che è quella che crea unità. Certo bisogna evitare di creare un’atmosfera di tensione e di scontro altrimenti ne può nascere decisamente una “guerra”... musicale, s’intende! Dunque: autorità o autorevolezza? Autorevolezza, senza alcun dubbio. L’autorità non serve a nulla, anzi è spesso controproducente. Quando si trova a confrontarsi con un esecutore che ha un’idea di una frase musicale diversa dalla sua, come fa a convincerlo e portarlo dalla sua parte? Se l’idea di un singolo musicista differisce, probabilmente vuol dire che si discosta da un’idea complessiva del brano da eseguire: visione che invece ha e deve avere un direttore. Ogni idea, che provenga dai musicisti o dal direttore, è assolutamente 9 Contrappunti cover story legittima, ma quella del direttore ha un valore aggiunto: quello della coerenza di un progetto più grande. Il modo migliore per convincere un musicista a suonare diversamente qualcosa che lui intende in un modo differente è dare una giustificazione logica alle proprie idee e in questo modo renderlo in qualche modo consapevole di questa idea complessiva: la sua differente interpretazione non sarà così delegittimata, ma gli sembrerà soltanto meno adatta rispetto al contesto. Non si tratta quindi di imporre: una cosa che, tra l’altro, non funziona mai. Le racconto un episodio avvenuto durante le prove del Pélleas et Mélisande di Gabriel Fauré. L’ultimo movimento inizia con un flauto a cui è affidata una melodia con una dinamica “piano”: per questo “piano” io avevo in mente una sonorità piuttosto presente, quasi vicina al “forte”. E il flautista, a questa proposta, rispose con un “no” secco. A quel punto è intervenuta la parola: ho spiegato perché quella non fosse una musica dolce e morbida: si trattava di una “marcia funebre” e allora il suono del flauto, per me, deve somigliare a quello di una tromba... e lui si convinse immediatamente. Bastarono poche parole in quella occasione, ma furono abbastanza perché spiegavano il perché di una scelta, la ragione che dava coerenza a quel modo di intendere la musica. Quanto è importante, all’interno di un gruppo di persone che lavorano per uno stesso obiettivo, esaltare le doti di ognuno? Alcune partiture richiedono effettivamente ad alcuni musicisti dell’orchestra particolari doti virtuosistiche. Nella tradizione concertistica classica c’è un piccolo cerimoniale alla fine del concerto, durante il momento degli applausi, che è una forma di riconoscimento delle qualità del singolo musicista: il direttore d’orchestra invita quegli esecutori che si sono distinti per bravura ad alzarsi e a ricevere il loro personalissimo applauso. Ha importanza l’affiatamento del gruppo anche lontano dalla sala da concerto? Non credo sia fondamentale. Anzi, credo funzioni esattamente al contrario. Spesso nel momento in cui si fa musica, le differenze e le diffidenze si annullano magicamente. E ci sono esempi molto concreti di orchestre, come quella di Baremboim fatta di musicisti israeliani e palestinesi, che si incontrano in pratica solo in quel caso, e tra l’altro non da amici. Ma è proprio lì, sul palco, che invece nascono delle amicizie: perché la musica ha una capacità coesiva enorme, così come il fatto di lavorare per un progetto comune. Avviene quindi il contrario: ci si può intendere immediatamente con un musicista con cui si suona senza averlo mai incontrato prima, e addirittura senza parlare neppure la sua stessa lingua. I professori d’orchestra hanno bisogno di sapere che chi li guida ha le capacità per farlo. Ma per una volta giriamo le carte in tavola. Quanto è importante per lei che “guida” fidarsi dei musicisti che dirige? La fiducia fra le parti in gioco deve essere assolutamente reciproca e spesso questo si avverte: perché in quel caso c’è voglia di fare, c’è partecipazione, e soprattutto la voglia di collaborare. In caso contrario, con musicisti non collaborativi, può essere davvero difficile, se non impossibile, lavorare. Una cosa che mi diceva Luciano Berio a proposito del rapporto fra orchestra e direttore, e di cui ho fatto tesoro, è che un’orchestra vuole sempre imparare qualcosa da un direttore, e avere l’impressione di migliorare, di aver fatto un passo avanti: è in questo momento che il “gruppo” orchestra riconosce al direttore il suo “ruolo”, quello cioè di colui che li può guidare. E si lascia guidare. Il vero lavoro di un direttore d’orchestra è dietro le quinte, nello studio personale e nelle prove con i musicisti, e dunque deve avere le idee molto chiare su cosa fare e come farlo: un progetto che indichi il risultato da raggiungere e insieme i modi, tempi e le modalità per farlo. Il suo ruolo somiglia a quello di un manager-imprenditore? Ci sono stati e ci sono assolutamente direttori manager: Karajan ad esempio lo era e della Abst Un’orchestra vuole sempre imparare qualcosa da un direttore, e avere l’impressione di migliorare: è in questo momento che il gruppo riconosce al direttore il suo ruolo, quello cioè di colui che li può guidare. E si lascia guidare 10 Contrappunti cover story Photo: Vico Chamla sua orchestra curava tutto, dagli orari delle prove all’immagine e al marketing. Dunque possono esserci dei punti di contatto, ma non si può negare che gli obiettivi finali del direttore e del manager siano decisamente diversi. Concretamente, il manager lavora sui numeri, sui profitti, il direttore su qualcosa di molto meno tangibile e che, credo, abbia poco a che fare con il business. C’è senz’altro un aspetto esteriore a metterli in comune: il direttore è la persona più in vista, durante il concerto è sul podio e senza un minimo di prestigio e di autorevolezza non può svolgere pienamente il suo ruolo di leader. Ma ad avvicinarli di più, forse, c’è quel lavoro molto più raffinato, quasi psicologico, che svolgono nei confronti delle persone con cui collaborano: un’attenzione verso il “fare squadra” necessario in ogni lavoro in cui si ha a che fare con un gruppo che bisogna convincere a mettere a disposizione le proprie competenze per un obiettivo finale comune. Un’orchestra è un luogo in cui ognuno lavora per sé, ma anche per gli altri, per un obiettivo comune, e svolge il suo ruolo mettendo al servizio le sue capacità. Può essere, quello dell’orchestra, un “modello” valido per la collettività, per l’organizzazione sociale? E soprattutto, crede sia attuabile nel mondo del lavoro, come nell’ambito della convivenza civile, o rimane un’utopia? Quello dell’orchestra non è solo un modello validissimo, ma molto di più. Io credo che il livello di civiltà di una società la si misuri persino dal livello delle loro orchestre e dal modo di proporre la musica, che è indispensabile nella società. E il fatto che in Italia la musica sia un po’ latitante non è un buon segno per la nostra società civile. Quello dell’orchestra è un modello assolutamente raggiungibile, ma bisogna volerlo raggiungere e forse, prima di tutto, comprenderlo. In Italia abbiamo poche orchestre ed è curioso e deplorevole che sia così in un Paese con una tradizione musicale invidiata da tutti. Credo inoltre che aumentando le orchestre, facendone nascere in ogni città e in ogni piccolo paese, si possano fare dei passi di avvicinamento concreti verso questo “modello”. La nascita di un’orchestra vuol dire molte cose: più lavoro, più turismo, un pubblico educato alla musica, un risveglio delle coscienze, perché è ciò che la musica sa fare meglio. La nascita di un’orchestra innesca una catena di eventi positivi, sia spiritualmente che materialmente, e dà una qualità culturale a una società, la identifica. Spesso, a questo proposito, si fa l’esempio di Berlino, una città con 8 orchestre e 3 teatri d’opera, e la si racconta come una città di spicco, di grande qualità culturale e civile, ed è assolutamente tutto vero. E i berlinesi ci sono riusciti perché ci hanno creduto, perché hanno lavorato e investito in questo senso. Si tratta dunque di attivarsi e di adoperarsi, comprendendo fino in fondo quanto sia importante questo aspetto della musica per la società, per la coscienza civile che la musica è capace di risvegliare. Qui in Italia domina un assoluto disastro culturale, con delle isole che continuano a combattere e a fare musica ad altissimo livello, ma sono appunto delle oasi. Sostenerle e farne nascere di nuove sarebbe il segno concreto di un cambiamento profondo, di una rinascita musicale e insieme sociale. OP Gruppi che funzionano. Conoscere e gestire le dinamiche di gruppo. C. Cortese, R. Spagnolo Araba Fenice, 2010 11 Contra ppunti Andrea Montefusco
