“Fuori tempo come tante cose sue”. Il patrimonio culturale, l’archeologia e la sindrome del barone Arminio Piovasco di Rondò, in Alla ricerca di un passato complesso. Contributi in onore di Gian Pietro Brogiolo per il suo settantesimo compleanno, Zagreb-Motovun 2016, 327- 339

June 9, 2018 | Author: Giuliano Volpe | Category: Documents


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ALLA RICERCA DI UN PASSATO COMPLESSO Contributi in onore di Gian Pietro Brogiolo per il suo settantesimo compleanno

DISSERTATIONES ET MONOGRAPHIAE 8

INTERNATIONAL RESEARCH CENTER FOR LATE ANTIQUITY AND THE MIDDLE AGES MOTOVUN, UNIVERSITY OF ZAGREB

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ALLA RICERCA DI UN PASSATO COMPLESSO Contributi in onore di Gian Pietro Brogiolo per il suo settantesimo compleanno Copyright © International Research Center for Late Antiquity and the Middle Ages, Motovun, University of Zagreb, 2016. Publisher: University of Zagreb - International Research Center for Late Antiquity and the Middle Ages, Motovun, Croatia Graphic design and computer layout: Francesca Benetti Graphic design of the cover: Paolo Vedovetto Printing: Stega-tisak, Zagreb ISBN: 978-953-6002-92-4

CIP zapis je dostupan u računalnome katalogu Nacionalne i sveučilišne knjižnice u Zagrebu pod brojem 000933215 Cover photo: The “crown” of Monte Barro, reproduced under permission of the Parco di Monte Barro.

Questo volume  stato pubblicato con il contributo finanziario del Servizio Ricerca Internazionale dell’Universit degli Studi di Padova (bando a sostegno dei ricercatori per attivit di networking 2014-2015)

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ALLA RICERCA DI UN PASSATO COMPLESSO Contributi in onore di Gian Pietro Brogiolo per il suo settantesimo compleanno

a cura di

Alexandra Chavarría Arnau Miljenko Jurković

Zagreb - Motovun, 2016.

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Indice

Prefazione (Alexandra Chavarría Arnau, Miljenko Jurkoviæ) .................................................... 9 Le sette vite di Gian Pietro Brogiolo ........................................................................................ 11

Bibliografia di Gian Pietro Brogiolo ...................................................................................... 19 Chris Wickham, Gian Pietro Brogiolo, un archeologo visto da uno storico .............................. 47 Martin O. H. Carver, A master builder .................................................................................. 51

Xavier Barral i Altet, Gian Pietro Brogiolo: un’archeologia per la storia dell’arte medievale .... 53 TRA TARDA ANTICHITÀ E ALTO MEDIOEVO

Elisa Possenti, Riflessioni e nuove proposte sul “grande edificio” di Monte Barro: un esempio di architettura militare tardoromana? .......................................................... 59 Javier Arce, Funeral y tumba de Alarico ................................................................................ 73 Paolo Delogu, Storia immaginaria dei Longobardi di Castel Trosino ...................................... 83

Alexandra Chavarría Arnau, Ante ecclesia in conventu: alcune riflessioni sul capitolo 343 del Codice di Rotari ................................................................................................ 101

Marco Valenti, Ogni tempo ha la sua storia: interessi culturali e politici nello studio dei Germani ............................................................................................................ 109 Flavia De Rubeis, La tomba della regina Ansa e la sua epigrafe: ipotesi per una ricostruzione.. 137 Sauro Gelichi, Colonizzare le alture. Castelli, necropoli e insediamenti nell’alta valle del Tagliamento tra l’et tardo antica e l’Alto Medioevo ........................................ 143 ARCHITETTURA E ARCHEOLOGIA DELLE CHIESE

Christian Sapin, Archéologie du bâti des edifices religieux, materiaux et concepts .................. 163 Carlo Tosco, Prospettive convergenti: archeologia e storia dell’architettura .......................... 169 Alberto León, Se non  vero,  sempre ben trovato? A vueltas con la arquitectura civil tardoantigua y altomedieval hispana ...................................................................... 175

Vincenzo Fiocchi Nicolai, San Romano: una parrocchia rurale di et altomedievale fuori Porta Salaria a Roma .............................................................................................. 201

Paola Marina De Marchi, La pieve di Angera (Varese): gli edifici di culto tra IV/V e X secolo. Note preliminari ...................................................................................... 211 Miljenko Jurkoviæ, Quando il monumento diventa documento. Una bottega lapicida del Quarnero .......................................................................................................... 231

