Geomorfologia antropogenica, con particolare riguardo ai rapporti con l'archeologia

June 14, 2018 | Author: Giuseppe Gisotti | Category: Documents


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Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 - DCB Roma

Geologia dell’Ambiente 2/2018

ISSN 1591-5352

Periodico trimestrale della SIGEA Società Italiana di Geologia Ambientale

CON LA COOPERAZIONE DI

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Ore 16.00ƲSaluti Antonio Decaro (Sindaco Città Metropolitana di Bari) Salvatore Valletta (Presidente Ordine Geologi della Puglia) Raýaele Lopez (Presidente Sigea Sezione Puglia)

RASSEGNA CULTURALE

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ModeratoreƲGaetano Prisciantelli (Giornalista RAI) 16.30ƲCittà e natura Carla Tedesco (Università Iuav di Venezia - Assessore all’Urbanistica e alle politiche del Territorio Comune di Bari) 17.00ƲLa fondazione delle città (Carocci editore) di Giuseppe Gisotti 17.30ƲImparare a leggere il territorio Vincenzo Del Gaudio (Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambinetali - Università degli Studi di Bari) 18.00ƲSotto i nostri piedi (Codice Edizioni) di Alessandro Amato 18.30ƲLa Puglia al tempo dei Dinosauri Luisa Sabato (Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambinetali e Dipartimento di Biologia - Università degli Studi di Bari) 19.00ƲIl meteorite e il vulcano (Edizioni altravista) di Aldo Piombino 19.30ƲDibattito e chiusura dei lavori Antonello Fiore (Presidente Sigea) Lo scopo della rassegna culturale La scienza e la tecnica raccontate, proposta in più città italiane, è quello di potenziare la comunicazione e la divulgazione dei temi scientiǻci e tecnici attraverso la presentazione di libri, scritti da scienziati e studiosi, che trattano speciǻci temi aǺerenti alla cultura delle Scienze della Terra. Gli eventi prevedono la presentazione da parte degli autori di tre i libri. Ogni presentazione è preceduta da un seminario scientiǻco che tratta in termini semplici e generali il tema aǺrontato dal libro. Per gli eventi di Bari e Bologna i temi trattati sono l’urbanistica, il rischio sismico e la vita e l’estinzione dei dinosauri. Sono stati chiesti n. 3 CFP per geologi CON IL PATROCINIO DI

AVVISO DI PAGAMENTO DELLA QUOTA SOCIALE 2018 Il Consiglio Direttivo ha confermato anche per il 2018 la quota associativa di 30 euro da versare entro il 31 marzo con le seguenti modalità: - versamento su conto corrente postale n. 86235009 - bonifico bancario o postale, codice IBAN: IT 87 N 07601 03200000086235009 (Banco Posta) intestato a: Sigea, Roma, riportando i dati del socio iscritto e la causale del versamento.

Società Italiana di Geologia Ambientale Associazione di protezione ambientale a carattere nazionale riconosciuta dal Ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare con D.M. 24/5/2007 e con successivo D.M. 11/10/2017 PRESIDENTE Antonello Fiore CONSIGLIO DIRETTIVO NAZIONALE Danilo Belli, Lorenzo Cadrobbi, Franco D’Anastasio (Segretario), Daria Duranti (Vicepresidente), Antonello Fiore (Presidente), Sara Frumento, Fabio Garbin, Enrico Gennari, Giuseppe Gisotti (Presidente onorario), Gioacchino Lena (Vicepresidente), Luciano Masciocco, Michele Orifici, Vincent Ottaviani (Tesoriere), Angelo Sanzò, Livia Soliani

Geologia dell’Ambiente Periodico trimestrale della SIGEA

N. 2/2018 Anno XXVI - aprile-giugno 2018

Sommario Geomorfologia antropogenica, con particolare riguardo ai rapporti con l’archeologia GIUSEPPE GISOTTI

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Dalle mappe cinquecentesche all’attuale cartografia: un percorso storico nell’analisi del rischio idrogeologico di aree antropizzate PAOLA MARIA VIVALDA, LIVIA NANNI, CLEMENTE FOLCHI VICI D’ARCEVIA 18 Aspetti geologici e ambientali dei laghetti collinari FRANCESCO UZZANI

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Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 06352 Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 229 del 31 maggio 1994

DIRETTORE RESPONSABILE Giuseppe Gisotti COMITATO SCIENTIFICO Mario Bentivenga, Aldino Bondesan, Giancarlo Bortolami, Giovanni Bruno, Giuseppe Gisotti, Giancarlo Guado, Gioacchino Lena, Giacomo Prosser, Giuseppe Spilotro COMITATO DI REDAZIONE Fatima Alagna, Federico Boccalaro, Giorgio Cardinali, Francesco Cancellieri, Valeria De Gennaro, Fabio Garbin, Gioacchino Lena, Maurizio Scardella REDAZIONE SIGEA: tel. 06 5943344 Casella Postale 2449 U.P. Roma 158 [email protected]

UFFICIO GRAFICO Pino Zarbo (Fralerighe Book Farm) www.fralerighe.it PUBBLICITÀ SIGEA STAMPA Tipolitografia Acropoli, Alatri - FR La quota di iscrizione alla SIGEA per il 2018 è di € 30 e da diritto a ricevere la rivista “Geologia dell’Ambiente”. Per ulteriori informazioni consulta il sito web all’indirizzo www.sigeaweb.it

Periodico trimestrale della SIGEA Società Italiana di Geologia Ambientale Supplemento al n. 2/2018 ISSN 1591-5352

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Il regime delle precipitazioni intense: eǺetti al suolo delle precipitazioni di forte intensità e breve durata

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PROCEDURA PER L’ACCETTAZIONE DEGLI ARTICOLI I lavori sottomessi alla rivista dell’Associazione, dopo che sia stata verificata la loro pertinenza con i temi di interesse della Rivista, saranno sottoposti ad un giudizio di uno o più Referees

Geologia dell’Ambiente

Ostuni, 20 gennaio 2017 A cura di Emanuele Giaccari

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Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Brindisi

A questo numero è allegato il supplemento digitale Il regime delle precipitazioni intense: effetti al suolo delle precipitazioni di forte intensità e breve durata a cura di Emanuele Giaccari scaricabile all’indirizzo web www.sigeaweb.it/supplementi.html

In copertina: Paesaggio profondamente modificato dagli erti rilievi artificiali in seguito allo sfruttamento del minerale aurifero effettuato dai Romani a Las Médulas, Spagna, a partire dal I sec. d.C.

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Geomorfologia antropogenica, con particolare riguardo ai rapporti con l’archeologia

GIUSEPPE GISOTTI Presidente onorario SIGEA E-mail: [email protected]

Anthropogenic geomorphology, with particular regard to relationship with archaeology Parole chiave (key words): terzo agente geomorfico (third geomorphologic agent); classificazione delle forme artificiali (man-made landforms classification); forme di scavo (digging landforms); forme di accumulo (accumulation landforms); forme idrauliche/idrologiche (hydraulic/hydrologic landforms); geomorfologia antropogenica (anthropogenic geomorphology); geoarcheologia (geoarchaeology)

1. FORME ANTROPICHE. L’UOMO COME durante la quale si è evoluta la tecnologia edifici, vere colline artificiali, i terrazzamenti e i AGENTE GEOMORFICO umana. L’Antropocene si caratterizzerebbe ciglionamenti prodotti dall’agricoltura, i rilevati

In questa sede si tratta dell’attività umana intesa come agente geomorfologico (o geomorfico), anzi dell’uomo come terzo agente geomorfico che plasma le forme terrestri, per distinguerlo dai due altri agenti, quelli endogeni (fenomeni tettonici, sismici e vulcanici) e quelli esogeni (ossia l’atmosfera, l’idrosfera e la biosfera e i processi che in essa si verificano, eolici, fluviali, marini, glaciali). Le forme del terreno hanno influenzato l’attività umana e in particolare quella antica, attività che si è adagiata su tali forme, le ha utilizzate, adattandosi ad esse. Esempi sono il Tempio di Giunone ad Agrigento, che è situato alla sommità di un rilievo monoclinale o il porto di Leptis Magna, situato all’estuario di un corso d’acqua (Gisotti, 2016). Viceversa l’uomo ha modificato le forme naturali, ne ha create di nuove per le sue necessità. Esempi sono le latomie di Siracusa o i tell della Mesopotamia. In questo testo vogliamo tentare una classificazione delle citate forme artificiali. Con l’incremento sempre più veloce delle sue risorse scientifiche e tecnologiche, l’uomo è diventato sempre più un fattore di modificazione dell’ambiente e di modellamento del paesaggio, tanto che alcuni Autori anglosassoni hanno coniato il termine anthropogenic geomorphology o anthropogeomorphology (Goudie, 1985) per indicare lo studio del ruolo dell’uomo come agente geomorfologico. In italiano possiamo parlare di geomorfologia antropogenica o antropogeomorfologia. Vari Autori si sono occupati recentemente di questo argomento, fra cui Nir (1983), un antesignano, Rodrigues (2005) che ha applicato questi criteri alla pianificazione urbanistica di alcune città del Brasile, Rozsa (2007), che ha accennato agli effetti della presenza umana sul paesaggio geologico a cominciare dal 10000 a.C., Li Jialin (Li Jialin et al. 2017) che ha passato in rassegna le recenti metodologie di studio dell’argomento, Inoltre numerosi Autori fanno riferimento ad una nuova epoca geologica, l’Antropocene, facendola seguire all’Olocene, Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

per l’impatto determinante della specie umana sull’ambiente e sul clima, e quindi anche sulle forme del rilievo. Ci sono pochi campi dell’attività umana che non creino nuove forme del terreno. Ve ne sono alcune prodotte da processi antropogenici diretti: queste sono relativamente riconoscibili nell’aspetto e nell’origine e sono frequentemente create deliberatamente e coscientemente. Sono ad esempio le cavità o i cumuli di detriti minerari prodotti dalle attività estrattive, i cumuli di detriti derivati dalla demolizione di

o le trincee prodotti dalla realizzazione di strade e ferrovie, i tell derivanti dalla degradazione degli antichi insediamenti, i canali prodotti per l’irrigazione, i bacini idrici realizzati per lo stoccaggio delle acque, le depressioni da subsidenza causata dalla estrazione di minerali, acqua e gas dal sottosuolo, i crateri prodotti dai bombardamenti, le recenti isole artificiali sulle quali sono stati costruiti aeroporti. Invece le forme del rilievo prodotte da processi antropogenici indiretti sono spesso meno facili da individuare: talora derivano

Tabella 1 – Classificazione di processi antropogenici diretti e indiretti che producono forme del rilievo (Fonte: Haig, 1978) 1. Processi antropogenici diretti 1.1. Processi di costruzione Scarico di rifiuti Forme inclinate: modellato (es. Tumuli, tombe monumentali), tell, ciglionamenti, terrazzamenti, rilevati stradali o ferroviari 1.2. Processi di escavazione Escavazione, trincea, cava, miniera a cielo aperto, esplosione di materiali coerenti e incoerenti, fossati Crateri (attività bellica) 1.3. Interferenze idrologiche Sommersione, costruzione di bacini artificiali, costruzione di canali, dragaggio, modificazione di canali Bonifica idraulica Protezione delle coste (es. Ripascimento artificiale di spiagge) 2. Processi antropogenici indiretti 2.1. Accelerazione dell’erosione e della sedimentazione Attività agricola e dissodamento Opere infrastrutturali, specialmente strade (specialmente durante le operazioni di cantiere) Urbanizzazione Attività estrattiva in alveo fluviale, che asportando la sabbia provoca il mancato ripascimento naturale delle spiagge già alimentate da tali sabbie e quindi l’arretramento delle spiagge Modifiche accidentali del regime idraulico 2.2. Subsidenza (causa depressioni più o meno grandi e altre forme, sinkholes) Attività mineraria Estrazione di acque sotterranee 2.3. Cedimento di pendii, frane Accumulo di materiali alla sommità di pendii Sottoescavazione Imbibizione di acqua