[email protected] CHANGE MANAGEMENT: LA VIA DELL’INCERTEZZA E DELL’INSTABILITÀ tag cambiamento / incertezza / tipping point / progettualità / opportunità Non è facile discutere di un insieme vasto di fenomeni individuali e sociali molto articolati i quali nel mondo dell’impresa sono riassunti con la “coppia” di parole gestione del cambiamento o change management: in così poco spazio non è pensabile portare a compimento un percorso al cui termine si trovino delle chiare indicazioni o norme di comportamento. È però possibile, operando alcune scelte per limitare l’ambito del discorso, indicare alcune possibili chiavi di lettura: starà poi al giudizio del lettore o della lettrice seguirne le suggestioni verso cammini di approfondimento. Il cambiamento non è un fenomeno la cui interpretazione è oggettiva, come la pioggia o la caduta degli oggetti sottoposti alla forza di gravità. Viceversa esso ci presenta non solo la complessità del riconoscerlo, ma quella ancora maggiore dell’interpretarlo in relazione alla vita individuale, organizzativa e dell’impresa. E se da un lato l’enorme sviluppo delle telecomunicazioni ci rifornisce di dati e informazioni sui fenomeni economici e sociali in tempo reale, dall’altro accresce la difficoltà di rispondere a due domande apparentemente semplici: quali fenomeni, tra i centinaia che ogni momento incontriamo, presentano la coppia di caratteristiche di a) essere davvero cambiamenti rispetto ad un qualche paradigma e b) meritare l’attenzione nostra e della nostra impresa? Cercheremo, in queste poche righe, di identificare qualche “chiave” per migliorare la nostra abilità a rispondere a queste due domande. Nel farlo cercheremo di considerare i due piani principali del cambiamento: la decisione di intraprendere un movimento, lasciando lo stato di “equilibrio” dell’impresa e successivamente, l’azione di cambiamento, in cui occorre gestire la trasformazione dei sistemi operativi. La prima chiave per intercettare cambiamenti “veri” è cercare l’incertezza: dove tutto è prevedibile, anche se molto dinamico, raramente si stanno generando delle rotture dei “credo” fondamentali. Solo per esemplificare, occorre esplorare i mercati incerti e turbolenti, i modelli imprenditoriali immaturi e i cui risultati non sono scontati, le sperimentazioni organizzative e le relazioni con i clienti piene di difficoltà, come occorre guardare le Andrea Montefusco Ph.D., SDA Professor di Organizzazione e Personale & Senior Researcher del CROMA, Università Bocconi Abst Occorre non solo accettare l’incertezza, ma comprendere che è proprio essa che permette il cambiamento “vero”: anche se il disegno di una nave è perfetto, il piano di progetto è ben scritto, i costruttori non avranno, inizialmente, davanti ai loro occhi la nave 12 Contrappunti esatte”, le biforcazioni improvvise dei comportamenti dei sistemi economici e sociali sono le più interessanti, come ben descritto dal celebre libro di Gladwell “The Tipping Point”. Ri-conoscere un cambiamento “esterno” è il primo passo. Il secondo è facilmente rappresentabile con il verbo anglosassone ricco di significato to deal, che significa avere a che fare con situazioni complesse. È infatti questo il momento in cui occorre per prima cosa costruire una rappresentazione concreta del futuro possibile per noi e la nostra impresa, successivamente trasformarlo in realtà operativa. “news” dei quotidiani internazionali di ogni continente, cercando di “leggere” le situazioni instabili. Perché meritino la nostra attenzione dovranno avere una caratteristica comune: qualche cosa che per la cultura e gli obiettivi della nostra impresa, con le nostre chiavi di lettura, emerga prepotentemente come valore, accompagnato però da valli di problemi irrisolti: non siamo interessati a scoprire ciò che tutti hanno già scoperto e funziona già. Ma, caratteristica ancora più importante, questi fenomeni dovranno essere dominati dall’effetto valanga: solo così, una volta identificati i punti di attivazione, grazie alle risorse finite e limitate di cui ogni impresa, anche la più ricca e di successo, può disporre, saremo in grado di liberare una grande “energia” economica. Ben studiati, sfruttati e temuti da matematici, fisici ed ingegneri nel mondo delle “scienze Questo doppio passo non è attuabile senza una drastica rottura degli equilibri individuali e collettivi dell’impresa: da un lato occorre aiutare le persone a muovere verso un territorio incerto; dall’altro si deve riconoscere che questa situazione genera una forte ansia. Occorre fornire agli “attori” un sopporto concreto aiutandoli alla progressiva ricostruzione di rappresentazioni reali, specifiche della loro futura vita operativa nel nuovo scenario. Ancora una volta, occorre non solo accettare l’incertezza, ma comprendere che è proprio essa che permette il cambiamento “vero”: anche se il disegno di una nave è perfetto, il piano di progetto è ben scritto, i costruttori non avranno, inizialmente, davanti ai loro occhi la nave. Ognuno di loro, con una discreta ansia - che è una delle motivazioni al raggiungimento degli obiettivi nel lavoro “per progetti” - progressivamente contribuirà al risultato, trasformando la sua parte di piano, grazie al lavoro cooperativo, in oggetti tangibili, sino a che la nave sarà non solo un oggetto fisico statico, ma “avrà vita”. Così nel cambiamento, con in più la complessità che una parte del progetto riguarda i comportamenti: come nel famoso quadro di Escher in cui le mani si disegnano reciprocamente, in un cambiamento organizzativo gli “attori” coinvolti devono riuscire a rappresentarsi la loro immagine al lavoro nel nuovo modello organizzativo, le nuove relazioni con i colleghi, con i clienti. Gavetti e Rivkin hanno affermato in un loro recente studio che il successo strategico non consiste nella perfetta analisi del mercato, né nella sua trasformazione in un perfetto modello di business. È invece la capacità del management - o meglio dire della leadership - di un’impresa a fare incontrare nei tempi giusti le opportunità del mercato con le potenzialità tecniche, umane e sociali dell’impresa. D’altra parte, il mercato “batte” quello che i greci chiamavano kronos: esso passa inesorabile ed è poco influenzabile dalla leadership dell’impresa. Essa però può influenzare il kairòs dei greci, che i latini traducevano con opportunitas: Gavetti e Rivkin ci esortano a leggere le incertezze non come vuoti disperanti, ma come spazi da riempire, mentre Gladwell ci ricorda che i grandi risultati si ottengono cercando l’instabilità dei tipping point. La progettualità e il metodo guideranno l’organizzazione, attraverso questa coppia di paradossi, sino agli obiettivi. OP Change Management Montefusco, A. EGEA, 2011 13 hr ? allo specchio Serena Scarpello* PERSONE CHE FANNO L’IMPRESA tag crescita / valorizzazione / carriera / dialogo / diversità Oggi più che mai i lavoratori sentono il bisogno di sentirsi protetti, apprezzati, seguiti dall’azienda per cui lavorano. Vogliono sentirsi indispensabili. In un momento come quello attuale fatto di riforme che parlano di licenziamenti, di numeri sulla disoccupazione preoccupanti, di crisi dilagante e di indignados che occupano le piazze, i lavoratori vogliono certezze. Non solo la certezza di un futuro per i loro figli, ma anche quella di un presente per loro stessi. Sono pronti a fare sacrifici e a rimboccarsi le maniche ma devono sapere che l’azienda per cui lo fanno li ricambierà. Come? Secondo Gianluca Ventura, Direttore Human Resources & Organization di Vodafone Italia, con una politica di gestione efficiente “basata sulla valorizzazione dei contributi sia dei team di lavoro che dei singoli individui”. Vodafone Italia, che da sempre pone al centro del proprio modello di business il rapporto diretto con il cliente, “riconosce culturalmente il valore del contributo individuale, e per questo attua politiche di gestione basate sul merito”. Ventura sottolinea come questa, unita ad una cultura orientata al cliente, alla semplicità nel modus operandi e all’attenzione all’efficienza operativa “sia la base della nostra politica anche in tempi di crisi”. “Le persone hanno un ruolo determinante in quella che noi chiamiamo la shopping experience, fatta di qualità del prodotto e del servizio” dice Alessandro Preda - Group Chief HR & Organization Officer del Gruppo Autogrill. “Autogrill è un’azienda di persone al servizio delle persone. Persone che costituiscono il primo collegamento del viaggiatore con il territorio che attraversano, in quanto Abst La crisi economica attuale si inserisce in un più ampio periodo ventennale di declino economico del mondo occidentale. Quello a cui dobbiamo puntare non è tanto una carriera in verticale, ma ad una carriera di soddisfazione più ampia che prenda in considerazione aspetti come la crescita della risorsa tutta la nostra rete, nazionale ed internazionale, è animata anche da personale selezionato in loco. I nostri collaboratori sono inoltre i primi propulsori dell’innovazione, rappresentativi della cultura di un’azienda che è per sua natura fortemente integrata nel tessuto sociale ed economico dei paesi e delle regioni in cui opera”. Ci sono poi realtà che hanno come unico asset proprio le persone. Per esempio KPMG Advisory, come racconta Alberto Ascoli, Direttore del Personale: “il nostro modello è basato esclusivamente sulla crescita, valorizzazione e carriera delle nostre risorse. Quello che noi forniamo sono servizi e i servizi sono sostanzialmente le competenze dei nostri consulenti che noi vendiamo ai nostri clienti”. * Giornalista Class CNBC 14 h ?r hr allo specchio ricetta anticrisi aggiunge “politiche atte a rendere migliore la vita di tutte le persone anche in senso molto pratico, con tutta una serie di benefit che vanno dall’auto aziendale, alle assicurazioni, ai fondi integrativi previdenziali, ai buoni pasto... insomma, tutti quegli strumenti che la società è in grado di fornire in condizioni molto più vantaggiose rispetto a quelle che il dipendente potrebbe strappare privatamente”. Un buon sistema welfare è la risposta di Ascoli alla crisi, per un equilibrio sempre maggiore tra vita lavorativa e privata. Per Preda la risposta a questa esigenza è la flessibilità che si traduce “in primo luogo nella possibilità di gestire gli orari di lavoro in modo elastico, ma anche nel bilanciamento delle risorse, in maniera trasversale, tra i vari siti produttivi. È questo un elemento tipico del nostro modello di business che per sua natura è legato ai diversi flussi di traffico”. Ma cosa chiedono concretamente i lavoratori? Per esempio le principali richieste dei dipendenti di Vodafone Italia sono “l’equità di trattamento, l’investimento professionale, la facilità di accesso all’informazione e la possibilità di esprimere la propria opinione”. “Nelle nostre rilevazioni interne - continua Ventura - i temi della semplificazione, della