Nikola Jakšiæ, Una vasca battesimale altomedievale fra le due sponde dell’Adriatico .............. 243

Ivan Matejčiæ, La chiesa di Santo Stefano a Peroi .................................................................. 257 Federico Marazzi, Eginardo costruttore ................................................................................ 271

Dušan Mlacoviæ, A painting of a Renaissance town: how a source grew to be a prank. The case of seventeenth-century painting from St Anthony’s in Rab ........................ 285 5

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POLITICHE PER I BENI CULTURALI

Agustín Azkarate, Arturo Azpeitia, Paisajes urbanos históricos: ¿paradigma o subterfugio? .... 307 Giuliano Volpe, “Fuori tempo come tante cose sue”. Il patrimonio culturale, l’archeologia e la sindrome del barone Arminio Piovasco di Rond .............................................. 327

Paul Arthur, Archeologia e divenire ...................................................................................... 341

Neil Christie, Post-classical townscapes: questioning ruins .................................................... 351 Guido Vannini, Esperienze di archeologia pubblica in Giordania. Sulle tracce di una identit territoriale nel Mediterraneo medievale ...................................................... 359

José Ma Martín Civantos, La arqueología comprometida: paisajes, comunidades rurales y memoria biocultural ............................................................................................ 371

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“FUORI TEMPO COME TANTE COSE SUE”. IL PATRIMONIO CULTURALE, L’ARCHEOLOGIA E LA SINDROME DEL BARONE ARMINIO PIOVASCO DI RONDò1 G. Volpe Dipartimento di Stuti Umanistici Università degli Studi di Foggia (Italia) [email protected]

Giuliano Volpe

This paper stems from the recent reform of the Italian Ministry of cultural heritage, activities and tourism. It deals with the issues of the ‘Unique superintendence’, the holistic view of cultural heritage, the Faro convention, public and community archaeology: issues to which Gian Pietro Brogiolo has always been committed through his scientific, cultural and civic engagement. Key words: Italy, Cultural Heritage, Holistic Archaeology, Public Archaeology, European Convention of Faro

Il barone Arminio Piovasco di Rondò è descritto da Italo Calvino come un uomo distinto, legato alla tradizione e all’immagine, un po’ noioso, ma non cattivo. Portava «la parrucca lunga sulle orecchie alla Luigi XIV, fuori tempo come tante cose sue». Non coglieva la necessità del cambiamento e non capiva la protesta di suo figlio Cosimo e la sua decisione di ritirarsi sugli alberi e di incontrare le persone, conoscere il mondo, uscire dal palazzo in cui la famiglia si era rinchiusa. Pensavo a questo personaggio, riflettendo sulle recenti reazioni ai profondi cambiamenti in atto nel mondo dei beni culturali: non tanto le legittime, a volte fondate e anche condivisibili, critiche, alle quali va sempre riservato il massimo rispetto e che sono di stimolo a correggere i possibili errori, ma la diffusa tendenza a rinchiudersi in recinti sempre più angusti e il rifiuto di cogliere le trasformazioni della società, a dire solo di no a ogni tentativo di cambiamento senza alcuna proposta alternativa che non sia la difesa dell’esistente e anche del passato, tante volte criticato dagli stessi che ora lo rimpiangono. In un mondo che cambia, gli archeologi italiani e tutti gli specialisti del patrimonio culturale non dovrebbero restare vittime della loro aristocratica tradizione, chiudendosi in un fortino, sentendosi minacciati e circondati da nemici, né tanto meno ritirarsi sugli alberi. Ma dovrebbero, se vorranno avere un ruolo nella società contemporanea e partecipare da protagonisti ai profondi cambiamenti in corso, aprirsi, abbandonare i corporativismi, uscire dai propri specialismi settoriali e dialogare con gli altri saperi, solo apparentemente lontani, comunicare in maniera chiara e appassionata, (ri)mettersi in gioco, sviluppare la partecipazione attiva, stabilire un contatto diretto con la cittadinanza, coinvolgere «gruppi di popolazione con l’obiettivo di reinventare con le comunità locali le modalità di tutela e di conservazione»2. Sono molto felice di dedicare queste mie note di ‘politica dei beni culturali e paesaggistici’, per i suoi settant’anni, a Gian Pietro Brogiolo, con il quale nel corso del tempo si è progressivamente sviluppato, insieme a un proficuo rapporto di collaborazione, basato su una profonda convergenza nella visione dell’archeologia e del suo ruolo nella società contemporanea, che coinvolge anche molti altri amici e colleghi, anche un solido e sincero rapporto di amicizia e affetto. 2 G. P. BROGIOLO, Banche dati e comunicazione tra crisi dell’archeologia e riforme del MiBACT, in P. Basso (ed.) Dall’indagine alla condivisione. Le tecnologie, le metodologie e i linguaggi dell’archeologia open, IX Workshop ArcheoFoss, Free/Libre and Open Source Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica (Verona, 2014), Verona, c.s. 1