da una accelerazione artificiale di processi naturali, quali l’erosione accelerata dall’uomo. Si tratta ad esempio di frane causate da sottoescavazione di un ripido pendio o viceversa frane causate da un sovraccarico nella parte sommitale del pendio; oppure creazione di superfici degradate da pratiche agricole inappropriate, come disboscamento non rispettoso di idonee pratiche della selvicoltura o pascolo eccessivo (overgrazing), che da una parte provocano erosione accelerata del suolo e dall’altra un accumulo indesiderato di sedimenti; oppure attività estrattiva in alveo fluviale, che asportando la sabbia provoca il mancato ripascimento naturale delle spiagge già alimentate da tali sabbie e quindi l’arretramento delle spiagge stesse; oppure i camini di subsidenza prodotti da attività mineraria; in tempi recenti l’arretramento del delta del Nilo, dovuto al diminuito trasporto solido del fiume come conseguenza della costruzione della diga di Assuan nel 1964. Nella tabella 1 viene presentata una classificazione di processi antropogenici creatori di forme del terreno secondo Haig (1978). Allo scopo di affrontare questa complessa tematica della classificazione delle forme derivanti dalla attività antropica, abbiamo suddiviso le “forme del terreno” (landforms) antropogeniche in tre categorie, riprendendo in parte alcune informazioni da Gisotti (2007): A. Forme di scavo (forme di rimozione): miniere, cave (ad esempio latomie di Siracusa), tombe rupestri monumentali (ad esempio etrusche ), Vie Cave degli Etruschi, trincee e sbancamenti stradali o ferroviari, spianamento di colline e rilevi (ad esempio la collina Velia a Roma); B. Forme di accumulo (riporti e riempimenti): tell, tumuli, mounds; discarica di rifiuti solidi e fanghi (urbani, industriali) (ad esempio la collina “dei cocci” a Roma); C. Forme dovute a operazioni idrologiche/ idrauliche (in questa categoria vengono comprese quelle forme derivanti da operazioni connesse alla gestione, utilizzo e controllo dell’acqua, operazioni che peraltro rientrerebbero in gran parte tra le forme di scavo): peschiere romane, canalizzazione di fiumi, canali per irrigazione o per drenaggio, trincee o cunicoli/gallerie per acquedotti, canali scolmatori, centuriazioni, laghi artificiali, bonifica di paludi, recupero di terre dal mare (ad esempio i polder olandesi), ripascimento artificiale delle spiagge, porti artificiali. Vari Autori hanno indagato su queste recenti/attuali modificazioni antropiche delle forme del rilievo e quindi del paesaggio, fra cui Castiglioni (1982), Szabo (Szabo et al., 2010) e Tarolli (Tarolli, Sofia, 2016), ai quali si rimanda per approfondimenti; quest’ultimo ha trattato gli aspetti legati all’attività

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Figura 1 – Sviluppo storico da un paesaggio naturale a un paesaggio artificiale caratterizzato da attività estrattiva, nel caso del recupero ambientale e paesaggistico di una miniera a cielo aperto di carbone in Germania (Fonte: Di Fidio, 1990, ripreso in Gisotti, Zarlenga, 2004)

Figura 2 – Disegno schematico della “Latomia del Paradiso” a Siracusa. L’attività estrattiva iniziò fin dalla fondazione della città, in particolare sfruttando la calcarenite miocenica locale, chiamata “pietra di Siracusa”, con la quale i siracusani realizzarono i principali monumenti della città. In questa immagine si illustra il meccanismo di degradazione dell’ammasso roccioso e quello che rimane di una antica cava in sotterraneo. I fattori naturali sono essenzialmente l’aerosol marino, l’inquinamento atmosferico, le variazioni microclimatiche, l’infiltrazione delle acque pluviali e i terremoti. Gli effetti sono il cedimento dell’ammasso roccioso, la formazione di alveoli, la degradazione della roccia, la dissoluzione del calcare e le fessure da tensione. Col tempo l’uomo vi ha realizzato una torre, alcune tombe, una antica strada e due canali acquedottistici. Fra un pilastro e l’altro si sono insediati alberi spontanei, oltre a giardini e orti. Il “pilastro” di sinistra è quello che rimane di un pilastro della cava sotterranea, il quale originariamente sosteneva la volta della cava/caverna: l’antica superficie del terreno [C] è crollata, lasciando, ai piedi dei pilastri, cumuli di frammenti rocciosi, sui quali si è formato il suolo e si sono insediate le piante (Fonte: Ercoli, Speciale, 1988)

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umana sul paesaggio, con particolare riguardo alla attività mineraria, alle strade e all’agricoltura, Nelle prossime pagine si accenna a tali modificazioni antropiche, cercando di mettere in evidenza le forme originatesi in seguito ad attività del passato storico e preistorico, ma anche ad alcune forme che possono essere inquadrate come esempi di archeologia industriale. 2. FORME DI SCAVO

Tra le forme di scavo annoveriamo, oltre le attività estrattive-minerarie, le varie cavità ipogee artificiali che, nel susseguirsi delle varie epoche preistoriche e storiche, sono state destinate ad usi diversi, da abitativo a ricovero degli animali, da luoghi di culto e di inumazione (chiese rupestri, catacombe, tombe, ecc.) a luoghi adibiti alla conservazione e lavorazione degli alimenti: tra questi ultimi citiamo quelli notissimi di Orvieto. Le gallerie e i cunicoli per il trasporto e lo smaltimento dell’acqua li inseriamo nella categoria delle opere idrauliche. Gli ipogei sono stati ricavati dall’uomo grazie alla possibilità di scavare agevolmente cavità all’interno di determinate formazioni litologiche favorevoli a tale operazione (rocce tenere quali calcareniti, tufi vulcanici, ecc.). Vi è, quindi, un evidente controllo del contesto geologico nella localizzazione degli ipogei in determinate aree. In alcuni casi l’apporto costruttivo dell’uomo si limitava alla realizzazione della muratura antistante. Va posto in rilievo la sapiente capacità dell’uomo nel realizzare questo genere di grotte, utilizzando la cognizione dell’effetto arco, elemento ricorrente in questi manufatti. L’uomo è riuscito a tenere conto del comportamento statico di questi scavi, mantenendo il controllo delle variazioni dello stato tensionale dell’ammasso roccioso, attraverso la conformazione a volta della parte superiore dello scavo. Trattandosi di costruzioni arcaiche emerge con evidenza, nella logica di un’economia costruttiva, l’utilità di impiegare per lo più materiali reperibili in loco e soprattutto il materiale di risulta dello

scavo che, regolarizzato in blocchetti lapidei, poteva essere utilizzato per costruire le volte e la muratura di facciata. Gli ipogei di origine antropica fanno parte del patrimonio geologico di una regione e di quello storico-archeologico. Numerosi sono gli esempi di ipogei artificiali del neolitico e dell’eneolitico della Sardegna, esemplificati dalle grandi necropoli in “domus de janas” di Anghelu Ruiu di Alghero, di Su Crucifissu e Monte D’Accoddi di Porto Torres e Noeddale di Ossi, seguite da quelle del Meilogu del Monte Acuto e dell’Iglesiente. Nelle zone interne e nell’immediato entroterra dell’Ogliastra gli ipogei sono scavati anche negli affioramenti e nei massi di duro granito. In epoca storica sono note le catacombe di Roma e quelle di Venosa, gli ipogei di Ortigia a Siracusa, gli ipogei adibiti a luoghi di culto fra i Sassi di Matera. Alcuni casi della Basilicata vengono descritti da Bentivenga, illustrati secondo la litologia e gli usi (Bentivenga et al., 2016). Musotto (2017) illustra le caratteristiche delle soluzioni insediative ipogee artificiali nell’area mediterranea. In questa sede si è deciso di suddividere le tipologie delle forme di scavo in quattro categorie: • forme derivanti da attività estrattiva; • forme derivanti da attività legate alla inumazione e al culto; • forme legate a soluzioni insediative, • forme legate alla realizzazione di strade, ferrovie e in generale infrastrutture lineari (quali trincee o sbancamenti) 2.1. FORME DERIVANTI DA ATTIVITÀ ESTRATTIVA

Un potente intervento dell’uomo sulle forme del rilievo è quello relativo alla attività estrattiva. Le cave e le miniere a cielo aperto sono state, fin dall’antichità, tra le attività che più hanno condizionato l’evoluzione delle civiltà umane: basti pensare ai conflitti fra Etruschi e Romani e poi tra questi ultimi e Cartaginesi per accaparrarsi le miniere di metalli (ferro, oro, argento, rame, stagno, ecc.) e metalloidi (zolfo, ecc.) del bacino del Mediterraneo.

Innumerevoli sono gli esempi, come le profonde modifiche del paesaggio delle Alpi Apuane a causa della secolare estrazione di marmo. Un altro esempio è quello relativo alla estrazione dell’oro da parte dei Romani nella Spagna, nel territorio di Las Médulas: questo caso si riporta più avanti fra le operazioni eminentemente idrauliche poiché il minerale veniva estratto tramite metodi idraulici. Qui si accenna alle grandi miniere a cielo aperto di lignite del Basso Reno (Germania), che hanno modificato fortemente il paesaggio e alla contemporanea/successiva attività di recupero ambientale e paesaggistico/geomorfologico. Le miniere a cielo aperto di lignite richiedono che l’acqua sia drenata fuori dai sedimenti che sovrastano e contengono la lignite. La superficie della falda deve essere abbassata alquanto al di sotto del letto più basso della lignite affinché questa venga estratta. Gran parte dei terreni di copertura (“cappellaccio”) dei giacimenti di lignite sono costituiti da sabbie e ghiaie del Pleistocene, e da loess di spessore variabile; una volta asportata la lignite, il materiale di risulta viene ridepositato nelle cavità artificiali e anche disposto in discariche esterne: il loess a causa della sua composizione granulometrica possiede sufficienti caratteristiche per costituire un suolo adatto per l’agricoltura e la selvicoltura, anche se, in termini di resa agronomica, è inferiore al suolo originario. Nelle depressioni rimaste in seguito alla estrazione della lignite si sono formati talora laghi più o meno estesi: una volta bonificati i laghi e le aree circostanti, si sono costituite aree ricreative molto frequentate. Un esempio schematico della evoluzione del paesaggio delle grandi aree estrattive della Germania è illustrato nella Fig. 1. In questo esame del rapporto fra attività estrattiva e archeologia, non si può non citare il caso delle latomie di Siracusa nella loro evoluzione, dalla estrazione di pietra da costruzione a prigione degli Ateniesi sconfitti (noto episodio della guerra del Peloponneso), fino a sede di coltivazioni. La Fig. 2 illustra la

Figura 3 – A sinistra, fronte della tomba monumentale a lesene T1 – “Efisio Picone”della necropoli dell’età del Bronzo Antico di contrada Cugno Case Vecchie, scavata in uno sperone costituito da calcari teneri. A destra, pianta, prospetto e sezione (Fonte: Cugno, 2015)

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famosa “Latomia del Paradiso”, dove il fondo della ex cava è ora occupato da orti e giardini (Gisotti, 2008). 2.2. IPOGEI ADIBITI A TOMBE E A LUOGHI DI CULTO

Innumerevoli sono le tombe rupestri in tutte le epoche e in tutti i luoghi, che hanno contribuito a plasmare il luogo dove sono state realizzate. Valgano come esempio le tombe monumentali etrusche realizzate nel territorio di Sovana nella Tuscia (Gisotti, 2016), scavate nei tufi vulcanici e datate III secolo a.C., di cui la più nota è la cosiddetta “Tomba Ildebranda” (Arcangeli et al., 2013). Considerevole è la necropoli protostorica di contrada Cugno Case Vecchie nel Comune di Noto, caratterizzata dalla presenza di quattro tombe monumentali della facies di Castelluccio, Bronzo Antico, che occupano uno sperone calcareo (Formazione di Monti Cimiti-Calcari di Siracusa) (Cugno, 2015) (Fig. 3). CASO DI STUDIO. LA BASILICA SOTTERRANEA DI PORTA MAGGIORE A ROMA, I SECOLO D.C.