non discriminazione, della collaborazione e dello sviluppo professionale sono sempre attuali. La Direzione delle risorse umane deve lavorare su questi argomenti ogni giorno e fare in modo che diventino un pilastro nella gestione delle risorse. Tutti i manager sono infatti valutati anche dai collaboratori diretti, proprio su questi temi”. “La sicurezza del posto di lavoro e la stabilità continuano ad essere le principali aspettative dei collaboratori” afferma Preda “Ma ancora più importanti diventano la formazione, il coinvolgimento nei processi decisionali e un’organizzazione lineare”. Oggi più che mai le persone, soprattutto i più giovani, chiedono la possibilità di dialogare maggiormente all’interno delle organizzazioni. “Un’organizzazione aperta, quindi, sulla base di modelli provenienti dalla rete che oggi sempre di più si impongono nel tessuto sociale”. Secondo Ascoli oggi le persone hanno “sempre più aspettative di crescita non solo professionale ma anche umana, oltre a un riconoscimento delle loro esigenze fuori del lavoro. Le persone oggi sono sempre più attente a una vita equilibrata e la figura del lavoratore stacanovista classico è uscita di scena. Questo non vuol dire che non chiediamo tantissimo ma la nostra è una richiesta più di tipo qualitativo che quantitativo”. La qualità è la vera ricchezza di oggi, la linfa vitale dell’Italia e dei suoi prodotti, dei suoi servizi, delle sue persone. In tempi come questi però non sempre è facile continuare ad alimentare il serbatoio di talenti e tenersi stretti gli alti potenziali. “Il tema dei talenti è strettamente legato al tema del merito” spiega Ventura “e ogni anno la Direzione risorse umane condivide con i manager obiettivi specifici di sviluppo professionale delle persone più meritevoli. In una struttura con dimensioni stabili come la nostra, ciò implica anche scelte difficili per creare più opportunità di crescita per chi lo merita. Ci confrontiamo inoltre costantemente con il mercato esterno, per assicurarci di non diventare un modello chiuso”. Ogni anno Vodafone Italia lancia sul mercato esterno 2-3 processi di “scouting” suddivisi in specifiche Il trucco per Ascoli sta nel prendere le risorse molto giovani per poi farle crescere, formarle, motivarle, valorizzarle “e alla fine vendere ai nostri clienti queste competenze che abbiamo formato all’interno”. Crescita, valorizzazione e carriera sono le tre parole chiave per gestire il capitale umano di un’azienda, gli elementi essenziali per rimettere in moto l’economia di un Paese come l’Italia ormai fermo da tempo. “La crisi economica attuale si inserisce in un più ampio periodo ventennale di declino economico del mondo occidentale. Quello a cui dobbiamo puntare non è tanto una carriera in verticale, ma a una carriera di soddisfazione più ampia che prenda in considerazione aspetti come la crescita della risorsa”. È quanto afferma Ascoli, che alla 15 hr allo specchio i protagonisti aree di competenza: “quando troviamo un candidato che ci interessa, lavoriamo per offrirgli un’opportunità, partiamo dalla persona e non dalla posizione da riempire. Questo approccio, insieme a un ambiente di lavoro piacevole e professionalizzante, sono le migliori armi per trattenere i nostri talenti”. Il primo step per poter mettere in contatto Autogrill con i potenziali giovani talenti è “lo stage curriculare: sulla rete fondamentale diventa l’esperienza sul campo, supportata da un’attività di formazione dedicata ai futuri allievi manager. I profili a più alto potenziale avranno poi la possibilità di essere inseriti all’interno di un contesto lavorativo dinamico e di intraprendere percorsi di crescita”. Secondo Preda quindi la formazione rappresenta la leva principale per lo sviluppo delle persone e “per questo abbiamo avviato piani formativi ad hoc, sia specialistici che manageriali, e percorsi di carriera verticali e orizzontali. Prestiamo inoltre particolare attenzione a percorsi di carriera e/o progettuali internazionali, orientati alla crescita professionale in un contesto multiculturale che riflette la dimensione di un Gruppo presente in 35 Paesi del mondo”. Per Ascoli si tratta soprattutto di una “questione di presenza: noi dobbiamo essere presenti negli ambienti dove i talenti e i giovani si muovono”. Ambienti soprattutto virtuali, ma anche reali: quello delle migliori università e dei migliori master. “Ogni anno stiliamo la classifica dei master che ci hanno fornito le persone migliori l’anno precedente, ed è quello su cui investiamo”. In termini virtuali invece KPMG Advisory “tiene presenti i network di maggior successo, i più frequentati dai cosiddetti migliori: LinkedIn, ma anche Facebook che è una piazza che si sta orientando sempre di più verso l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro”. Resta poi fondamentale “coccolare gli alti potenziali il più possibile monitorando le loro esigenze: una volta ogni due anni facciamo un’analisi del clima e chiediamo a tutti quale è il modo migliore per rispondere al loro livelli di soddisfazione e quali sono le loro idee per migliorare la loro prestazione”. Tutto questo le aziende possono farlo solo se dotate di una struttura semplice nonostante la complessità dei loro numeri e delle loro dimensioni. Per Ventura “lavorare sui temi della semplificazione e della diversità è una sfida quotidiana. È fondamentale, innanzitutto, misurare i risultati dell’azienda in questi ambiti”. Vodafone Italia lavora costantemente sulla semplicità: “ri-disegnando i processi e misurando indicatori quali il time to market dei prodotti, chiedendo ai colleghi di segnalare eventuali attività ritenute inefficienti. Il tema della semplicità è inoltre oggetto di alcuni nostri corsi di formazione. I manager in azienda ricevono obiettivi di semplificazione dei processi e vengono valutati sulla loro capacità di semplificare”. Secondo Preda “efficienza e professionalità sono la base da cui partire per favorire lo sviluppo del business”. Per poter ottenere benefici concreti, la semplificazione dei processi e delle strutture organizzative “deve necessariamente accompagnarsi a un cambiamento della cultura aziendale, da favorire attraverso programmi mirati”. La formazione a monte è la risposta per Ascoli: “da noi viene fatto un investimento molto forte nelle persone all’inizio per attivare poi un progetto di delega cosi tutti possono raggiungere un’autonomia molto ampia in breve tempo”. KPMG Advisory investe molto anche sulle donne che, come dice Ascoli “sono quelle che ottengono i risultati migliori. La società ha sempre assunto uomini e donne, ma poi le donne a un certo punto della loro carriera si perdevano. Per questo da qualche anno abbiamo una politica atta a valorizzare le quote rosa, predisponendo tra le altre cose asili nido, e facilitando lo spostamento casa-ufficio”. Secondo Ascoli “si tratta di un trend non invertibile… è una questione di maturazione della società che ha ormai il dovere di facilitare il loro doppio ruolo di madri e lavoratrici”. Per affrontare il tema della diversità Vodafone Italia adotta un approccio simile a quello utilizzato per la semplificazione: misurazione, feedback, formazione, obiettivi. “Per ora ci concentriamo sulla diversità di genere e di nazionalità, ma siamo solo all’inizio”. Un capitolo a parte è quello della distanza. Per una società di telecomunicazioni come Vodafone Italia, questo elemento è centrale. Ventura spiega come l’azienda utilizzi moltissimo gli strumenti di comunicazione a distanza: video conference, instant messaging, sistemi di condivisione di file e blog interni. “Abbiamo un filone di lavoro che guarda al way OP Hr in, hr out? Organizzazione, performance ed innovazione nella gestione delle risorse umane P. Sparrow Franco Angeli, 2011 16 hr allo specchio gruppo autogrill Autogrill è il primo operatore al mondo nei servizi di ristorazione e retail per chi viaggia. Quotata alla Borsa di Milano, è controllata da Edizione S.r.l., finanziaria della famiglia Benetton, con il 59,3% del capitale sociale. Presente in 35 Paesi con circa 62.500 collaboratori, gestisce più di 5.300 punti vendita in oltre 1.200 location. Il Gruppo è attivo in due settori: Food & Beverage e Travel Retail & Duty-Free. La Società gestisce, direttamente o in licenza, un portafoglio di oltre 350 marchi. Alessandro Preda è Group Chief HR & Organization Officer di Autogrill. Ha maturato una significativa esperienza come Partner nelle principali società di consulenza. Nel 2007 entra a far parte di Autogrill come Organization & Change Management Director. Da gennaio 2009 si occupa di Risorse Umane, Organizzazione e ICT, coordinando i team di risorse umane e ICT per le società del Gruppo. È attualmente impegnato nei principali progetti di integrazione e razionalizzazione della struttura organizzativa del Gruppo. Alessandro Preda kpMg advisorY KPMG Advisory, società di consulenza direzionale del network KPMG, con circa 1200 professionisti e 5 sedi principali, ha registrato negli ultimi anni una crescita costante in termini di ricavi, nuovi clienti ed offerta di servizi. La società è partner nei processi di miglioramento delle imprese, secondo un approccio “end to end” che si traduce in una gamma completa di servizi sia per il mondo del “financial advisory” sia per quello del “management consulting” classico. Alberto Ascoli, laurea in Economia Aziendale, è dal 2002 Direttore Risorse Umane di KPMG Advisory Italia. Fin dall’inizio della sua carriera lavora nella funzione risorse umane, dapprima in Rizzoli e in Philip Morris nella Selezione e Formazione e in seguito come Responsabile Risorse Umane di British Airways e Andersen. Alberto Ascoli vodafone italia Vodafone Italia fa parte del Gruppo Vodafone, uno dei maggiori gruppi di comunicazioni mobili al mondo, con circa 382 milioni di clienti. Il Gruppo Vodafone è presente in 30 Paesi e in altri 40 con accordi di Network Partnership. L’azienda ha circa 8000 dipendenti, 8 Competence Center distribuiti sull’intero territorio nazionale e più di 7.000 punti vendita. Dal 1995, anno della nascita con il nome Omnitel, l’azienda si è sempre distinta per l’approccio innovativo, per i servizi al cliente e per la comunicazione. Gianluca Ventura è il Direttore delle Risorse Umane e Organizzazione di Vodafone Italia da luglio 2008. Ventura è entrato in Vodafone nel 2003 come responsabile del personale della Direzione Tecnologie. Nel luglio 2006 ha assunto la carica di Direttore del Personale per la Divisione Tecnologie di tutto il Gruppo Vodafone. In precedenza ha ricoperto analoghi incarichi in L’Oreal e Bestfoods. Gianluca Ventura of working sia dal punto di vista degli strumenti, che delle politiche di gestione, come nel caso del lavoro da remote working”. La diversità rappresenta un valore, uno degli elementi chiave di successo e di innovazione per un business, come quello di Autogrill, strettamente legato al contesto socio culturale del Paese in cui opera. Preda racconta che “in alcuni casi i dipendenti stranieri sono stati catalizzatori dello sviluppo, come per esempio dipendenti polacchi o cechi che hanno supportato lo start up delle attività nei loro Paesi di origine”. Significative sono poi le iniziative che Autogrill ha avviato nel corso degli anni a sostegno della multiculturalità tra cui “welcome package multilingua per le pari opportunità religiose ed etniche, per esempio in Spagna con la sostituzione del personale di religione musulmana durante il periodo del Ramadam e la possibilità di richiedere un mese di ferie senza interruzioni per tornare nella terra di origine”. Ma diversity non è solo multiculturalità. “Importanti anche i programmi volti a favorire la conciliazione della vita privata con quella lavorativa come orari di lavoro flessibili, programmi per la maternità differenziati per Paese, servizi legati alla vita quotidiana e progetti per la salute, il benessere, lo sport e il tempo libero”. 17 società& territori Maria Verdini DOVE IL LAVORO NON CONOSCE CRISI tag lavoro / donne e giovani / flexibility / opportunità di crescita / carriera È una delle più grandi multinazionali presenti, da anni, in Italia con oltre 600mila clienti al giorno e un fatturato, su scala mondiale, che sfiora i 25 miliardi di dollari. E anche uno degli esempi più interessanti di successo costruito sul tema della diversità, a cominciare dal primo programma aziendale (ribattezzato McJob) che la società lanciò nel 1984, un anno prima dello sbarco in Italia, finalizzato al sostegno di persone fisicamente e mentalmente disabili, attraverso lo sviluppo della propria autostima negli ambienti di lavori dei ristoranti. Oggi il gruppo americano di Oak Brook (Chicago) è uno dei maggiori datori di lavoro. “Nel nostro paese - spiega Stefano Dedola, responsabile delle Risorse Umane - lavorano oggi 15.000 persone, quest’anno abbiamo creato 1.000 nuovi posti di lavoro. Nascono in parte dall’apertura di nuovi ristoranti, in parte perché le strutture esistenti si ingrandiscono, aumentando il volume d’affari e quindi la necessità di nuove risorse”. Qual è l’identikit del vostro dipendente? Mediamente le persone che lavorano con noi sono donne (nel 60% dei casi), di nazionalità italiana (80%), anche se - soprattutto nel nord Italia - vediamo una forte presenza di lavoratori extracomunitari. Nella maggioranza dei casi (75%) i nostri dipendenti lavorano in modalità part time. Non dimentichiamoci che sono anche molto giovani, dal momento che otto persone su dieci hanno meno di 35 anni. Cosa succede ai vostri dipendenti nel momento in cui mettono piede in uno dei vostri ristoranti? Fin dal momento dell’assunzione la prima mansione prevede un percorso di formazione per apprendere i processi in tutte le principali postazioni all’interno del ristorante, dalla cucina alla cassa. Dopodiché è possibile crescere all’interno della gerarchia verso posizioni di management. E quindi affrontare una serie di corsi specifici per assumere responsabilità sempre maggiori, fino a diventare Store Manager. Da un paio d’anni abbiamo creato un master dedicato proprio agli Store Manager in collaborazione con l’Università di Parma. Ma non dimentichiamoci della possibilità di frequentare la Hamburger University di Chicago negli Stati Uniti (che dal 1961, anno di nascita, ha formato circa 80.000 manager). Stefano Dedola Responsabile Risorse Umane di McDonald’s talia Abst Sappiamo che la nostra offerta di lavoro, soprattutto per gli orari part time, viene incontro a un certo tipo di persone: penso ai giovani e alle donne, le categorie più vulnerabili in questo periodo di crisi 18 società& territori Come si entra in contatto con McDonald’s? È molto semplice, per entrare in McDonald’s basta candidarsi sul nostro sito www.mcdonalds. it, dove esiste la sezione “Lavora con noi”. Qui è possibile esprimere una preferenza dell’area e della zona d’Italia in cui si è disposti a lavorare. Abbiamo 420 ristoranti su tutto il territorio e molto facilmente possiamo venire incontro a tutte le esigenze. A lungo McDonald’s ha dovuto contrastare l’immagine di un luogo di lavoro difficile, sottopagato e poco incoraggiante per i dipendenti. Negli ultimi anni l’immagine è cambiata. Ed ha fatto molto discutere un libro-inchiesta uscito di recente (McJob, il lavoro da McDonald’s Italia, Rubettino 2011) in cui siete indicati come esempio positivo di una cultura ispirata “alla stabilità, alla meritocrazia e alla sana flessibilità”. McDonald’s rappresenta il simbolo della globalizzazione e spesso questo ha creato pregiudizi presso alcune persone. Mi fa piacere che lei citi questo volume, voglio chiarire che è stato scritto da un giornalista indipendente, né commissionato, né ispirato da noi. All’inizio anzi lo stesso autore aveva molti pregiudizi, conoscendoci ha scoperto una realtà diversa e molto interessante. Questo è quello che chiediamo a tutti i nostri interlocutori: di conoscerci meglio e di vedere da vicino come si lavora all’interno dei nostri ristoranti. Quali sono i valori principali che cercate di diffondere fra i vostri 15.000 dipendenti? Innanzi tutto cerchiamo di creare all’interno di ogni locale un ambiente estremamente amichevole in cui sia possibile divertirsi anche lavorando, diamo un alto livello di flexibility, la possibilità di girare su tutte le postazioni all’interno del ristorante e quindi imparare molte cose. Senza sottovalutare il fatto che il nostro regime orario è spesso part time, questo consente ai nostri dipendenti di coniugare impegni personali, di famiglia, di studio. Un altro valore fondamentale è che noi offriamo costantemente opportunità di crescita. È molto importante per le persone che hanno voglia e interesse ad allargare le loro competenze offrire spazi di carriera all’interno del gruppo. È difficile trovare le persone giuste in questa fase di mercato? Sinceramente non abbiamo grandi difficoltà, abbiamo molte persone che tutti i giorni ci chiedono di lavorare con noi e ne siamo molto lieti. Sappiamo che la nostra offerta viene incontro a un certo tipo di persone, penso ai giovani e alle donne. In questo periodo di crisi economica queste due categorie si scoprono molto vulnerabili e quindi ci fa particolarmente piacere essere una delle poche aziende che nel mondo della ristorazione offre questo tipo di opportunità. OP McJob, il lavoro da McDonald’s Italia F. Di Nardo Rubbettino, 2011 19 società& territori Silvia Bordiga LAVORARE NELLA COMPLESSITÀ: COSA CHIEDONO LE PERSONE ALLE AZIENDE tag comunicazione / valorizzazione / responsabilità / coaching / formazione Abst Progetti e nuove responsabilità per far emergere capacità e competenze rimaste sottotono, momenti di coaching con personale interno. Avere buoni maestri, persone che capiscano il potenziale di ognuno è fondamentale, libera energie assopite e porta dei risultati “Le aziende grandi hanno tanti problemi, devono gestire una complessità enorme, non si possono certo occupare dei nuovi arrivati”. È un misto di comprensione, delusione, rassegnazione e consapevolezza quella che esprime l’intervistata più giovane: inizia così la conversazione con i tre lavoratori che ci hanno raccontato quali sono i loro desiderata, di che cosa avrebbero bisogno per poter esprimere al meglio il loro potenziale sul lavoro. Potenziale di cui un’organizzazione complessa ha bisogno: qual è, prima di tutto, la loro percezione al riguardo rispetto all’azienda in cui operano? “Si avverte un grosso sforzo nel divulgare le informazioni” riconosce Susanna, 40 anni, da dieci anni in una multinazionale. “Il management visita periodicamente tutte le sedi e, oltre a condividere i risultati, vengono organizzati gruppi di lavoro dove tutti possono esprimere le proprie idee”. Tra le altre iniziative che l’azienda attiva per dare valore alle persone - elenca Susanna - ci sono le survey sul clima aziendale e le ricerche di lavoro interne, anche internazionali. Entrata quindici anni fa nel mondo del lavoro, Susanna ha avuto inizialmente un contratto flessibile ma, come era frequente, pochi mesi dopo è arrivata l’assunzione definitiva e l’evoluzione di carriera. Diverso il caso degli altri due giovani della Generazione Y, entrambi nella fascia di neolaureati che si sta inserendo nel mondo del lavoro negli ultimi anni. In questi due casi il periodo di ingresso è durato sicuramente di più, ma ora sono comunque entrambi stabili in azienda. È qui tuttavia che è più evidente quanto - in due situazioni che possono sembrare