Un esempio notevole di luogo di culto scavato nella roccia è quello della Basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore a Roma, monumento che gli archeologi datano al I secolo d.C. e che assegnano a dottrine e culti neopitagorici (Aurigemma, 1974). Nel punto di convergenza del più importante gruppo di acquedotti della Roma imperiale, a Piazza di Porta Maggiore, a Roma, si nasconde, al di sotto di sette metri dal livello della attuale via Prenestina e al di sotto di tre importanti linee ferroviarie, uno dei più ricchi e meglio conservati complessi monumentali con decorazioni a stucco dell’epoca romana: esso fu portato alla luce casualmente, in seguito ad un cedimento del terreno lungo le linee ferroviarie citate, nell’aprile del 1917. L’edificio sotterraneo, scavato nella formazione vulcanica delle “pozzolane inferiori”, presenta lo schema basilicale a tre navate, con l’abside alla estremità della navata centrale (Fig. 4). Vi domina il colore bianco della decorazione a stucco: nel catino absidale è raffigurata Saffo nell’atto di lanciarsi dalla rupe di Leucade. Su tutte e tre le volte a botte, cornici modanate delimitano specchiature geometriche in cui si dispongono le rappresentazioni figurate che riconducono al repertorio della mitologia classica, al rituale mistico o a scenette di vita quotidiana. È probabile che la basilica fosse sorta per iniziativa di un gruppo di Romani colti e facoltosi aderenti a una setta mistica-esoterica legata alle dottrine neopitagoriche, in cui si professava la teoria della purificazione dello spirito e si credeva alla metempsicosi. Nel corso dei secoli gli stucchi hanno subito dei danni, costituiti da vaste cadute, ma il peggior nemico degli stucchi si è dimostrata

Figura 4 – Pianta della Basilica sotterranea di Porta Maggiore. A, B, C = navata centrale, navata sinistra, navata destra; D = vestibolo, con pozzo; E = ambulacro; F = ambulacro in discesa. I punti 1-11 indicano i principali stillicidi che, prima dei lavori del 1951-1952, minacciavano l’integrità degli stucchi (Fonte: Aurigemma, 1974)

l’acqua di infiltrazione dall’alto e di risalita capillare: in più luoghi i sali calcarei contenuti nell’acqua hanno creato, sugli stucchi, spessi veli come di lastre traslucide o ringrossi d’apparenza filamentosa. Inoltre la continua azione degli stillicidi ha reso plastici in molti punti gli stucchi, di cui taluni elementi sono andati perduti. Ad evitare tali danni, nel 1924 fu stesa una cappa impermeabile su tutta l’area occupata dalla basilica sotterranea. Segni di fenomeni di schiacciamento in alcuni pilastri stavano a dimostrare che le azioni dinamiche dovute al passaggio dei treni sui soprastanti binari influivano nocivamente sulle condizioni di stabilità delle strutture della basilica, pertanto fu effettuato l’isolamento completo della stessa, portato a compimento nel 1952 (Aurigemma, Orlandini, 1953). Successive indagini geologico-tecniche effettuate nei primi anni ’90 hanno messo a punto alcuni aspetti idrogeologici del sistema, come le oscillazioni della falda idrica (la cui superficie libera si trova a circa 2 m sotto il pavimento della basilica), il ritardo fra la massima piovosità e il massimo innalzamento della falda, e il grado di umidità delle strutture murarie alle varie quote (Gisotti, Pecci, 1993). Le opere di isolamento e di protezione della basilica non hanno completamente evitato l’elevato grado di umidità che impregna la struttura, umidità che d’altra parte non può essere annullata, pena il degrado degli stucchi. Attualmente, grazie al ricorso a sistemi altamente tecnolo-

gici, si sta operando il restauro degli stucchi, a cura della Soprintendenza Speciale Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Roma. 2.3. SOLUZIONI INSEDIATIVE IPOGEE

Anche in questo caso innumerevoli sono gli esempi, in quasi tutto il mondo e in varie epoche, di ipogei artificiali legati ad insediamenti. In questa sede si fa riferimento ai Sassi di Matera, che potrebbero anche far parte delle forme ipogee naturali, ma si preferisce inserirli fra quelle artificiali in quanto l’elemento all’origine dei Sassi, la caverna presente nelle teneri calcareniti dell’altopiano delle Murge, subisce una evoluzione costruttiva e urbanistica talmente importante da porre in sott’ordine l’elemento naturale. CASO DI STUDIO. I SASSI DI MATERA, UN EQUILIBRIO FRA CAVITÀ NATURALI E COSTRUITO

I Sassi occupano la parte alta del versante destro della stretta e profonda Gravina di Matera, una incisione fluviale costituita da tenere calcareniti quaternarie in trasgressione sui tenaci calcari mesozoici di base. Le calcareniti sommitali sono state sempre ricche di grotte. Sede di stazioni preistoriche e parzialmente abitati già in epoca ellenistica e romana, i Sassi devono l’originalità della loro fisionomia essenzialmente alla costante tendenza dell’uomo di adattare il tessuto urbano alle caratteristiche geologiche del Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

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territorio preesistente e, viceversa, di modellare l’ambiente per consentire l’espansione dell’impianto urbano (Gisotti, 2016). L’aspetto peculiare del tessuto edilizio sta nel modo con il quale strutture e manufatti poggiano sulla superficie o si inseriscono nel sottosuolo di terrazzi stretti ma ripetutamente sovrapposti, naturali o spesso ottenuti con tagli in roccia verticali o subverticali, con spianate e talora con parziali colmate. In gran numero grotte ampliate, cisterne d’acqua, manufatti d’ogni tipo, dimensioni ed epoca sono scavati o poggiano sulla calcarenite di ciascun terrazzo naturale, tanto che il complesso si può definire un insieme di terrazzi geomorfologici che l’uomo ha trasformato in un sistema terrazzato artificiale. La totale e perfetta aderenza dell’impianto urbano dei Sassi al difficile andamento della superficie del versante, l’intimo adattamento delle singole unità abitative e dei manufatti in genere (tagli, terrapieni, cisterne d’acqua, strade, scale, cortili, chiese, ecc.) alla roccia, l’apprezzabile valore che il rapporto tra i volumi di scavo e di edificato molto spesso assume, sono elementi di giudizio sufficienti nel valutare l’entità del rimodellamento subito dal pendio sotto l’intensa e multiforme azione dell’uomo (Cotecchia, 1974). Il susseguirsi ed il sovrapporsi alla rinfusa dei citati innumerevoli interventi, lasciano intendere come, più che a scelte ingegneristiche ed architettoniche, le numerose espansioni subite nel tempo dall’area urbana siano state dettate da esigenze di carattere squisitamente praticoeconomico, per cui lo scavare costava meno che costruire, peraltro utilizzando una roccia facilmente lavorabile con i mezzi dell’epoca e che ha discrete capacità portanti. Passando ai particolari, si accenna alla realizzazione del singolo elemento abitativo, per cui, utilizzando una cavità naturale veniva effettuata una regolarizzazione ed ampliamento della stessa per recuperare spazio; il materiale estratto era lavorato per produrre conci, con i quali si costruivano i vani antistanti e la facciata sulla strada (Musotto, 2017). Il primo passo consisteva nella chiusura dell’ingresso della grotta con il tufo estratto dallo scavo, in forma di parete, la cosiddetta palomba. Lo stesso tufo estratto veniva utilizzato per rivestire la cavità interna in forma di volta a botte. Questa struttura si prolungava poi all’esterno, oltre l’ingresso della grotta, e diventava autonoma realizzando la cellula costruttiva di base chiamata lamione: un corpo indipendente e addossato alla grotta, modellato anch’esso a volta, che costituiva quasi un prolungamento dello spazio interno verso l’esterno, di cui manteneva la forma. Una specie di “grotta costruita” delimitata da due spesse pareti in tufo, atte a contenere le spinte della volta (Fig. 5). Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

Figura 5 – Evoluzione tipologica dei Sassi. Le cavità naturali furono ampliate con vani costruiti davanti alle stesse e con la facciata sulla strada, realizzata spesso su un terrazzo naturale. Nei disegni si passa dalla grotta naturale alla grotta tamponata e al lamione (Laureano, 1993, 1995)

I Sassi Caveoso e Barisano presentano oltre Questa forma artificiale trova confronto dieci piani di cavità sovrapposte, con i vari con un altro spettacolare taglio di roccia eflivelli collegati tra loro da pozzi e dispositivi fettuato per il passaggio a mezza costa della di aerazione verticali. via lungo il Danubio, a Djerdap (Serbia), realizzato sotto Traiano. 2.4. FORME LEGATE ALLA REALIZZAZIONE DI STRADE, Un cenno meritano le Vie Cave etrusche, FERROVIE E IN GENERALE INFRASTRUTTURE LINEARI che erano trincee stradali, tipiche delle aree (QUALI TRINCEE O TAGLI DI ROCCIA) dell’Etruria vulcanica (grosso modo l’odierna Uno dei più noti tagli di roccia realizzati Tuscia romana), in cui dovevano essere supeper far passare una strada fu quello relativo rati i forti dislivelli esistenti tra la sommità alla Via Appia Antica: fu attaccato un alto pro- dei plateaux vulcanici ed il fondo delle forre montorio di roccia calcarea proteso nel mare, scavate in essi dai corsi d’acqua (Regione Lache separava la Pianura Pontina ad ovest dal- zio, 2015). Nei comuni di Bagnoregio, frazione la Pianura di Fondi ad est, e che costituiva di Civita, e di Pitigliano sono ancora presenti l’estrema propaggine di Monte S. Angelo (nel lunghi tratti di Vie Cave. territorio di Terracina). L’esigenza di creare un collegamento stradale costiero, per evitare 3. FORME DI ACCUMULO Anche nel caso delle forme di accumulo l’esistente impervio e più lungo percorso della Via Appia Antica situato nell’ambiente mon- (o, possiamo dire, emergenti dalla superficie tano interno, richiese di effettuare in questo terrestre) le attività umane possono dar luopunto una vasta opera di sbancamento della go a svariate funzioni nel corso della storia e roccia; l’opera fu realizzata probabilmente in della preistoria. Se consideriamo i rilievi artificiali in terra epoca imperiale (Fig. 6). e/o in detriti di alterazione di mattoni, possiamo classificarli in tumuli dell’Europa, includendovi i mound del nord America, o in tell del Medio Oriente (in realtà i tell derivano in gran parte dalla degradazione delle ziggurat, che non esistono più integre). Tutte queste forme a tumulo, di estremo interesse per l’archeologia, furono dovute a processi di lungo termine inerenti attività sociali, economiche, politiche e specialmente rituali/funerarie (Goldberg, Macphail, 2006). Oggi in archeologia e paletnologia si tende a dare il nome latino tumuli (singolare tumulus) a qualsiasi tipo di intervento umano di elevazione dal suolo, qualunque funzione esso abbia e qualunque materiale sia servito per la sua realizzazione. Fra le forme artificiali di accumulo possiamo includere anche le terramare, le discariche di rifiuti e i terreni di riporto. Non includiamo in questa classificazione, fra le forme artificiali di accumulo, le costruFigura 6 – La grande parete artificiale del Pisco Montano, sulla costa di Terracina: il taglio di questo promontorio cal- zioni massicce in pietra (e in generale tutte le careo permise a questo nuovo tratto della Via Appia Antica di seguire un percorso lungo costa, più breve e agevole rispetto costruzioni in calcestruzzo, cemento armato, a quello interno più lungo e accidentato acciaio, legno, ecc.), come le piramidi (ad

esempio quelle d’Egitto o quelle dell’Ame- sassone e vichingo (Bray, Trump, 1973). Nella rica Latina), e le muraglie (come la Grande Fig. 7 sono indicate le più frequenti tipologie Muraglia cinese o il Vallo di Adriano nella di tumuli, con camera. Britannia). In sintesi, possiamo distinguere tra le forme di accumulo artificiali le seguenti categorie, sempre sotto l’ottica della ricerca archeologica: • tumuli funerari e tell; • terramare; • discariche di rifiuti; • terreni di riporto. 3.1. I TUMULI FUNERARI E I TELL

Esempi di tumuli a scopo funerario sono le tombe a tumulo etrusche (tipiche le tombe di Cerveteri), o i tumuli funerari del Neolitico e dell’età del Bronzo della Gran Bretagna (Fig. 7) o dell’età del Bronzo della Baviera. Si possono inquadrare nel termine generale tumuli anche i kurgan; questo termine deriva da una parola turco-tartara che indica collinette o tumuli contenenti una sepoltura in una tomba a fossa, una casa sepolcro o una tomba a catacomba. Il termine cultura kurgan indica l’insieme di quelle culture preistoriche e protostoriche dell’Eurasia (Europa orientale, Asia centrale e Siberia), che usavano seppellire i morti di alto rango in tumuli funerari, edificati a partire dal 4000 a.C. circa e particolarmente nell’Età del Bronzo. Simili ai tumuli dell’Europa per le loro funzioni sono i mounds del nord America, collinette in terra costruite dai nativi sulle rive del fiume Mississippi. Costruito fra l’800 e il 1400 d.C. dalla civiltà precolombiana detta Cultura del Mississippi, e con una popolazione che si ritiene abbia toccato i ventimila Figura 7 – Tipi di tumuli in Gran Bretagna. Sezioni di: a) a coppa; b) a campana; c) a disco; d) a laghetto; abitanti intorno al 1100 d.C. (epoca del suo tumulo e) a piattino; f) pianta del lungo tumulo di Nutbane (Fonte: massimo sviluppo) il sito archeologico con- Bray, Trump, 1973) siste in circa centoventi tumuli artificiali; I tell (Fig. 8) sono colline artificiali costida qui la denominazione informale di Mound Builders, vale a dire “costruttori di tumuli”. tuite da cumuli di detriti, in gran parte limo e sabbia fine, derivanti dalla degradazione di CASO DI STUDIO. I TUMULI IN GRAN BRETAGNA. antichi monumenti o insediamenti costruiti Anche in Gran Bretagna è presente una con mattoni di fango cotti al sole, spesso risaparticolare tipologia di tumulo, sotto forma lenti all’età del Bronzo; di solito i tell derivano di collinetta circolare o allungata, che si dalla degradazione delle ziggurat. I tell offroeleva sopra una o più tombe. La collinetta è no una situazione privilegiata che permette la spesso circondata da un fossato e le sepoltu- determinazione delle sequenze cronologiche re possono essere contenute entro una cista (Cremaschi, Morandi Bonacossi, 2016). (struttura funeraria a forma di scatola fatta di lastre di pietra messe di costa), un recinto CASO DI STUDIO. IL TELL SHIOUKH FAOUQANI funerario, una casa sepolcro o una tomba a SULL’EUFRATE Il tell Shioukh Faouqani si trova sulla camera. Lunghi tumuli di terra appartengono al Neolitico antico e medio. Altri lunghi tumuli sponda sinistra del Fiume Eufrate, nei pressi furono costruiti sopra tombe megalitiche, del di Jerablus, Siria settentrionale, circa 8 km a tipo tomba a galleria. La maggior parte dei sud di Carchemish. Il sito fu abitato dal Tardo tumuli circolari in Inghilterra, alcuni dei quali Uruk (Bronzo antico) fino al periodo Medio Islaincorporano cerchi di palizzate, appartengono mico (Cremaschi, Morandi Bonacossi, 2016). all’età del Bronzo, sebbene la sepoltura sotto L’insediamento più antico risulta fondato su una collinetta circolare sia stata praticata di un lembo di terrazzo fluviale ghiaioso, che occasionalmente nei periodi romano, anglo- aveva una posizione preminente sulla pianu-

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Figura 8 – Un tell alla estremità settentrionale della Mesopotamia, in un paesaggio semiarido attraversato da un corso d’acqua, intorno al quale le acque di irrigazione permettono l’attività agricola. Il tell (il nome deriva dall’arabo e significa collina) è un tumulo costituito da detriti derivanti dalla degradazione di un insediamento a lungo occupato. I tell, cumuli di rovine alcuni dei quali sono alti 30 o più metri, si trovano solitamente in regioni dove gli edifici erano in mattoni di fango cotti al sole, materiale di durata limitata e troppo abbondante perché valesse la pena di salvare l’edificio (talora una ziggurat), quando cadeva. I tell del Medio Oriente vengono assai spesso studiati in archeologia sia per la loro notevole evidenza stratigrafica che per i lunghi periodi di tempo che essi rappresentano

ra circostante. La forma asimmetrica del tell (ripido versante NW) appare dovuta all’attività erosiva dell’Eufrate, che è anche responsabile dell’affioramento del nucleo più antico del sito, costituito da edifici monumentali del Bronzo antico (Fig. 9). Anche il versante orientale del tell appare delimitato da una piccola incisione, che segna in parte il tracciato di un antico fossato. Il maggiore sviluppo urbanistico si ebbe verso meridione, lungo la superficie stabile e piatta del terrazzo fluviale. Un interessante risultato delle indagini è stato ottenuto dall’esame del riempimento di una strada che separava edifici pubblici e privati. Tale riempimento era costituito principalmente da frammenti di mattoni che risultavano derivati dal disfacimento delle facciate delle costruzioni, da fitoliti (deposizioni di silice amorfa nelle cellule vegetali), coproliti ovicaprine e cenere. L’alternanza ritmica di tali depositi suggerisce che tali riempimenti siano stati la conseguenza di successione ciclica di stagioni umide e secche dove ogni ciclo è durato circa 70 anni. L’esplorazione del sito archeologico di tell Shioukh Faouqani è stata eseguita mediante uno schema operativo composto da tre fasi (Cremaschi, 2005; Cremaschi, Morandi Bonacossi, 2016). Nella prima fase sono state applicare tecniche non distruttive, poiché non hanno implicato un intervento diretto sul deposito e sono consistite nell’analisi geomorfologica e geochimica di dettaglio: il rilievo geomorfologico a scala di dettaglio ha dato informazioni sulla consistenza, lo stato di conservazione del sito ed ha orientato il successivo sviluppo degli scavi. La seconda fase è consistita negli accertamenti stratigrafici mediante carotaggi, nella descrizione delle carote e nel loro campionamento. La terza fase infine ha riguardato le analisi di laboratorio. Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

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tificati, formatisi, attraverso i secoli, con il succedersi delle abitazioni che venivano ricostruite una sull’altra. Infatti erano antichi villaggi dell’età del Bronzo media e recente (circa 1650-1150 a.C.) dell’Emilia e delle zone di bassa pianura del Po. Furono insediamenti commerciali lungo una via che attraversava le Alpi nella Val Camonica e giungeva alle sponde del Po, dove venivano costruite le terramare che fungevano da depositi e punti di partenza delle merci (costituite principalmente da ambra dal Mar Baltico e stagno dal nord Europa), con direzione lungo il Po fino alla foce e all’Adriatico, e quindi verso il Mediterraneo orientale (Bernabò Brea et al., 1997). Nel corso dell’Ottocento le collinette furono per la maggior parte distrutte dall’attività di cava volta al recupero del terriccio, che veniva venduto come concime. Il termine andò poi in disuso con la dismissione di queste cave e rimase ad indicare solamente i villaggi dell’età del Bronzo. Oggi con questo termine si suole indicare un villaggio fortificato di forma quadrangolare, contraddistinto da un terrapieno (o palizzata lignea nelle fasi più antiche) e da un fossato esterno. 3.3. LE DISCARICHE

Figura 9 – Rilevamento geomorfologico e sezione stratigrafica schematica relativa al tell Shioukh Faouqani (Siria settentrionale). 1) terrazzo dell’Eufrate con la città bassa; 2) terrazzo dell’Eufrate; 3) antico alveo dell’Eufrate; 4) meandro abbandonato; 5) scarpata principale; 6) scarpata minore; 7) solchi d’erosione concentrata. LBA: Bronzo tardo; EBA: Bronzo antico (Fonte: Cremaschi, Morandi Bonacossi, 2016)

3.2. LE TERRAMARE

Nell’ambito delle strutture di accumulo, merita accennare alle terramare. È una voce dialettale nell’Emilia, corruzione di “terremarne”, usata per indicare ammassi di terra nerastra e grassa: questi ammassi in origine si presentavano per lo più come monticelli di

2-5 metri d’altezza e si solevano in passato scavare per adoperare la terra come concime naturale. La frequenza, in queste collinette, di reperti vari, attrasse l’attenzione di qualche erudito ai primi dell’ottocento e poi man mano di vari archeologi, i quali scoprirono che si trattava di depositi archeologici pluristra-

Figura 10 – Le colline artificiali formate dalle discariche di rifiuti solidi minerari derivanti dalla attività delle miniere di Monteponi in Sardegna costituiscono una significativa e caratteristica emergenza del paesaggio locale; inoltre possiamo definirle come un esempio di archeologia industriale (Fonte: G. Gisotti)

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Altre forme artificiali di accumulo sono state e sono i depositi di rifiuti solidi: dal Colle dei Cocci al Testaccio a Roma (vedi) alle discariche di rifiuti solidi minerari della Sardegna. Si riporta l’immagine di una discarica di rifiuti minerari della Sardegna, fin da epoca storica sede di intensa attività mineraria (Fig. 10). CASO DI STUDIO. UNA COLLINA ARTIFICIALE FATTA DA COCCI A ROMA.

Un altro caso tipico di rilievo antropico è quello del Monte Testaccio a Roma, popolarmente noto come Monte dei Cocci (Fig. 11). È una collina artificiale formata esclusivamente dai frammenti o cocci (in latino testae da cui il nome Testaccio) di milioni di anfore usate per il trasporto delle merci che sbarcavano in epoca romana nel vicino porto fluviale, sistematicamente scaricati ed accumulati con ogni probabilità  tra il periodo augusteo e la metà del III secolo d.C. (Grubessi, Martini, 1993). Il Monte, con un perimetro di base di circa un chilometro ed un’altezza massima di 54 metri sul livello del mare, costituisce una importante fonte storico-documentaria sullo sviluppo economico dell’Impero Romano, sulle relazioni commerciali tra Capitale e province, nonché sulle abitudini alimentari dei Romani. Infatti, molte anfore, provenienti in prevalenza dalla Betica (odierna Andalusia) e dalla Bizacena (Africa settentrionale) contenenti olio di oliva, conservano il marchio di fabbrica impresso sulle anse, mentre altre presentano i tituli picti, ovvero delle note scritte a pennello in