molto simili - ci sia un vero e proprio abisso tra azienda e azienda, parlando di potenziale e talenti. Andrea, 28 anni, laurea breve in Ingegneria Meccanica, da poco è stabile in una grande azienda manifatturiera dove lavora come operaio. Per lui “la valorizzazione delle persone dipende molto dai singoli capireparto, ma non è lasciata al caso, anzi l’azienda proprio recentemente è intervenuta per fare spostamenti e ha messo nei posti di coordinamento le 20 società& territori persone più adatte a gestire le altre persone”. In altre realtà la valorizzazione non può dipendere solo dal singolo. Anita, 27 anni, laurea in Economia e Commercio, negli ultimi anni ha alternato periodi di stage a contratti a tempo determinato, fino a quando è stata assunta con un contratto di apprendistato, una maggiore stabilità che le ha permesso di pianificare progetti nella città in cui vive ma che non la fa comunque sentire un talento. “L’azienda ha dato a me e ad altre persone una grande opportunità. Oggi abbiamo un contratto che ci dà molte garanzie, però se parliamo di talento, penso che oggi conti molto poco” dichiara Anita. “Bisogna solo applicarsi e avere pazienza. Siamo un po’ carne da macello, ma è il sistema che è organizzato in questo modo, io lavoro nel customer care e in questo tipo di servizio spesso è difficile creare percorsi di carriera, occasioni di formazione, job rotation o altri strumenti per valorizzare le persone”. Cosa desiderano i lavoratori, cosa possono fare quindi le aziende per far sì che esprimano al meglio il proprio potenziale? “Progetti e nuove responsabilità - suggerisce Susanna - per far emergere capacità e competenze rimaste sottotono, e questo è utile non solo al singolo ma a tutta l’azienda. Inoltre chiederei maggiore elasticità di orario e di sedi, e la possibilità quindi di conciliare meglio lavoro e vita familiare - e conclude - oltre a momenti di coaching con personale interno. Avere buoni maestri, persone che capiscano il potenziale di ognuno è fondamentale, libera energie assopite e porta dei risultati”. Andrea non ha dubbi su come liberare le proprie energie: ha chiesto di poter imparare sempre di più, e l’azienda gliel’ha permesso e ha incentivato la sua crescita. Da parte sua evidenzia di aver iniziato con mansioni in produzione, ma senza perdere di vista i suoi obiettivi di crescita e di poter mettere a frutto le sue competenze da laureato. Obiettivi che Anita non vede realizzabili nel breve periodo. Ha le idee chiare su cosa chiederebbe all’azienda, pur restando nella posizione di customer care con cui è entrata: “che ci sia la possibilità, anche per i nuovi arrivati, di poter ambire a premi sui risultati, variare l’operatività, fare corsi di formazione, magari di lingua straniera. E dare l’opportunità, ogni tanto, ai più meritevoli, di fare il ‘salto’, passare dall’assistenza e vendita telefonica ad un ufficio di back office”. Senza accantonare del tutto i sogni di carriera “magari internazionale, per sfidarsi in un nuovo mercato, conoscere una realtà diversa e fare un’esperienza stimolante”. Giovani con i piedi per terra, ma che non hanno perso la voglia di mettersi in gioco e di crescere professionalmente. In un certo senso sono già stati premiati per il loro merito, come ha capito Andrea: “l’importante è entrare in azienda, poi da lì in poi è tutto aperto”. Purché sia veramente tutto aperto, è il pensiero implicito di tutte le persone intervistate, perché nella staticità e nella rigidità dei ruoli è molto difficile trovare ogni giorno quella motivazione e quell’entusiasmo per liberare il proprio pensiero a favore dell’azienda, qualsiasi sia la posizione occupata. OP Complessità organizzativa e risorse umane. Prospettive interpretative e strumenti operativi F. Bochicchio; T. Di Sabato Libellula edizioni, 2011 21 Contro tendenze Pier Carlo Maruzzi UN’ITALIA PER GIOVANI? È ANCORA POSSIBILE tag coraggio / leadership / crescita / produttività / equità generazionale “L’Italia non è un Paese per giovani”. Così esordiva pochi giorni dopo il suo insediamento, lo scorso aprile, Jacopo Morelli, annunciando e indicando la direzione lungo cui si sarebbe incamminata la sua presidenza. Nell’ultimo convegno di Capri, il primo che ha visto l’assenza sul palco dei politici, volutamente esclusi dai giovani imprenditori (“inerti”), Morelli ha voluto chiarire che l’emergenza giovanile rappresenta uno dei più gravi ritardi del nostro Paese e, probabilmente, la più pericolosa omissione da parte della politica. “Nel nostro primo incontro di Santa Margherita Ligure - ha spiegato - avevamo presentato una serie di proposte, alcune delle quali insistevano direttamente sul mondo giovanile: la riduzione delle aliquote fiscali per i giovani e le donne e l’abbassamento del cuneo contributivo per chi entra nel mercato del lavoro. Non abbiamo ricevuto risposte. E non sono soltanto i Giovani Imprenditori ad attenderle ma l’intero Paese, per ricominciare a crescere. È un obiettivo che si raggiunge con l’azione, non con la retorica o i continui dibattiti. È questa la scelta: tra interesse generale o piccoli particolari, tra sviluppo o declino. Serve il coraggio di decisioni delle quali beneficeranno solo le prossime generazioni. Vedere ciò che è giusto e non farlo è mancanza di coraggio e di leadership”. La crisi ha colpito soprattutto i giovani negli ultimi quattro anni: il loro reddito disponibile è diminuito, dal 2007 al 2010, di circa il 6%, contro l’1,5% per la media degli italiani. L’Istat ha parlato di almeno due milioni di ragazzi in panchina. Morelli indica un dato, che fotografa - più di mille parole - la situazione Jacopo Morelli Presidente dei Giovani Imprenditori Confindustria Abst È necessario comprendere che la crescita sarà guidata soprattutto dai giovani, da chi lavora e dalle imprese. Giovani che devono essere preparati, perché la produttività aumenta, di molto, all’innalzarsi dell’istruzione 22 contro tendenze di disagio dei giovani italiani. Il dato è il 27% e rappresenta l’attuale tasso di disoccupazione (con punte che si avvicinano al 40% in alcune province del Sud Italia). “Ciò che è necessario è, innanzitutto, comprendere che la crescita sarà guidata soprattutto dai giovani, da chi lavora e dalle imprese”, aggiunge Morelli. “Giovani che devono essere preparati, perché la produttività aumenta, di molto, all’innalzarsi dell’istruzione. Lo dimostrano l’evidenza empirica e recenti analisi della Banca d’Italia: il capitale umano e la sua attitudine a ridisegnare i sistemi produttivi delle economie avanzate rivestono un ruolo strategico nel dominio tecnologico e nell’affrontare, sui mercati internazionali, i Paesi emergenti”. Recentemente è stato lo stesso governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ad avvertire le istituzioni e il mondo dell’economia che, senza giovani, l’Italia rischia la deriva. “La crescita economica - ha ammonito Draghi - non può fare a meno dei giovani, né i giovani della crescita. È proprio guardando alle nuove generazioni che occorre uscire dalla stagnazione, riavviando lo sviluppo con misure strutturali: è una priorità assoluta”. Secondo l’ex governatore della Banca d’Italia oggi “si stanno sprecando risorse preziose, stiamo mettendo a repentaglio non solo il loro futuro, ma quello del Paese intero”. Parole a cui hanno fatto riscontro - con una forma e un tono simili - quelle del presidente delle Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui “senza nuove possibilità di occupazione e di vita dignitosa per i giovani, senza nuove opportunità di affermazione sociale, la partita del futuro è persa non solo per loro, ma per tutti, per l’Italia: ed è in scacco la democrazia”. Per uscire dalla retorica e confermare la dimensione pragmatica della sua presidenza, Morelli ha rinnovato l’impegno con alcuni progetti, a cominciare da quello che è stato ribattezzato il “principio dell’equità generazionale”. “Innanzi tutto avere un sistema fiscale che incentivi ad investire in nuove imprese. Perché chi finanzia una start-up e chi specula in un hedge-fund devono pagare le stesse tasse? Perché un’azienda neonata ha stessa Irap e tributi di una matura? Le nuove imprese sono, fra l’altro, quelle che possono incorporare il più alto potenziale innovativo. Rimuovere i vincoli, le restrizioni e le segmentazioni del mercato del lavoro, costruire un favorevole contesto per l’attività imprenditoriale. Promuovere una maggiore formazione e una alternanza scuola-lavoro. Come si è iniziato a fare con la legge sull’apprendistato. Una legge che consideriamo buona”. Secondo il presidente dei Giovani Imprenditori “non è possibile che le nostre scelte finiscano per ipotecare il diritto di chi verrà dopo di farne altre, magari diverse”. “La nostra Costituzione - prosegue - non dedica disposizioni specifiche ai giovani, alla partecipazione di questi alla vita sociale, economica e culturale del Paese. Certamente era implicito per i costituenti. Proponiamo, allora, di inserire, nella Carta fondante la Repubblica, il principio dell’equità generazionale. Equità generazionale significa che è un preciso dovere il rispetto per chi nascerà dopo di noi, dal preservare il patrimonio culturale del passato a difendere quello ambientale, a creare, e non solo consumare, fonti di energia, a trasmettere competenze, non debiti, ma ricchezza. La terra non la ereditiamo dai nostri padri, la prendiamo a prestito dai nostri figli”. OP Non è un paese per bamboccioni. Storie di giovani italiani che ce l’hanno fatta, nonostante tutto A. Sestito, M. Fini Cairo Publishing, 2010 23 Contro tendenze Antonella Guidotti ALLA GUIDA DI UNA GIUSTA CAUSA tag obiettivi condivisi / squadra / talento / meritocrazia / senso di appartenenza “Offrire da bere a chi ha veramente sete”. Dietro progetti dalla gestione complessa e articolata si celano spesso gli obiettivi più semplici e diretti. E il più delle volte sono proprio questi obiettivi, chiari e condivisi, a determinarne il successo. Tanto che la strada per interpretare e tradurre la complessità di un’impresa in azione efficace diventa più immediata e perseguibile. È il caso del progetto Rezophonic, iniziativa a scopo benefico che opera in collaborazione con AMREF Italia a sostegno del piano idrico in Kajiado, una delle regioni più aride dell’Est Africa. È lì che Mario Riso, storico batterista e fondatore del progetto, durante un viaggio trascorso a contatto con le popolazioni del luogo e l’assenza dei beni di prima necessità, come appunto acqua pulita da bere, ha deciso di “far diventare un mestiere apparentemente ‘inutile’ come quello del musicista in un mestiere più utile”, come ama dire lo stesso Riso. Così nel 2006 ha coinvolto numerosi artisti della scena musicale italiana in un progetto discografico i cui proventi sono destinati alla realizzazione di pozzi in Kenya. Da allora Rezophonic conta oltre 150 musicisti italiani - da Ruggeri a Caparezza, da De Piscopo ai Negramaro, da L’Aura ai Bluvertigo, solo per citarne alcuni - ha all’attivo due album e centinaia di esibizioni in tutta Italia. Ma soprattutto da allora Rezophonic ha reso possibile la realizzazione di 120 pozzi, 12 cisterne per la raccolta di acqua piovana e 3 scuole. “Sono numeri apparentemente poco significativi, ma vogliono dire che 30.000 persone avranno acqua da bere per tutta la vita” dichiara Riso, divenuto ambasciatore Amref. “E non solo. Mi piace puntualizzare che i proventi degli album e dei concerti sono utilizzati per acquistare il macchinario utile ad estrarre l’acqua dal terreno ma che sono le persone del luogo a costruire il pozzo, le stesse che ne beneficeranno. Così facendo ne imparano l’utilizzo e la manutenzione, il che vuol dire impartire anche un’educazione idrica e sanitaria alle popolazioni locali”. Oltre i nobili intenti e dietro un’esibizione sul palco dove tutto “suona” perfettamente - artisti e strumenti, musica e impegno sociale - tanto da avere l’impressione che tutto sia stato semplice, Rezophonic è un progetto complesso e dinamico, come tutti i progetti che coinvolgono una molteplicità di persone tutte diverse tra loro, oltretutto celebri. Qual è la chiave per gestire al meglio tante diversità, artistiche e personali? Quando penso a Rezophonic trovo moltissime analogie con il mondo Mario Riso Fondatore del progetto Rezophonic Abst Guidare un team di persone significa anche tirar fuori il meglio di esse, leggere tra le righe e riconoscere il talento, lasciar esprimere e sviluppare aspetti inediti, a volte inaspettati anche per le persone stesse 24 contro tendenze complessità di un ruolo di “mister” in cui ogni scelta può generare malcontenti e attriti e che - se non avvalorata da un senso di giustizia e meritocrazia - può rischiare di compromettere il senso di appartenenza al progetto. Come si coltiva un sincero senso di appartenenza e coesione a una causa no profit? La comunicazione, innanzitutto. Diretta, trasparente, esplicita. Perché non è mai facile comunicare alle persone i problemi di altre persone che vivono a migliaia di kilometri di distanza. Quasi ogni anno vado in Africa e non torno mai senza “testimonianze” delle attività che stiamo portando avanti e dei benefici generati: foto, video e documentazioni che condivido con tutte le persone che danno vita al progetto Rezophonic, numeri precisi e aggiornamenti su cosa è stato fatto, ma anche piccole e importanti gratificazioni, come ad esempio l’idea di dare ai pozzi di volta in volta realizzati il nome di uno dei musicisti. Ma non è tutto così immediato, perché il progetto Rezophonic può essere vissuto da un artista come occasione di visibilità o come opportunità di entrare in contatto con altri artisti con cui poter crescere e che possono tornare utili alla carriera personale. Capire la vera natura delle motivazioni che spingono ad aderire al progetto è anch’essa parte del mio ruolo, perché è fondamentale un sincero interesse alla causa per riuscire a trasmettere in maniera credibile e convincente il nostro messaggio verso l’esterno. Uno dei pozzi realizzati in Africa dello sport, perché mi trovo a gestire una “squadra”, una realtà composta da tante persone insieme, che poi è lo stesso parallelismo che vige nel mondo delle organizzazioni dove i manager guidano i propri team. E proprio come loro decido chi coinvolgere in determinate esibizioni e “chi fa cosa” all’interno del progetto, utilizzando le risorse nel modo migliore e più intelligente, cercando di tirar fuori il meglio dagli artisti ma anche paradossalmente il loro peggio, per conoscerli davvero a fondo. Questo mi permette di leggere tra le righe e di riconoscere il talento nelle persone di cui dispongo, perché tanti artisti che magari conosciamo sotto una determinata veste, molto spesso nell’ambito della propria carriera riescono a esprimere solo una parte di ciò che rappresentano: il mio ruolo di selezionatore e coach sta anche nel riuscire a far esternare e sviluppare aspetti inediti, inaspettati anche per gli artisti stessi. Quanto è difficile riuscire a valorizzare tutti i potenziali, nessuno escluso, sempre nell’ottica del “fare squadra”? È sicuramente uno dei compiti più delicati. L’obiettivo è quello di organizzare uno spettacolo che dia il giusto spazio a ognuno, eque possibilità di essere valorizzati, ma anche che riesca a soddisfare quel protagonismo insito nell’anima di un artista. Non dimentichiamo che chi decide di passare la propria vita su un palco spesso possiede un ego piuttosto “dominante”, e non è semplice far convivere insieme l’ego di 25-30 artisti. Per cui il mio ruolo è anche quello di far fronte a queste problematiche cercando di essere il più possibile giusto e meritocratico, facendo in modo che nessuno degli artisti si senta inferiore ad altri, trattando tutti allo stesso modo e dando a tutti lo stesso livello di importanza all’interno dello spettacolo. Far accettare una gestione “egualitaria” che metta in secondo piano la maggiore celebrità di alcuni artisti, è sicuramente resa più agevole dalla natura stessa del progetto Rezophonic: quando si parla di charity le persone hanno un’altra predisposizione, e sono più disponibili a mettere in gioco sé e la propria immagine. Rimane la OP www.rezophonic.com www.amref.it 25 Workshop Opinion Leader Stefano Pedrazzi LA SFIDA DELLA COMPLESSITÀ: HERA LA VINCE COSÌ tag visone d’insieme / leadership esemplare / rischi / valori / ambiente di lavoro Salvatore Molè Direttore Settori Operativi del Gruppo Hera Nata nel 2002 dalla fusione di undici aziende operanti nel settore della pubblica utilità dell’Emilia Romagna, Hera è oggi uno dei maggiori gruppi nella gestione dei servizi energetici, idrici e ambientali, con ricavi vicini ai 3,7 miliardi di Euro e oltre 6.000 dipendenti. Un universo di professionalità e di ambiti che ha portato il gruppo a confrontarsi con un articolato sistema di governance e di gestione della complessità. “Hera opera in settori regolamentati e in settori a libero mercato e svolge attività tecniche, commerciali, impiantistiche e operative”, dice a Lavori in Corso Salvatore Molè, direttore dei settori operativi del gruppo. “Questo - prosegue comporta la necessità di avere sempre una visione di insieme delle attività che si svolgono e di valutare necessariamente tutte le implicazioni e le conseguenze che ogni azione può avere nei diversi ambiti”. Secondo una recente ricerca del 2010 redatta e diffusa da IBM è proprio la gestione delle complessità rappresenta la sfida principale che i manager sono chiamati ad affrontare nel nuovo contesto globale, creato dalla recente crisi e dai suoi principali Abst L’elevato livello di servizio erogato rischia di essere percepito come scontato, ma dietro attività che possono sembrare banali o semplici a una prima lettura c’è tutto un mondo e una complesstità sapientemente gestita effetti. Il quadro è divenuto più volatile, incerto e complesso che in passato. Questo - secondo le risposte che IBM ha raccolto intervistando oltre 500 top manager in tutto il mondo - richiede che gli amministratori delegati e i principali gruppi dirigenti guidino le loro aziende con “coraggio e creatività”, restando in stretta connessione con i clienti attraverso strumenti quali la fantasia e l’immaginazione e progettando attività per generare velocità e flessibilità. Qui il tema della complessità si salda a quello della leadership. Un recente sforzo ha portato Hera a produrre, nel corso del 2010, un modello di leadership a partire dall’interpretazione delle sfide strategiche che attendono il gruppo e a descrivere, nel modo più dettagliato possibile, i comportamenti chiave necessari per far vivere la missione e i valori. Questo modello, per l’intero 2011, è stato oggetto di specifici workshop formativi finalizzati a diffonderne fra i dipendenti i contenuti. Quattro sono gli elementi principali su cui è costruito il modello di 26 Workshop Opinion Leader le parti che lavorano per il gruppo o con il gruppo: le comunità locali, i fornitori, i clienti, i lavoratori. Missione, Valori e Codice Etico costituiscono la base di ogni azione e relazione tra azienda e stakeholder”. “Un terzo aspetto che non va dimenticato è l’ambiente di lavoro che è amichevole e informale a tutti i livelli anche se sempre orientato al risultato. Importante è poi l’impatto che le attività che Hera svolge hanno sui cittadini e sulle abitudini dei cittadini”. “A volte - conclude Molè - l’elevato livello di servizio che viene erogato rischia di essere