cui sono riportati il nome dell’esportatore, le tura, ad esempio quando una colata di lava si “Terreno di riporto, di natura prevaindicazioni sul contenuto, i controlli eseguiti riversa in una incisione valliva riempiendola, lentemente piroclastica, sostanzialmente durante il viaggio e la data. per cui si passa ad un rilievo allungato.. granulare, con processi di argillificazione in atto; tale materiale ingloba elementi litoidi eterometrici di tufo vulcanico terroso, in via di alterazione. Il materiale è stato incontrato da tutte le perforazioni nell’area sottostante il Palazzo [“Valentini”, sede della Provincia di Roma], ed ha uno spessore variabile dai 6 ai 16 m. Il suo spessore sembra aumentare dal lato della facciata del Palazzo [Via C. Battisti] verso il lato che dà sul Foro Romano. Il terreno di riporto, essendo costituito da materiali con proprietà geomeccaniche molto difformi, è caratterizzato da parametri geotecnici che variano in un campo di valori estremamente ampi e pertanto mal si presta ad essere rappresentato mediante una collocazione univoca”. Va da sé che anche i caratteri idrogeologici variano grandemente, per cui si può passare dai terreni granulari, permeabili e talora Figura 11 – Il Monte Testaccio, in latino Mons Testaceus, popolarmente noto come Monte dei Cocci, è una collina artificiale a Roma di circa 36 metri di altezza, vera e propria discarica specializzata di epoca romana. È costituita da strati di cocci acquiferi a quelli coesivi e praticamente improvenienti da più di 53 milioni di anfore, per la maggior parte olearie. I contenitori di terracotta, scaricati dal vicino permeabili, che a luoghi possono sostenere porto fluviale sul Tevere, una volta svuotati dal contenuto, venduto sul mercato capitolino, venivano rotti e accatastati ordinatamente, con la pratica dell’usa e getta. Il colle si trova tra le mura aureliane e la sponda sinistra del Tevere, una piccola falda acquifera sospesa. Spesso nell’omonimo rione Testaccio tali riporti contengono notevoli materiali archeologici. 3.4. I TERRENI DI RIPORTO Va ricordato che in tempi recenti furono Infine non possiamo dimenticare i terreni eliminate colline (ad esempio la collina Velia, 4. FORME DOVUTE A OPERAZIONI IDROLOdi riporto derivanti dagli eventi storici delle tra il Colosseo e l’attuale Piazza Venezia) op- GICHE/IDRAULICHE Abbiamo inserito nella terza categoria decittà antiche, a cominciare da Roma. pure furono realizzati alti rilevati per rendere rettilinee o alzare la livelletta di nuove strade, gli interventi umani che hanno modificato le CASO DI STUDIO. I TERRENI DI RIPORTO NEL CENTRO come Via Cavour tra Piazza dell’Esedra e il forme terrestri o che ne hanno creato di nuove, STORICO DI ROMA. traforo di Via Principe Amedeo (allorché la quelli relativi alle opere che hanno interferito Un caso emblematico di accumulo di ma- Capitale del Regno d’Italia fu trasferita da Fi- con l’acqua, anche se parte delle tipologie di teriali delle più variate dimensioni e natura, renze a Roma), o furono tagliate intere colate tali opere potevano essere classificate in una protrattosi per circa 2500 anni, è quello dei di lava, come è accaduto per la colata di lava delle due categorie precedenti, quelle di scavo materiali di riporto nel centro storico di Roma, di Capo di Bove, che scende dai Colli Albani o di riporto. Le grandi civiltà, ad esempio le cha hanno contribuito a innalzare e livellare fin quasi al Tevere ed è sede della Via Appia cosiddette “civiltà fluviali” come quella mela superficie delle città. Antica, per farvi passare il Grande Raccordo sopotamica, quella del Nilo, quella romana, La geomorfologia dell’area attualmen- Anulare. A proposito di quest’ultimo, in tempi sono state fortemente contraddistinte da te occupata dalla città corrisponde poco a recenti la grande trincea del G.R.A. è diven- forme artificiali connesse con l’acqua, argoquella dell’antica Roma, repubblicana e im- tata una galleria artificiale, in modo da ripri- mento che attrae sempre gli studiosi per gli periale, né tanto meno all’area nella quale fu stinare la continuità della Via Appia Antica. aspetti antropogeomorfologici, tecnicistici, fondata intorno al 750 avanti Cristo. Nel corso I materiali scaricati dall’attività umana archeologici e storici (Fiore et al. 2017). dei millenni, eventi antropici quali distruzioni andarono a depositarsi sulle due tipologie Possiamo classificare tali forme nelle sein seguito a invasioni, incendi, rimodellamen- fondamentali di terreni, quelli che costi- guenti categorie: ti ed eventi naturali come alluvioni, terremoti, tuiscono il fondovalle del Tevere e dei suoi • canali; frane, sprofondamenti, hanno modificato par- affluenti e quelli dei colli circostanti, ossia • bacini idrici artificiali; te del sottosuolo e la superficie o con l’apporto i depositi alluvionali olocenici e i materiali • saline; di nuovi materiali, quali ruderi, macerie, rifiuti eruttati dai vicini apparati vulcanici (i depo- • peschiere romane; solidi, depositi alluvionali recenti e attuali del siti piroclastici e le lave). Questi materiali de- • opere idrauliche marittime (opere di difeTevere e dell’Aniene, terre e rocce provenienti positatisi in tempi storici per opera dell’uomo sa delle coste e porti). da scavo, oppure con lo scavo, ad esempio hanno col tempo raggiunto un tale spessore per aprire cunicoli per acquedotti, catacom- ed estensione, che vengono considerati una 4.1. CANALI. CANALIZZAZIONE FLUVIALE, CANALI be, templi pagani e chiese cristiane sotter- vera e propria formazione geologica autono- NAVIGABILI, REGIMAZIONE DELLE ACQUE URBANE, ranei (come la Basilica sotterranea di Porta ma. Essa occupa gran parte del Centro storico OPERE IRRIGUE, ACQUEDOTTI, CANALI SCOLMATORI, Maggiore), trincee per strade e ferrovie, cave della città e non solo, con uno spessore mas- CANALI PER ATTIVITÀ MINERARIA. Nel campo delle opere idrauliche, si sotterranee per reperire materiali da costru- simo di circa 20 metri. zione, trafori per strade e linee metropolitane. Una descrizione di tale terreno di riporto accenna alla canalizzazione fluviale, ossia Alcune delle citate attività umane hanno viene ripresa dal volume “La geologia di Ro- a quella tipologia di opere che modificano portato ad una “inversione del rilievo”, un ma. Il centro storico” pubblicato dal Servizio l’alveo naturale allo scopo del controllo delle piene, del drenaggio delle acque, della processo geomorfico che spesso accade in na- Geologico Nazionale (1995). Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

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Temperature dell’acqua idonee: ombreggiamento adeguato, a causa della vegetazione ripariale; buona presenza di ricoveri per pesci; minima escursione termica; abbondante apporto di foglie (nella catena alimentare)

Pool (limo, sabbia e ghiaia fine)

Incremento delle temperature dell’acqua: assenza di ombreggiamento; mancanza di ricoveri per i pesci; rapide escursioni termiche giornaliere e stagionali; ridotto apporto di foglie

Riffle (ghiaia grossa)

Ghiaia assortita fornisce habitat diversificati per parecchi organismi delle acque correnti

Variazioni della velocità dell’acqua: elevata nei pool, minore nei riffle. Ripari dalla corrente abbondanti, nelle sponde sottoescavate o dietro massi

Profondità dell’acqua sufficiente per sostenere pesci ed altra vita acquatica durante la stagione secca

Ghiaia non assortita : riduzione degli habitat; pochi organismi

Le velocità della corrente possono superare quelle tollerabili da alcune specie acquatiche. Ripari dalla corrente pochi o assenti

Profondità della corrente durante la stagione secca insufficiente per sostenere la diversità della fauna acquatica. La diversità è scarsa se non ci sono pool ( tutti riffle)

Figura 12 – Canalizzazione: confronto tra la morfologia e l’idrologia di un corso d’acqua naturale e di uno artificializzato e suggerimento di alcune possibili conseguenze ecologiche. Spesso i corsi d’acqua presentano fondali irregolari, con alternanza di zone, più o meno profonde, note come riffle (bassofondi, raschi) e pool (pozze). Le sequenze riffle-pool caratterizzano il corso d’acqua e indicano stati di equilibrio o meno, sia sotto l’aspetto ecologico che della dinamica fluviale (Fonte: Goudie, 1981, in Gisotti, Zarlenga, 2004)

navigazione e della riduzione o prevenzione dell’erosione, che consiste nel raddrizzamento delle anse fluviali e, nel complesso, in una artificializzazione del corso d’acqua, non solo nella planimetria e altimetria ma anche nell’uso di materiali spesso diversi da quelli che costituivano le sponde e il fondo del corso d’acqua. Nella Fig. 12 vengono presentati alcuni effetti ecologici della canalizzazione fluviale, argomento che viene studiato nell’ambito della dinamica fluviale (Gisotti, Zarlenga, 2004). È differente dalla citata canalizzazione fluviale l’operazione di apertura di nuovi canali adibiti alla navigazione (canali navigabili), alla regimazione delle acque urbane, al drenaggio di un’area paludosa, alla irrigazione, al controllo delle piene (canali scolmatori). Nell’antichità non furono pochi i canali navigabili e si accenna alla Fossa Corbulonis, descritta da Tacito, un importante canale fatto costruire dal generale romano Corbulone nel I sec. d.C. utilizzando le sue truppe: esso si sviluppava per circa 30 km nei Paesi Bassi, Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

in direzione parallela alla costa e collegava la foce della Mosa con quella del Reno, che si gettano nel Mare del Nord (Werther et al., 2018). Un’altra operazione idraulica è la regimazione delle acque urbane, che specialmente in epoca arcaica fu applicata a varie città greche e romane. Tale tecnologia fu applicata per allontanare le acque dai primitivi insediamenti urbani, sia come smaltimento delle acque reflue che come allontanamento di acque ruscellanti o incanalate che minacciavano la sicurezza dell’abitato e degli abitanti. Tali opere modificarono le forme del terreno, come si illustra nel caso di studio seguente. CASO DI STUDIO. LE OPERE DI REGIMAZIONE DELLE ACQUE URBANE IN ETÀ ARCAICA, NELLE CITTÀ GRECHE E ROMANE

Nell’ambito delle opere idrauliche che, secondo la classificazione adoperata in questo testo, hanno modificato l’assetto geomorfologico, inseriamo le opere di regimazione delle

acque urbane (acque bianche e/o nere), che svolgono un ruolo particolare in quanto si collegano più o meno direttamente al tema dello sviluppo e della gestione degli impianti urbani, con le conseguenti, accresciute esigenze di consumo e di pianificazione territoriale connesse ai fabbisogni di comunità in espansione. Le opere di regimazione (o regimentazione) delle acque urbane nell’antichità e in particolare in età arcaica (VII-VI sec. a.C.) si resero necessarie per vari scopi: per lo smaltimento delle acque reflue urbane, per eliminare i ristagni d’acqua e per allontanare rapidamente dal sistema urbano il flusso dei corsi d’acqua che percorrevano l’abitato, provenienti da aree situate a monte dello stesso; infatti questi flussi, con la loro elevata massa ed energia cinetica, costituivano una minaccia continua sia per gli abitanti che per le strutture urbane. Tali opere idrauliche, sia superficiali che sotterranee, si resero necessarie specialmente in età arcaica, nelle fasi iniziali degli insediamenti, quando questi dovettero adattarsi alla geomorfologia del paesaggio preesistente, dove erano presenti depressioni che raccoglievano le acque di pioggia e quelle ruscellanti, oppure erano attraversati da incisioni torrentizie, ma nello stesso tempo dovettero intervenire sulla geomorfologia, modificando le forme delle incisioni torrentizie. Tipico esempio di opera indirizzata alla bonifica idraulica urbana, fu la Cloaca Maxima di Roma, realizzata dai Re Tarquinii alla fine del VI secolo a.C. (Fig. 13). Si ritiene che in origine si trattasse per lo più di un canale a cielo aperto, che raccoglieva le acque dei corsi d’acqua naturali che scendevano dalle colline: l’opera drenava la pianura del Foro Romano e il Velabro, allora acquitrinosi, per riversarle nel fiume Tevere. Questo canale, comunque scavato al di sotto del livello del suolo, sarebbe stato progressivamente coperto per le esigenze di spazio del centro cittadino (Palombi, 2013) allo scopo di occupare stabilmente la superficie destinata alla vita associativa della civitas romana. Il processo formativo di questo spazio fu articolato in diversi momenti dell’età arcaica e l’impresa compiuta sotto gli ultimi re di Roma va vista come l’ultimo di una serie di interventi mirati alla soluzione del problema, consistenti in successivi riempimenti artificiali della valle, l’ultimo dei quali incluse anche la realizzazione del monumentale condotto sotterraneo, avente come obiettivo quello di canalizzare un torrente naturale. Nel lungo percorso della Cloaca Maxima, dal Velabro (foro di Augusto e Foro Romano) fino al Tevere, sono testimoniate tutte le fasi di trasformazione alle quali la grande fognatura fu sottoposta nel tempo, per le complesse vi-

cende architettoniche degli edifici soprastanti, in particolar modo nel lungo arco di tempo che vide la realizzazione dei Fori Imperiali. Locri Epizefiri, colonia greca fondata alla fine dell’VIII secolo a.C., si affacciava sullo

Figura 13 – Un tratto della Cloaca Maxima

Ionio in una stretta fascia costiera, ai piedi di un sistema collinare che costituisce le estreme propaggini dell’Aspromonte. Scopo diverso da quello della bonifica idraulica ebbero le opere idrauliche realizzate a Locri Epizefiri, realizzate per mitigare il rischio idraulico. Infatti la configurazione del territorio sul quale si insediarono i coloni locresi rivela caratteri geomorfologici peculiari che determinarono uno stretto rapporto tra l’insediamento e il flusso di corsi d’acqua di ingente portata che, provenienti dai valloni alle spalle dell’abitato, si dirigevano verso il mare (Elia, 2015). Fin dalle prime fasi di occupazione del territorio, i corsi d’acqua dovettero condizionare profondamente i modi e i tempi della delimitazione del perimetro urbano e dell’organizzazione interna dell’abitato, costituendo una risorsa, ma anche una minaccia: infatti il riconoscimento delle tracce di inondazioni a forte impatto distruttivo avvenute a partire dal VII secolo a.C. costituisce un chiaro indizio in tal senso. Dopo una prima fase di occupazione, nel corso del VI secolo a.C. si assiste ad una radicale ristrutturazione dell’abitato, nella quale si inserisce la realizzazione di imponenti opere idrauliche atte a contenere le acque provenienti dalle colline retrostanti. Tali opere di regimazione si accompagnano strettamente con lo sviluppo sul terreno di una pianificazione organica, strutturata sulla base della reciproca organizzazione funzionale dei diversi elementi. A Cuma, altra città fondata dai Greci, che si affacciava sul Tirreno, si assiste al raccordo fra la pianificazione urbana del quartiere settentrionale dell’abitato (inizi del VII secolo a.C.) e lo smaltimento delle acque reflue verso l’esterno della città (D’Acunto, 2015). Tale smaltimento doveva essere canalizzato attraverso gli assi viari principali nord-sud, sfruttando le pendenze offerte dalla geomorfologia dell’area, dall’interno all’esterno della città: si tratta di un elemento determinante nella costruzione dell’impianto urbano non regolare, ma attentamente adeguato alle

curve di livello. Solo a partire dal VI secolo a.C. il problema, vitale per la città, dello smaltimento delle acque reflue viene affrontato attraverso la realizzazione di imponenti condotti sotterranei foderati di lastre: questi sono stati messi in luce ai lati della porta mediana delle mura settentrionali. Il più antico condotto fognario presenta una struttura assai accurata in blocchi squadrati e va in fase con il circuito murario impiantato alla metà del VI secolo a.C.; questo nuovo condotto si sversa nel grande fossato scavato all’esterno delle mura. Altre città antiche hanno realizzato sistemi di drenaggio urbano, come ad esempio a Selinunte. I casi citati sono solo alcuni dei numerosi di cui si potrebbe trattare e ce ne sono molti altri di cui abbiamo i reperti, come i sistemi di drenaggio urbano di Eretria (Eubea), Cerveteri, Pontecagnano, Elea – Velia. Non possiamo omettere un’altra tipologia di opere idrauliche indispensabili alla crescita della civiltà, ossia le opere irrigue: si accenna a quelle della Mesopotamia. CASO DI STUDIO. IL SISTEMA DI IRRIGAZIONE DELLA MESOPOTAMIA

Il ventaglio di rotta (crevasse splay) è una forma fluviale che si origina dalla “rotta” di un argine fluviale, di solito a causa di una piena: l’acqua e i sedimenti che fuoriescono dall’alveo formano un deposito a forma di ventaglio debolmente inclinato e col vertice nel punto di squarcio dell’argine. Il deposito é costituito essenzialmente da sabbie fini e da limo e pertanto costituisce un suolo relativamente fertile, sia dal punto di vista della granulometria che da quello della fertilità chimica. I ventagli di rotta, secondo Jotheri (Jotheri et al., 2017) e Wilkinson (Wilkinson et al., 2015), furono il primo sub-ambiente fluviale che le prime popolazioni della Mesopotamia (a cominciare dai Sumeri) colonizzarono per costruirvi il sistema di canali di irrigazione, allo scopo di deviare le acque dei fiumi (Tigri ed Eufrate) e realizzare le loro fattorie e quindi le città, come Uruk (Gisotti, 2016). Pertanto tali forme sono ricche di reperti archeologici. Questi popoli cominciarono con lo sfruttare il ventaglio di rotta e il canale (trasversale al canale fluviale principale), per realizzare una serie di canali artificiali minori, a spina di pesce, che si diramavano dal citato canale e che irrigavano ciascuno un piccolo appezzamento di terra. Questo sistema dei “campi lunghi”, con irrigazione a solco, era costituito da sottili strisce di terreno parallele fra loro, in leggera e regolare pendenza. In questo modo si otteneva una pendenza longitudinale dei piccoli canali ottimale per l’irrigazione e un basso grado di interrimento di tali canali.

Questo sistema idraulico fu sostenibile per lunghi periodi, per millenni (Fig 14). Per realizzare gli acquedotti furono scavati anche lunghi tratti di roccia, realizzando quindi delle trincee. Un esempio è stato l’ac-

Figura 14 – Modello di sviluppo del sistema irriguo degli antichi popoli della Mesopotamia: partendo dal canale naturale che ha dato luogo al ventaglio di rotta, si realizza una rete di canali a spina di pesce, dove ciascun canale irriga un appezzamento di terra (Fonte: Wilkinson et al., 2015; Jotheri et al., 2017)

quedotto che fa parte del sistema “acquedotto e mulini di Barbegal”, un complesso di mulini ad acqua del periodo romano situato nel territorio del Comune di Fontvieille, presso le foci del Rodano, vicino alla città di Arles, nel sud della Francia. Per alimentare i famosi “mulini di Barbegal”, si dovette realizzare un acquedotto, che per mantenere la giusta pendenza, oltre a oltrepassare le depressioni mediante arcate e opere in rilevato, passava attraverso trincee scavate nella roccia litoide locale. Per non parlare degli acquedotti dell’antica Roma, per i quali furono realizzati, oltre alle arcate, numerosi tratti in sotterraneo oppure in trincea, sempre allo scopo di mantenere la pendenza regolare e minima per garantire un velocità controllata dell’acqua, allo scopo di evitare danni alle strutture (Lombardi, 2015). Tra le funzioni per le quali furono realizzati canali, non possiamo omettere quei canali che servirono nell’antichità a controllare le piene fluviali, veri canali scolmatori come li intendiamo oggi: citiamo a questo riguardo la grande opera realizzata dai Romani allo scopo di difendere dalle alluvioni la città di Leptis Magna e il suo porto, nella Libia. CASO DI STUDIO. IL CANALE SCOLMATORE DI LEPTIS MAGNA

La città marittima di Leptis Magna si trovava ai bordi di un corso d’acqua della Libia, lo Uadi (o Wadi) Lebda, e ne utilizzava l’estuario come porto naturale. Allo scopo di proteggere Leptis ed il suo porto dal pericolo di inondazione dello Uadi, i Romani eressero un agger, cioè una barriera fatta di terra e detriti vari con un fossato-canale alla sua base (Fig. 15). L’agger circondava la città per alcuni chilometri e si connetteva con una diga dove esso intersecava lo Uadi Lebda. La diga serGeologia dell’Ambiente • n. 2/2018

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L’ESTRAZIONE DELL’ORO IN SPAGNA DURANTE IL PERIODO IMPERIALE ROMANO: TECNICHE IDRAULICHE E PAESAGGIO

Figura 15 – Pianta di Leptis Magna con il circuito difensivo costituito dall’agger e dal fossato prospiciente, che ha la funzione di canale scolmatore delle piene verso il vicino Uadi er-Rsaf. La diga forma un bacino sia a scopo di risorsa idrica che per la diversione della corrente verso il fossato e quindi verso lo Uadi er-Rsaf. La città è situata sulla conoide formata dallo Uadi Lebda, il cui estuario nel Mediterraneo è stato utilizzato per il porto (Fonte: Pucci et al., 2010, modificato, ripreso in Gisotti, 2016)

viva non solo come riserva idrica ma anche come struttura strategica per regolare e derivare il flusso idrico dello Uadi Lebda lungo il fossato dell’agger in uno uadi secondario a nord-ovest, lo Uadi Er-Rsaf (Gisotti, 2016). In questo modo i Romani realizzarono un vero e proprio canale scolmatore, che derivava le acque di piena dello Uadi Lemda (nella cui valle era ubicata la città e il bacino portuale) fino allo uadi secondario posto a nord-ovest della città, in modo da scaricare senza rischi le acque di piena su un altro corso d’acqua, che le avrebbe convogliate direttamente in mare, evitando che le acque in piena inondassero città e porto. L’età della realizzazione del sistema agger-diga non è noto, ma vari Autori suggeriscono che esso fu costruito fra il 30 e il 130 d.C. L’intero bacino a monte della diga fu poco alla volta colmato dai depositi alluvionali per la sua intera altezza: ciò avvenne fra il III e il IV secolo d.C. Quando l’interrimento (siltation) del bacino raggiunse la sommità della diga, la corrente idrica fu libera di fluire al di sopra di tale superficie e, tracimando fuori della diga iniziò a inondare il tratto a valle e ad alluvionare sia la città che il bacino portuale. L’interrimento completo del bacino di ritenuta (e del canale) avvenne alla fine Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

del IV secolo d.C. e questo processo fu dovuto alla mancanza di manutenzione del sistema agger-diga, manutenzione che probabilmente iniziò ad arrestarsi durante il III secolo d.C. Infine merita accennare ai canali realizzati per l’attività mineraria, strumenti che servirono più che altro come fonte di energia meccanica. La necessità di approvvigionarsi di metalli spinse vari popoli antichi ad utilizzare l’energia idraulica nelle varie fasi di estrazione e lavorazione dei materiali. Si cita l’esempio della miniera di Las Medulas, situata nella provincia di León (Spagna), che fu la più importante miniera d’oro dell’Impero Romano. Gli spettacolari paesaggi sono il risultato della Ruina Montium, una tecnica mineraria romana descritta da Plinio il Vecchio, che consisteva nella perforazione della montagna e nella successiva introduzione di grandi quantità d’acqua che letteralmente spingevano verso il basso porzioni di montagna, una tecnica che precorse quella californiana denominata “tecnica mineraria idraulica”. L’acqua necessaria veniva trasportata dalle montagne della Sierra de La Cabrera a Las Médulas attraverso un sistema di canali di centinaia di chilometri, alcuni dei quali si sono conservati fino ad oggi.

I Romani scoprirono il deposito d’oro di Las Médulas, nel nord-ovest della Spagna, risalendo il fiume Sil (Cesari, 2017). Il minerale era contenuto in un conglomerato aurifero: la tecnica usata fu quella di abbattere e disgregare tale conglomerato, e il sistema operativo era basato sull’uso dell’energia idraulica, canalizzando l’acqua del fiume, come spiegato da Plinio il Vecchio nel libro 33 della sua Historia Naturalis. Facendo acquistare all’acqua una elevata pendenza e quindi energia cinetica, il fluido veniva proiettato sul deposito aurifero, che veniva non solo disgregato ma anche trascinato a valle attraverso appositi canali; al termine di questi canali, il fango aurifero, ossia la miscela acqua-terra-particelle d’oro veniva indirizzata verso le vasche di lavaggio, dove l’oro veniva ricuperato. A Las Médulas furono rimossi complessivamente circa 84 milioni di tonnellate di terra e furono ottenuti tra le 3,5 e le 5 tonnellate di oro. Per ottenere gli elevati quantitativi di acqua e le notevoli pendenze necessarie, fu modificato il corso del fiume Sil con la costruzione di una galleria artificiale attraverso una montagna, lunga 120 m. Per agevolare lo scavo della galleria nella roccia calcarea, questa veniva disgregata riscaldandola mediante combustione di materiale organico e raffreddata rapidamente con l’acqua. Queste operazioni minerarie portarono col tempo alla trasformazione del paesaggio, in origine costituito da blande colline, sostituito da un nuovo paesaggio caratterizzato da pareti nude ed elevate e da cumuli di materiale sterile (Sanchez-Palencia, Orejas, 2015). Lo sfruttamento minerario iniziò nel I sec. d.C. e si è protrasse per due secoli. Il sito archeologico di Las Médulas è stato incluso nel 1997 nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO come uno dei migliori esempi di segno lasciato sulla evoluzione del paesaggio, non solo per gli spettacolari resti materiali di una attività del passato, ma anche per la possibilità di comprendere il continuo rapporto tra la società e il territorio occupato, tra le comunità e lo sfruttamento delle risorse naturali e in ultima analisi le relazioni sociali in cui si sviluppano l’occupazione e l’utilizzazione delle risorse. LA CENTURIAZIONE ROMANA

Tra le forme artificiali assume enorme importanza la centuriazione romana, che ha interessato non solo l’Italia ma anche l’Europa per alcuni secoli e che tuttora resta un elemento significativo del paesaggio. La centuriazione (centuriatio) era il sistema con cui i Romani organizzavano il territorio agricolo, basato sullo schema che già

adottavano nei castra e nella fondazione di nuove città. Si caratterizzava per la regolare disposizione, secondo un reticolo ortogonale, di strade, canali e appezzamenti agricoli destinati all’assegnazione a nuovi coloni (spesso legionari a riposo). Inseriamo questa tipologia di forme fra quelle idrauliche poiché l’aspetto della realizzazione dei canali, sia per drenare le acque in eccesso che per addurre l’acqua agli appezzamenti, assume un ruolo preminente rispetto agli altri. I Romani cominciarono ad utilizzare la centuriazione in relazione alla fondazione, nel IV secolo a.C., di nuove colonie nell’ager sabinus. Lo sviluppo delle caratteristiche geometriche ed operative che sarebbero divenute quelle classiche si ebbe con la fondazione delle colonie nella pianura padana, a partire da Ariminum (Rimini) nel 268 a.C. Per la morfologia pianeggiante e per tutto quanto ne deriva, le pianure alluvionali sono

roveri, con carpini, aceri, abete bianco e altre specie regnava sovrana nella pianura e nei rilievi collinari. Circa duemila anni più tardi – immagine B – così doveva apparire il paesaggio dopo la trasformazione per opera della colonizzazione romana, succeduta a quella paleoveneta. Eliminato il bosco planiziario, le terre di pianura erano divise in centurie di forma geometrica, sede dell’agricoltura, separate da strade, canali e filari di alberi. I resti del terreno non reticolato formavano l’agro che racchiudeva frammenti del bosco superstite, dove si esercitavano il pascolo e il legnatico. Sulle pendici sistemate sorgevano le “villae” rustiche e urbane, con oliveti, frutteti e altri fruttiferi. Con le grandi e piccole opere (canali, bonifiche, strade, ponti, acquedotti, ecc.) fuori delle città, il paesaggio di pianura possedeva un volto fortemente antropizzato, impressogli da una tecnologia agricola molto evoluta per quei tempi.