percepito come scontato, e così non è. Dietro attività che possono sembrare banali o semplici a una prima lettura, c’è in realtà tutto un mondo e una complessità sapientemente gestita. Questo è il mondo di Hera”. leadership di Hera: una attenta gestione della complessità, il costante orientamento all’eccellenza, focus sul servizio e quella che viene chiamata internamente una “leadership esemplare”. Per ciascun elemento chiave del piano sono state descritte le competenze che lo caratterizzano e i comportamenti che lo attuano. Il modello si è rivolto in prima istanza ai dirigenti e ai quadri del Gruppo. Un capitolo importante nell’approccio di Hera al tema delle complessità riguarda naturalmente i rischi. Hera persegue una strategia di crescita multi-business, concentrata su 3 aree d’affari core dell’Ambiente, dell’Energia e dei Servizi Idrici, al fine di mantenere un portafoglio bilanciato tra attività regolamentate a basso rischio e in libera concorrenza con potenzialità di crescita. L’obiettivo della multiutility è quello di assumere un profilo di rischio il più possibile conservativo. Il portafoglio è diversificato in modo bilanciato tra le varie attività: il 50% sono protette da concessioni e l’altro 50% è gestito nell’ottica di minimizzare i rischi e in ciascuna area di business. Una gestione del rischio che segue un approccio integrato e unitario per ottimizzare il già basso profilo, tipico del settore di riferimento. “Un aspetto di Hera importante è l’attenzione a quelli che sono stati definiti i valori aziendali del gruppo”, osserva ancora Molè. “Penso qui in primis allo sviluppo sostenibile ma anche i valori etici e alla doverosa attenzione a tutte Nel futuro del Gruppo c’è l’obiettivo di diventare la “migliore utility italiana” perseguendo un piano industriale che pone target di crescita dell’Ebitda al 5,7% medio annuo. Oggi Hera occupa posizioni di rilievo nei principali business in Italia: ambiente (primo posto a livello nazionale), gas (secondo fra le multi-utilities) e settore idrico (secondo posto). E si candida a guidare, come polo aggregante, un settore ancora frastagliato e costituito ancora da realtà mediopiccole. OP Gestire e governare la complessità per sopravvivere nell’era della turbolenza G. Graci UNI Service, 2010 27 hr talent Mariano Di Domizio CISCO ITALIA: PENSARE GLOBAL E OPERARE LOCAL tag cultura aziendale / integrazione / leader al femminile / sviluppo / flessibilità Molto spesso la visuale “local” è penalizzante per osservare temi importanti, e soprattutto di importanza globale come quelli inerenti la diversità. In Italia passi altrove scontati, come l’adozione delle cosiddette quote rosa hanno generato reazioni e a volte critiche, che spesso sono difficilmente comprensibili da chi italiano non è. Un punto di vista ottimale dello stato dell’arte lo ha chi lavora in Italia, e quindi conosce le dinamiche locali, ma lavora in una multinazionale globale come Francesca Merella, responsabile delle Risorse Umane di Cisco Italia. Se le aziende possono fare questo, lo può fare anche, con le dovute modalità, un intero Paese. Cisco, essendo una multinazionale globale, ha una visione privilegiata su macrotemi come la diversità di genere. Come giudica lo stato dell’arte in Italia? Cisco opera in tutto il mondo in realtà diversissime fra loro per cultura, approccio alla differenza di genere, situazione economica e sociale. Ovunque sia presente, l’azienda adotta però per tutte le persone le medesime politiche e si impegna in generale a sostenere le opportunità della popolazione femminile dei Paesi in cui opera. Noi operiamo in un settore che tradizionalmente vede una ridotta presenza femminile sia nelle aziende che nella ricerca e nelle università, nonostante rappresenti un importante “giacimento” di potenziali posti di lavoro, a causa del persistente gap di competenze che rende difficile coprire le necessità di professionisti IT. Ci siamo domandati i motivi che ostacolano le donne nell’accesso alla formazione e alle carriere nel settore ICT e un paio di anni fa abbiamo realizzato una ricerca sulle giovani e i giovani studenti di diversi Paesi europei, inclusa l’Italia: è emerso un problema principalmente culturale per cui genitori e insegnanti - non sempre “esperti” dal punto di vista informatico - non incoraggiano le ragazze a studiare o immaginare percorsi di carriera nell’IT. In mancanza di modelli di riferimento positivi, le ragazze stesse si fanno un’idea delle carriere IT che non sempre corrisponde alla realtà e, anche se amano l’informatica, quando poi si tratta di scegliere l’università o un lavoro spesso decidono di prendere altre direzioni. Ma il problema italiano non è solamente culturale e non siamo certo noi i primi a dire che la Francesca Merella Responsabile HR in Cisco Italia Abst Il fatto di essere una multinazionale ci dà un grande vantaggio: la nostra cultura aziendale proviene anche da altri paesi, possiamo prendere le migliori esperienze e realtà, le migliori soluzioni ai problemi, e lavorare per condividerle. Se le aziende possono fare questo, lo può fare anche, con le dovute modalità, un intero Paese 28 hr talent situazione è seria. È di qualche giorno fa il Global Gender Gap Report 2011 del World Economic Forum, che ci posiziona al 74mo posto ed evidenzia in particolare un dato non certamente positivo relativo alla partecipazione delle donne alla vita economica e alle opportunità professionali. Un gap di genere ancora più importante dal momento che è dimostrato che nei Paesi dove c’è una maggiore uguaglianza tra donne e uomini sul piano professionale c’è più competitività e sviluppo. Quali passi si sente di consigliare per migliorare le cose? Per migliorare l’attuale situazione, sicuramente si dovrebbe lavorare sul modificare la percezione culturale in Italia che a mio avviso vede ancora la donna molto legata a ruoli tradizionali, dando maggiore visibilità a modelli positivi e creando percorsi che valorizzino la presenza femminile nel mondo professionale e istituzionale. Un secondo aspetto che viene spesso trascurato è rappresentato dalle potenzialità delle tecnologie di rete per una gestione della vita personale, familiare e professionale flessibile, quindi più in linea con le esigenze delle donne che lavorano: parlo di collaborazione, di lavoro in mobilità, di possibilità di accedere alla propria “scrivania” e a tutti gli strumenti che permettono di essere operativi in qualunque momento a prescindere dalla propria presenza fisica in ufficio, garantendo comunque sicurezza e controllo. Il valore di queste soluzioni è che non sono solo “per le donne che lavorano”: rappresentano una opportunità per tutte le persone e hanno un effetto positivo su aspetti importanti quali la produttività, la motivazione e la soddisfazione. Inoltre, non sono necessari grandi investimenti per applicare in modo estensivo soluzioni di questo tipo anche in aziende di piccole dimensioni, purché siano disponibili le infrastrutture di rete su cui far funzionare tutto questo; è piuttosto necessario anche in questo caso un cambiamento di mentalità che separi la presenza fisica dal raggiungimento degli obiettivi. Vorrei anche aggiungere che l’attuale situazione potrebbe trarre grande vantaggio da un programma strutturato che preveda un’ampia condivisione di esperienze e storie attualmente sviluppate in molte realtà multinazionali portandole fuori dalle aziende e facendole diventare esempi pratici e operativi che possano essere la base per un confronto con la società e con le istituzioni. Come giudica quanto fatto in tema di quote rosa? Se la presenza della donna in posizione di rilievo fosse maggiormente diffusa nel nostro Paese, così come avviene in altri - e in generale non ci fossero differenze nell’accesso alle opportunità - e se nel complesso fossero disponibili più servizi e strumenti che aiutino a conciliare le esigenze personali e lavorative, la questione delle quote rosa non si porrebbe. Ritengo che sarebbe più costruttivo cercare alternative perché le alternative esistono. Faccio un esempio relativo alla nostra azienda, che tra l’altro opera in un settore in cui la presenza femminile è più ridotta che in altri. In pochi anni la percentuale di donne che lavorano in Cisco Italia è cresciuta in maniera importante (sono passate dal 10 al 20%). Questo risultato è stato possibile grazie a una precisa visione, che l’azienda definisce I-count, volta a coinvolgere le persone in modo attivo nella vita lavorativa e a creare una cultura condivisa fatta di partecipazione, di iniziative per la sostenibilità e il supporto alle comunità in cui si opera e di azioni positive per favorire la diversity, l’inclusione e la riduzione del divario di genere. Per quest’ultimo aspetto posso citare: l’utilizzo ampio e diffuso di tecnologie e 29 hr talent modelli di lavoro che favoriscono la flessibilità lavorativa e, ad esempio, accompagnano le donne in un momento tradizionalmente complesso come quello della maternità; un lavoro intenso di focalizzazione sulla diversità di genere che ci ha visti mettere in campo anche attività di sviluppo di talenti e leader al femminile; workshop a sostegno di una cultura aziendale priva di bias, che prevede anche un percorso dedicato a manager uomini e donne sul “management al plurale”; la scelta di impegnarci nella ricerca di talenti “al femminile” e di ampliare i canali di accesso al lavoro in questo settore. Il fatto è che realtà come la nostra - che ha raggiunto il secondo posto della classifica “Best Place To Work” del nostro Paese - e molte altre, non solo multinazionali, sembrano sempre un’eccezione, ma non lo devono essere per forza. Se le aziende possono fare questo, lo può fare anche, con le dovute