A

B

Anche nel periodo storico sono state costruite tali opere: qui si accenna alle dighe costruite dai Romani e in particolare alla diga di Proserpina, realizzata in Spagna per l’approvvigionamento idrico di Emerita Augusta (odierna Merida), tramite l’acquedotto De los Miraglos. La diga, di età augustea (I sec. a.C.) è stata restaurata recentemente, è lunga circa 427 m e alta circa 22 m ed ha una capacità di 6 milioni di m3. È costruita in calcestruzzo (Opus caementicium) (Lombardi, 2006). 4.3. LE SALINE ROMANE

Tra le forme artificiali relative alla categoria idrologica/idraulica possiamo inserire le saline. La salina è un impianto per l’estrazione del cloruro di sodio (salgemma) dalle acque marine, in un terreno prossimo al mare e diviso in una serie di bacini, nei quali penetra l’acqua marina, che, evaporando, deposita i sali in essa disciolti. Fin dai tempi storici, gran parte delle saline sono state create dall’uomo in aree pianeggianti, topograficamente non rilevate rispetto alla quota del mare, naturalmente caratterizzate dal ristagno di acque salmastre in lagune a ridosso di aree costiere, come le saline a Margherita di Savoia in Puglia, quelle di Cervia sulla costa romagnola, quelle di Trapani, in Sicilia e Cagliari, in Sardegna oppure la Camargue in Francia. Quindi le saline sono impianti, che pur prendendo l’avvio da forme naturali, depressioni come le lagune (corpi idrici collegati al mare tramite canali naturali), hanno subìto un processo di artificializzazione che ha trasformato il paesaggio, per produrre una sostanza necessaria da sempre all’umanità. CASO DI STUDIO. LE SALINE DI OSTIA ANTICA

Figura 16 – Centuriazione A e B – Modificazione del paesaggio della pianura padano-veneta fra il Neolitico e la centuriazione romana (Fonte: Susmel, 1985)

state sempre ricercate dalla colonizzazione romana e in particolare per la centuriazione, che si sviluppò moltissimo nella pianura padano-veneta (Fig. 16). Infatti fino al Neolitico (circa 2000 a.C.) – immagine A – i biomipaesaggi hanno serbato in grado elevato la propria naturalità, benché già sottoposti al multimillenario impatto puntiforme delle popolazioni nomadi. La foresta edificata dalle

4.2. I BACINI IDRICI ARTIFICIALI

I bacini artificiali costituiscono nuove forme sia per il bacino idrico in sé che per la stessa diga. Queste opere delle più svariate dimensioni, sono diffusissime in tutto il mondo e ne sono state costruite in particolare nel IXX e nel XX secolo utilizzando per la diga diversi materiali, mentre le funzioni sono state varie, dallo scopo irriguo a quello idropotabile e idroelettrico.

Una delle più importanti saline dell’antichità fu quella di Ostia, realizzata dai Romani nei pressi della foce del Tevere utilizzando lo Stagno di Ostia, una estesa laguna retrodunale che si sviluppava parallelamente alla costa e che era collegata col mare attraverso un canale naturale che sfociava nel Tirreno, poco a sud della foce del Tevere: é da rilevare che bisogna distinguere fra la laguna e le saline vere e proprie, che occupavano solo una parte della più ampia laguna (Fig.  17). Dall’altra sponda del Tevere era presente un’altra laguna, lo Stagno di Maccarese, ed anche qui fu realizzata una salina. Da indagini geoarcheologiche risulta che le saline di Ostia iniziarono a funzionare intorno al 600 a.C.; esse hanno continuato ad essere operative fino al IXX secolo (Huijzendveld Arnoldus, 2016). Si ritiene che la prima fortificazione romana sulla costa tiberina fosse realizzata non solo per controllare il sito strategico della foce del Tevere, ma anche per difendere/ Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

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controllare l’impianto, che produceva un bene economico di primaria importanza non solo per i cittadini stessi, ma anche per la sua commercializzazione verso l’interno della penisola. Inoltre è opinione degli studiosi che la città portuale di Ostia fosse fondata dopo la realizzazione delle saline.

riera frangiflutti sul lato N/NO dello scoglio. L’impianto risulta costituito da una serie di vasche (piscinae), di cui quattro allineate ed affiancate per il lato corto, comunicanti fra loro, attrezzate per la stabulazione del pesce, e attraversate perpendicolarmente da due canali, A e D (Fig. 18).

di legno in un foro per l’alloggiamento di pali di legno, utilizzati per la realizzazione di casseforme per le opere murarie, ha consentito di datare l’impianto mediante il metodo del radiocarbonio (C14 CAMS), permettendo di attribuire l’età dell’impianto a circa 1806 ± 50 anni fa, quindi ad epoca romana, fine del

Figura 17 – Immagine schematica della topografia e della geologia della piana costiera di Roma con la foce del Tevere e lo Stagno di Ostia. C: porto di Claudio; T: porto di Traiano; F: Fiume Morto, ossia il corso del Tevere prima del taglio di meandro del 1557. Con l’asterisco sono indicate le saline dello Stagno di Ostia e dello Stagno di Maccarese. Sono indicati i cordoni di spiaggia attuali e recenti e dell’Olocene, i depositi fluviali dell’Olocene, i terrazzi marini del Pleistocene. La linea tratteggiata indica la linea di costa del I sec. d.C. (Fonte: Huijzendveld Arnoldus, 2016)

4.4. LE PESCHIERE ROMANE

Le peschiere furono strutture costruite dai Romani per l’allevamento del pesce. Furono realizzate nella “zona intertidale”, di interfaccia alternativamente sommersa ed emersa, compresa cioè fra i livelli di bassa ed alta marea. Per questo motivo le peschiere sono utilizzate come indicatori per ricostruire i cambiamenti del livello del mare durante il periodo storico (cfr. BOX). CASO DI STUDIO. LA PESCHIERA DI S. IRENE

Un esempio è la peschiera di S. Irene, scavata nello scoglio di Galera, in località S. Irene di Briatico (Catanzaro), sulla costa tirrenica della Calabria, nell’area di influenza di Hipponion-Valentia (Vibo Valentia). La peschiera faceva parte di una villa marittima romana: l’impianto serviva per l’allevamento del pesce, mentre sulla costa prospiciente ne veniva effettuata la lavorazione (Iannelli, Lena, 1987). Lo scoglio, che dista dalla costa circa 100 metri, si sviluppa in direzione est-ovest per una lunghezza di circa 120 metri, con una larghezza massima di circa 40 metri. Si tratta di un tipico esempio di stabilimento di epoca romana per l’allevamento del pesce, ricavato per scavo/regolarizzazione della roccia locale, una biocalcarenite del Miocene. Allo scopo di proteggere la struttura dalle mareggiate, venne realizzata una barGeologia dell’Ambiente • n. 2/2018

Figura 18 – Peschiera S. Irene. Pianta. A, B, C, D, E: canali . 1,2,3,4,: vasche di stabulazione del pesce. Le frecce indicano il flusso e il riflusso dell’acqua marina (Fonte: Iannelli, Lena, 1987, modificato)

Questi due canali principali, di cui il canale D si svolge in parte in galleria, collegano le vasche con il mare aperto e sfociano in un porticciolo rettangolare, fa lo scoglio e la terraferma. Le due vasche interne alla linea, la 2 e la 3, sono inoltre connesse con il porticciolo attraverso due canali minori, B e C. Per quanto attualmente visibile, le vasche 2 e 3 sono connesse fra loro, e la vasca 3 è collegata con il canale principale D, mediante aperture praticate nelle pareti comuni. In tutti i canali e negli accessi alla vasche sono evidenti i resti di scanalature per gli alloggiamenti e lo scorrimento di saracinesche. Per la vasca indicata con il numero 5, che è attraversata dal canale E (di collegamento tra il porticciolo e il mare lato costa) e che si presenta priva di saracinesche di chiusura, è stata ipotizzata una funzione multipla di smaltimento della sabbia accumulabile nel porticciolo e di pesca. Funzionale con l’impianto in esame era l’impianto di lavorazione del pesce (pulizia, salatura, ecc.), di cui appaiono alcune vasche situate sulla costa prospiciente lo scoglio, separata da questo da uno stretto braccio di mare. Per quanto riguarda la cronologia della peschiera, Anzidei (Anzidei et al., 2006) comunica che il ritrovamento di un frammento

II sec. d.C. Dalle indagini geomorfologiche e archeologiche degli stessi Autori, risulta che dal tempo della costruzione della peschiera ad oggi, l’area ha subito un sollevamento tettonico pari a quello prodotto dalla variazione eustatica del mare, ossia l’altezza relativa del livello del mare non è variata significativamente. 4.5.OPERE IDRAULICHE MARITTIME OPERE DI DIFESA DELLE COSTE

Un altro esempio di modificazione di forme del rilievo dovuta alla attività antropica è quello relativo all’innesco di processi erosivi a carico delle coste alte e basse, a causa della asportazione di sabbia dagli alvei fluviali e quindi del mancato ripascimento naturale delle spiagge (siamo nel caso di processi antropogenici indiretti): ne consegue spesso la realizzazione di opere di difesa delle coste, che modificano le forme del terreno, sia col prelievo di materiali solidi (specialmente sabbia) da cave di superficie e anche sottomarine, che col modificare la forma dei litorali, come accade per le opere di ripascimento artificiale delle coste basse. Il ripascimento artificiale di una spiaggia consiste nell’alimentazione della stessa mediante idoneo materiale di riporto, estratto da cave di prestito, preferibilmente marine. Scopo dell’intervento può essere

Lo studio delle variazioni del livello del mare attraverso i siti archeologici costieri Le variazioni del livello del mare lungo le coste italiane e più in generale del mare Mediterraneo, dipendono dalla somma di movimenti eustatici, glacio-idro-isostatici e tettonici. I movimenti eustatici sono dovuti all’alternanza di fasi climatiche fredde (glaciazioni) con fasi più calde (periodi interglaciali) che provocano rispettivamente l’accrescimento e la riduzione delle calotte polari con conseguenti variazioni del livello degli oceani. Si tratta quindi di fenomeni a scala globale. La componente glacio-idro-isostatica, più semplicemente isostatica, si basa sul principio della isostasia ed è attribuibile al fatto che nel corso delle glaciazioni l’aumento del carico dovuto all’accumulo di grandi spessori di ghiaccio fa “affondare” la crosta terrestre nel sottostante mantello; nei periodi interglaciali, la riduzione del carico fa sì che la crosta tenda a risalire, con un moto molto lento e prolungato a causa della viscosità del mantello: in questo caso il sollevamento interessa regioni anche molto ampie, ma non ha una dimensione globale. I movimenti tettonici sono quelli più direttamente connessi con l’evoluzione complessiva del pianeta e si differenziano dagli altri per il fatto che devono essere attribuiti a fattori di origine interna, oltre che, eventualmente alla forza di gravità. La stessa definizione delle tre diverse componenti chiarisce quale importanza rivesta la valutazione del loro rispettivo contributo ai fini della comprensione delle fasi evolutive in atto e dei fenomeni che le accompagnano, tra i quali figura certamente la sismicità. La componente isostatica che agisce lungo le coste italiane è stata recentemente predetta e confrontata con dati di osservazione diretta in siti non disturbati da processi tettonici significativi, sebbene questa agisca anche nelle zone in deformazione per cause legate ad attività vulcanica, come ad esempio alle isole Eolie o ai Campi Flegrei. Indagini multidisciplinari scientifico-umanistiche in siti archeologici costieri del Mediterraneo possono permettere la ricostruzione delle deformazioni verticali della crosta terrestre e delle oscillazioni eustatiche del livello del mare durante il tardo Olocene (ultimi 2000/3000 anni). É noto che gli antichi livelli del mare sono rappresentati su gran parte delle coste della Terra da elementi geomorfologici relativi alle sue fasi di stazionamento durante i periodi interglaciali. Le linee di costa pleistoceniche sono spesso dislocate a varie quote e in modo differenziale, fornendo quindi indicazioni sull’eustatismo e sulla attività tettonica. In Italia ciò è evidente lungo tutte le coste e in particolare in Calabria meridionale, zona tra le più sismiche del Mediterraneo. I primi tentativi di questi studi vennero proposti negli anni ’70 in aree archeologiche costiere, ospitanti ville, porti, approdi, ninfei, peschiere, prevalentemente di epoca romana. In tempi recenti, l’integrazione delle osservazioni altimetriche desunte dai rilievi archeologici con quelle delle Scienze della Terra che caratterizzano l’ambiente dove risiede l’area archeologica indagata, ha permesso una ricostruzione temporale e spaziale dell’andamento dei movimenti. Le coste del Mediterraneo, particolarmente abbondanti di siti archeologici costieri, possono fornire dati significativi per questo tipo di studi essendo sede di strutture marittime che oggi si discostano anche di alcuni metri dal l.m.m. attuale.

quello di stabilizzare o ampliare una spiaggia in erosione, ovvero di realizzarne una nuova (Aminti, 1988; Ferrante et al., 1988, 1992; Caputo et al., 1993). Dato che la presenza di una spiaggia di dimensioni adeguate costituisce una valida difesa anche per l’entroterra, una spiaggia ricostruita o anche mantenuta mediante ripascimento artificiale viene spesso definita “spiaggia protettiva”. La funzione del ripascimento artificiale è quella di agire sul bilancio dei sedimenti di un dato tratto di litorale rendendolo positivo o nullo a seconda che l’obiettivo sia quello dell’ampliamento ovvero della stabilizzazione della spiaggia. Il ripascimento può essere effettuato in un’unica soluzione e/o mediante alimentazione periodica con quantità da stabilirsi in base al deficit dei sedimenti lungo il tratto costiero in

esame e alle caratteristiche sia dei sedimenti originari che di quelli costituenti le cave di prestito (Gisotti, 2012) (Fig. 19). PORTI

Un caso particolare di interferenza della attività umana sulle forme del terreno è quella relativa ai porti. Sia che si utilizzi una insenatura naturale, sia che si realizzi un porto artificiale scavando la costa, l’opera “porto” ha sempre un impatto significativo sul paesaggio; inoltre spesso la presenza stessa dei moli e in genere delle strutture portuali provoca una modificazione delle correnti di deriva litorale, determinando così una modificazione delle coste, a luoghi col fenomeno dell’erosione oppure col fenomeno dell’indesiderato avanzamento della costa. In alcuni casi si è assistito alla distruzione dell’opera causata da catastrofi naturali, quali terremoto, maremoto, insabbiamento del bacino portuale. Caso tipico di forma artificiale è stata quella del porto romano di Traiano, dal forte impatto paesaggistico, poiché è stata aperta una grande depressione sulla terraferma con una forma regolare, un perfetto esagono, che emerge moltissimo sulle contigue forme naturali. CASO DI STUDIO. IL PORTO ARTIFICIALE DI TRAIANO

Nel primo periodo imperiale il porto fluviale di Ostia non era sufficiente per le esigenze della città di Roma, pertanto fu necessario costruire il porto di Claudio: questo però si dimostrò troppo esposto alle insidie delle tempeste; inoltre il suo mantenimento era estremamente costoso. Quindi l’imperatore Traiano fece costruire un nuovo porto artificiale, il porto di Traiano, realizzato probabilmente fra il 106 e il 112 d.C. Il nuovo porto, situato in posizione arretrata e protetta rispetto a quello di Claudio, fu scavato nei cordoni dunari che separavano la piana costiera dal mare.

Figura 19 – Sezione schematica di spiaggia artificiale: caso del Lido di Ostia, Roma (Fonte: Caputo et al., 1993, in Gisotti, 2012)

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Figura 21 – Il porto fluviale di Londra: viene illustrato il graduale spostamento (shift) delle sponde fluviali e delle banchine dal periodo romano all’attuale: dal 100 d. C. al 2000. La correlazione dei dati archeologici con quelli stratigrafici facilita la comprensione delle variazioni sedimentarie nella piana alluvionale collegate con le città portuali situate sulle sponde fluviali. Nell’estuario del Tamigi si sedimentavano i depositi alluvionali, per fenomeni naturali e antropici, di conseguenza l’alveo e le sponde si innalzavano, dunque il waterfront (banchine e muri di sponda) “inseguivano” il corso d’acqua che si spostava. L’avanzamento citato è stato valutato in circa 100 metri. Come sulle coste marine, l’evoluzione geomorfologica delle sponde fluviali, determinata anche dalla attività umana, è stata osservata fin dall’antichità (Fonte: Milne, 1985, modificato)

Figura 20 – Ricostruzione dei porti di Claudio e di Traiano (Fonte: Bellotti et al., 2009, modificato)

Esso era costituito da un bacino a pianta esagonale, con lati di 358 m e profondo 5 m, con una superficie di 32 ettari e 2000 metri di banchina (Fig. 20). Il bacino era cinto su tutti i lati da una serie ininterrotta di magazzini, nei quali le merci venivano scaricate direttamente dalle navi, in attesa di essere trasportate a Roma. Il nuovo bacino artificiale era accessibile dal porto di Claudio attraverso un canale; inoltre fu costruito un altro canale, la Fossa Traianea (attuale canale di Fiumicino), che metteva in comunicazione il Tevere con il mare, creando così una seconda foce (dopo quella di Ostia); il porto di Traiano venne collegato alla Fossa Traianea, in modo che le imbarcazioni ausiliarie potessero risalire il Tevere senza percorrere il tragitto più lungo della foce del Tevere ad Ostia. In tal modo il nuovo porto era collegato tramite canali sia col porto di Claudio, sul mare, che col Tevere. Il collegamento via terra con Roma era assicurato dalla via Portuense, quello con Ostia da una strada che attraversava la Fossa Traiana su un ponte. Ancora in piena funzionalità durante la guerra greco-gotica (VI secolo), il porto cadde in disuso a partire dal IX secolo in seguito alla crisi della città di Porto e al progressivo interramento della foce del Tevere. Il bacino esagonale è oggi un’oasi naturalistica per uccelli migratori, mentre nell’area archeologica sono visibili i resti delle strutture portuali e dell’abitato. Nella classificazione di Marriner e Morhange (Marriner, Morhange, 2007) ripresa da Gisotti (2016) sulla geoarcheologia dei porti antichi, nella categoria “Porti fluviali sepolti” si afferma che il problema principale di questi porti sta nella instabilità delle sponde Geologia dell’Ambiente • n. 2/2018

fluviali, dovuta alla erosione o viceversa alla sedimentazione fluviale, quest’ultima determinata anche dalle attività antropiche. Si riporta l’esempio del porto di Londra, situato all’estuario del fiume Tamigi, dove si è verificato uno shift (avanzamento) del waterfront del porto di circa 100 metri fra il 100 d.C. e il periodo attuale (Milne, 1985; Marriner, Morhange, 2007). Nella Fig. 21 si mette in evidenza come la sponda fluviale si è spostata gradualmente verso il centro dell’alveo nel corso dei secoli, a causa dell’accumulo dei sedimenti depositati dal Tamigi, e come le banchine portuali si sono dovute spostare di conseguenza, per restare a contatto con il corpo idrico. BIBLIOGRAFIA AMINTI P. (1988), Indagine sperimentale sulla protezione delle spiagge con ripascimenti artificiali, in Atti XXI Convegno di Idraulica e Costruzioni Idrauliche, L’Aquila. ANZIDEI M., ESPOSITO A., ANTONIOLI F., BENINI A., TERTULLIANI A., DEL GRANDE C. (2006), I movimenti verticali nell’area di Briatico: evidenze da indicatori archeologici marittimi nell’area del terremoto del 1905, in I. Guerra, A. Savaglio (a cura di), “8 settembre 1905, Terremoto in Calabria”, Regione Calabria, Unical. www.earth-prints.org/bitstream/2122/3207/1/anzidei et al._briatico.pdf ARCANGELI L.,CASI C., PELLEGRINI E. (2013), Dove cantano le Sirene, in Archeo n. 7(341), luglio. ARNOLDUS-HUIJZENDVELD A. (2009), I Colli Albani: paesaggio e ambiente nella preistoria recente, in Drago Troccioli L. (a cura di) – “Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna”. Edizioni Quasar, Roma. AURIGEMMA S. (1974), La basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore in Roma, in Ministero della Pubblica Istruzione – Direzione generale delle antichità e belle arti. Istituto poligrafico dello Stato. AURIGEMMA S., ORLANDINI E. (1953), L’isolamento e il risanamento della basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore, in Ingegneria Ferroviaria dicembre, Roma. BELLOTTI P., MATTEI M., TORTORA P., VALERI P. (2009), Geoarchaeological investigations in the area of the imperial harbours of Rome, in Méditerranée 112. BENTIVENGA M., DE LUCA V., GUGLIELMI P.,COLUCCI A., MARTORANO S. (2016), Esempi di ipogei antropici ricavati in diverse litologie affioranti in Basilicata, in Bruno G. (a cura di) – Atti del Convegno

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La SIGEA si occupa dello studio e della diffusione della geologia ambientale, materia che può essere definita come: “applicazione delle informazioni geologiche alla soluzione dei problemi ambientali”. È un’associazione culturale senza fini di lucro, riconosciuta dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare come “associazione di protezione ambientale a carattere nazionale” con decreto 24 maggio 2007 (G.U. n. 127 del 4/6/2007) e successivi D.M. Ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Arma dei Carabinieri, il 20/12/2017, per la collaborazione a svolgere attività di monitoraggio al fine di segnalare criticità in materia di dissesto idrogeologico e di impatto ambientale. Agisce per la promozione del ruolo delle Scienze della Terra nella protezione della salute e nella sicurezza dell’uomo, nella salvaguardia della qualità dell’ambiente naturale ed antropizzato e nell’utilizzazione più responsabile del territorio e delle sue risorse. È aperta a tutte le persone e gli Enti (persone giuridiche) che hanno interesse alla migliore conoscenza e tutela dell’ambiente.

Cosa fa SIGEA • Favorisce il progresso, la valorizzazione e la diffusione della Geologia Ambientale, mediante gli “eventi” sotto riportati, diffondendoli attraverso la rivista trimestrale “Geologia dell’Ambiente”, il sito web e la newsletter. • Promuove il coordinamento e la collaborazione interdisciplinare nelle attività conoscitive ed applicative rivolte alla conoscenza e tutela ambientale; per questo scopo ha costituito le Aree Tematiche “Patrimonio Geologico”, “Dissesto Idrogeologico”, “Geoarcheologia”, “Educazione Ambientale”, “Caratterizzazione e bonifica dei siti inquinati”, “Protezione Civile”, “Aree Protette”. • Opera sull’intero territorio nazionale nei settori dell’educazione e divulgazione scientifica, della formazione professionale, della ricerca applicata, della protezione civile,attivandosi in varie tematiche ambientali, quali previsione, prevenzione e riduzione dei rischi geologici, bonifica siti contaminati, studi d’impatto ambientale, tutela delle risorse geologiche e del patrimonio geologico, geologia urbana, pianificazione territoriale, pianificazione del paesaggio, geoarcheologia, e in altri settori correlati con le suddette finalità, attivandosi anche mediante le sue Sezioni regionali, mediante corsi, convegni, escursioni di studio, interventi sui mezzi di comunicazione di massa. • Informa attraverso il periodico trimestrale “Geologia dell’Ambiente”, che approfondisce e diffonde argomenti di carattere tecnico-scientifico su tematiche geoambientali di rilevanza nazionale e internazionale; la rivista è distribuita in abbonamento postale ai soci e a Enti pubblici e privati. • Interviene sui mezzi di comunicazione di massa, attraverso propri comunicati stampa, sui problemi attuali che coinvolgono l’ambiente geologico. • Collabora con gli Ordini professionali, con il mondo universitario e con altre Associazioni per lo sviluppo delle citate attività, in particolare nella educazione, informazione e formazione ambientale: con CATAP (Coordinamento delle associazioni tecnico-scientifiche per l’ambiente e il paesaggio) cui SIGEA aderisce, Associazione Idrotecnica Italiana, Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali, Italia Nostra, Legambiente, WWF, ProGEO (International Association for Geological Heritage), Alta Scuola, Associazione Idrotecnica Italiana, Accademia Kronos, ecc. • Collabora anche a livello internazionale, in particolare con ProGEO, con la quale ha organizzato il 2° Symposium internazionale sui geositi tenutosi a Roma nel maggio 1996 e il 7° Symposium sullo stesso argomento a Bari per settembre 2012; inoltre è attiva per svolgere studi, censimenti e valorizzazione dei geositi.

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