modalità, un intero Paese. Le polemiche sorte, arrivate fino a sospettare l’incostituzionalità delle quote rosa stesse, l’hanno stupita? Non mi sono stupita delle polemiche intorno al tema delle quote rosa: è ovvio che “imporre” una presenza sulla base del genere di appartenenza e non sulla base di altre valutazioni è una scelta molto forte. Sarebbe meglio però che dalle polemiche si passasse alla discussione intorno a soluzioni e percorsi che rendano inutile, in futuro, pensare a quote rosa in qualunque settore: immaginare ad esempio una iniziativa che coinvolga aziende, istituzioni, privati e porti all’attenzione del Paese l’esigenza di creare una “agenda delle donne” da affiancare alla “agenda digitale”. In cosa multinazionali come Cisco possono essere d’aiuto, in senso propulsivo e propositivo, per sensibilizzare la società sul tema? Come accennavo prima, multinazionali come Cisco possono OP Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi e nuovi patti tra sessi e generazioni. M. Naldini, C. Saraceno Il Mulino, 2011 in primo luogo rappresentare delle best practice a cui altre aziende ma anche le istituzioni possono ispirarsi. Il fatto di essere una multinazionale ci dà un grande vantaggio: la nostra cultura aziendale proviene anche da altri Paesi, possiamo prendere le migliori esperienze e realtà, le migliori soluzioni ai problemi e lavorare per condividerle. È nostro compito essere propositivi partecipando a tavoli e iniziative che coinvolgano anche altri soggetti e in cui si discuta e si agisca per la parità di genere. Noi ad esempio lo facciamo in vari contesti, quali il gruppo donne di Manager Italia, l’iniziativa Mom@Work, Professional Women Association, etc. Inoltre, possiamo anche attivarci per comunicare e diffondere una cultura che favorisca la parità tra i nostri partner, clienti e tutti coloro con cui veniamo quotidianamente a contatto. Infine, possiamo agire dove possibile per dare più opportunità alle donne, ad esempio creando progetti di formazione per l’alfabetizzazione e anche per l’acquisizione delle competenze professionali per operare con le tecnologie di rete - visto che l’ICT rappresenta un bacino di opportunità lavorative importante. È quello che si può fare con modelli quali le Cisco Networking Academy - un programma di formazione tecnica destinato a studenti, organizzazioni ed enti non profit che consente di ottenere le certificazioni Cisco. Il programma è globale e nel marzo di quest’anno gli iscritti ai corsi erano 1 milione: di cui circa 16.000 in Italia, con una quota di donne pari al 16%. 30 tag crisi / fallimento / lavoratori / scelte / speculazione letture ascolti visioni Presentato fuori concorso al 6°Festival del Cinema di Roma, L’Industriale di Giuliano Montaldo non è ancora nelle sale ma ha già scatenato un vivo dibattito per i temi scottanti che affronta: la crisi economica, le drammatiche scelte che il protagonista si trova a dover affrontare, gli aspetti più umani della vita di un imprenditore nella complessità dell’attuale situazione economica. Il film si svolge in una Torino dei nostri giorni, in inverno, una città rappresentativa di altre città, soprattutto del nord, in cui il tempo atmosferico sembra corrispondere e simboleggiare la stagnazione, il freddo e le avversità della storia che viene raccontata. “Il protagonista è Nicola Ranieri (Pierfrancesco Favino), un industriale torinese figlio di un immigrato dalla Puglia, che si imbatte in una crisi economica spaventosa e tenta orgogliosamente di salvare dal fallimento l’azienda con circa settanta dipendenti che ha ereditato dal padre” racconta il regista Giuliano Montaldo. “Una crisi che crea una cappa di angoscia e di incomunicabilità anche nel rapporto con sua moglie Laura (Carolina Crescentini). Lo vediamo affrontare i difficili rapporti con le banche, con gli operai che lo hanno visto crescere con amicizia e affetto accanto a suo padre e aspettano di conoscere il loro destino”. Operai di una Torino che ha “partecipato” alla costruzione del film, ricorda Montaldo citando un momento emblematico: “Abbiamo inserito una scena ambientata in una fabbrica (…) adattata perché risultasse nella finzione un’azienda occupata. L’effetto è stato così realistico che in un attimo si è sparsa la voce che ci fosse davvero una fabbrica in lotta, e in poco tempo sono arrivati operai di altre fabbriche pronti a portare la loro solidarietà, è scattato un vero e proprio allarme. È arrivata tanta gente impaurita all’idea di una nuova azienda in crisi. (…). C’era una verità sconcertante, sembra una sequenza rubata dalla realtà e invece l’abbiamo costruita meticolosamente. Quando penso al nostro lavoro a Torino penso a due emozioni ben distinte legate al caldo e al freddo. Il calore è rappresentato dalla straordinaria vicinanza amichevole e solidale di tutti i compagni di lavoro; il freddo, invece, dal gennaio e dal febbraio piemontesi tra gelo e nevischio. (…) Abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di poter contare oltre che sulla grande collaborazione della Film Commission Torino Piemonte anche e soprattutto su quella dei torinesi, che hanno capito cosa stavamo raccontando ed hanno sentito il desiderio di dare una mano avvertendo tutti la sensazione che si trattasse di un film anche loro”. Un film dei torinesi, un film dei lavoratori ma soprattutto che deve far riflettere, si augura il regista: “Vorrei che alla fine della proiezione fuori dalla sala si creassero dei capannelli di persone pronte a discutere, se occorre anche a litigare sulla vicenda che abbiamo raccontato. Se questo succede il film ha vinto, vuol dire che se ne parla, che è un film che rimane. Spesso accade e allora viva il cinema”. 31 a cura della redazione post fazione Dan Peterson A lezione di coaching tag quoziente umano / salutare / sorridere / guardare negli occhi Quasi tutti i principi di Coaching sono applicabili al mondo del lavoro. Invece, non tutti i principi del campo lavorativo sono, a loro volta, applicabili allo sport. Il motivo è semplice: il quoziente umano non è solo importante nello sport (come nel mondo del lavoro, tra l’altro) ma è, soprattutto, molto variabile. Quindi, il Coach nell’arena sportiva deve leggere i suoi giocatori con grande attenzione, ogni giorno. Questo vale per il CEO o capo reparto nel mondo del lavoro: chiunque gestisca persone deve tenere occhi e orecchie aperte per scoprire i segnali positivi, negativi o di cambiamento dei suoi “giocatori”. Per scoprire questi segnali io, come Coach, facevo tre cose quasi sempre. Salutavo ogni giocatore ogni giorno. Lo facevo sempre in modo molto personale, guardando il giocatore negli occhi. Per esempio: “Ciao, Dino!” Meneghin: “Coach! Buon giorno!”. Sembra una cosa scontata. Il punto è come lo facevo: dicevo il suo nome, ristabilivo il rapporto fra noi. E a 24 ore di distanza, lo rifacevo. I giocatori pensavano: “Il nostro Coach è un uomo di grande equilibrio, è uguale oggi come ieri, e come sarà domani.” Con due parole, trasmettevo tranquillità e fiducia. Ogni giorno, durante lo stretching, salutavo tre giocatori a caso, questa volta con una domanda. Per esempio: “Mike! Come va?”. D’Antoni: “OK, Coach”. Poi Franco Boselli, detto “Il Barone” per la sua eleganza nel vestire: “Barone, come va?”. E Boselli: “Non male”. Tono di voce! Sento che qualcosa non va. Dico ancora: “Barone! Tutto OK?” Boselli: “Sì, sì, Coach, tutto bene”. Ma lui sa che ho sentito qualcosa, che me ne può parlare. Così affronto un problema quando è ancora piccolo, all’inizio, prima che diventi grande. E sono in armonia con i bioritmi dei miei campioni. Poi, una volta ogni tanto, due parole con il mio 10° giocatore. Nei miei ultimi due anni, quello era Mario Governa, 20enne, 205 cm, pivot di riserva. Beh, meno di riserva: non giocava mai! Ma lavorava come uno schiavo e prendeva le botte da Meneghin ogni giorno. Poi arrivava la domenica, la partita, e non entrava. Quindi, una volta al mese, gli dedicavo qualche parola in più: “Mario, voglio che tu sappia quanto apprezzo ciò che fai per la squadra.” Nient’altro. Mai un discorso lungo. Ho visto Mario un anno fa, qui a Milano. Gli ho detto: “Mario, ti voglio dire una cosa.” Mario: “Lo so, Coach, lo so.” Un sorriso o una parola gentile non costano niente. Ovvio, c’è ben altro nel rapporto umano tra Coach e Player, come fra Capo e Dipendente, ma a mio avviso è sempre una buona idea iniziare con un rapporto chiaro, basato su un contatto diretto, guardandosi negli occhi. I miei giocatori sapevano che potevano avere fiducia in me. C’è qualcuno che si fida di una persona che non ti guarda negli occhi? No. L’ho detto in 1000 riunioni di Team Building e qualche CEO mi ha preso alla lettera. Al meeting successivo, mi hanno detto: “Coach, saluto tutti i miei collaboratori ogni mattina. Sai una cosa? Funziona!” Non avevo il minimo dubbio! Dan Peterson Coach Abst È sempre una buona idea iniziare con un rapporto chiaro, basato su un contatto diretto, guardandosi negli occhi OP Coaching. Come risvegliare il potenziale umano nel lavoro, nello sport e nella vita di tutti i giorni J. Whitmore Alessio Roberti Editore, 2011 32 Dedicato a te che vuoi risparmiare tempo! Da Manpower è nata ORA. Un supporto immediato per la gestione della tua casa e della tua famiglia. L’unica carta prepagata per servizi di lavoro presso il tuo domicilio. Si attiva semplicemente chiamando il numero verde 800 52 52 05 e richiedendo il proprio servizio, e si ricarica anche on line in modo facile, veloce e sicuro. In 24 ore Manpower metterà a tua disposizione la persona più adatta per ogni esigenza, qualificata e fidata, nel modo più sicuro e tutelandoti completamente. 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