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LA VISIONE OLISTICA DELLA CONOSCENZA E DELLA TUTELA E LA SOPRINTENDENZA UNICA TERRITORIALE

La recente seconda fase della riforma del MiBACT (DM 23 gennaio 2016, in applicazione della Legge di Stabilità 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, c. 327) ha previsto il definitivo passaggio in Italia dal modello tradizionale della Soprintendenza settoriale a quello della Soprintendenza unica territoriale. Si è portato così a compimento, sia pure con un percorso accidentato e poco lineare, il disegno iniziato con la prima parte della riforma Franceschini dell’agosto 2014 (DPCM 29 agosto 2014, n. 171), che aveva previsto, tra l’altro, l’accorpamento delle Soprintendenze ai beni artistici con quelle ai beni architettonici e paesaggistici. Nascono così le Soprintendenze ‘Archeologia, Belle Arti e Paesaggio’ (una denominazione che trovo per più versi inadeguata e insoddisfacente, anche perché conserva, per di più parzialmente e con il ricorso a definizioni d’antan, un retaggio disciplinare; personalmente avrei preferito una denominazione più secca e omnicomprensiva: ‘Soprintendenza ai Beni culturali e paesaggistici’ o, meglio, ‘Soprintendenza al Patrimonio Culturale’, in modo da aderire, anche nel nome, ad una visione unitaria, organica, olistica del patrimonio). Le trentanove Soprintendenze uniche territoriali (da alcuni chiamate, alquanto dispregiativamente, ‘miste’), così istituite, oltre alle due speciali di Roma e Pompei, avranno la competenza unitaria della conoscenza, ricerca e tutela del patrimonio culturale in specifici ambiti territoriali, delimitati e omogenei, e si articoleranno al loro interno in vari settori: archeologia, arte, architettura, paesaggio, beni immateriali, educazione e ricerca, ognuno con un proprio responsabile. Non sono da sottovalutare i tanti problemi (indicati da più parti3) provocati da questo nuovo scossone organizzativo, dopo i tanti verificatisi negli ultimi anni4, abbattutosi su un organismo ormai debilitato, stanco, con personale molto invecchiato (l’età media è ormai pericolosamente vicina a 60 anni), demotivato e privo di mezzi e strumenti operativi: dai problemi tecnici e organizzativi per la gestione degli archivi e degli inventari (anche a causa di un preoccupante ritardo nella digitalizzazione e nella mancanza di adeguati sistemi informativi) alla ormai cronica scarsezza di personale (in parte a breve compensata dal prossimo concorso per 500 posti di funzionari tecnico-scientifici), mezzi e finanziamenti (che pure stanno ricominciando a crescere). I tempi e i modi di attuazione di questa nuova fase rappresentano un’indubbia difficoltà: si tratta di un’iniziativa impropriamente sviluppatasi in relazione dalla Legge di Stabilità, in tempi troppo stretti, senza adeguate forme di coinvolgimento e confronto, che rischia di creare non pochi disguidi e confusioni. Ed è sui problemi tecnici che si è concentrata la critica, che, però, poi ha riguardato anche l’impianto culturale. è su quest’ultimo che qui vorrei concentrarmi, ritenendo che gli aspetti tecnici e logistici, pur gravi, siano risolvibili, se solo li si vorrà risolvere. Anch’io non nascondo, infatti, alcune perplessità. Ritengo che sarebbe stato preferibile realizzare questa riforma in un unico momento, con il DPCM dell’agosto 2014. In quell’occasione avevo proposto l’istituzione di Soprintendenze/Direzioni uniche regionali, articolate all’interno in settori/dipartimenti specialistici (come quelli appena introdotti), comprendendo anche il polo museale regionale, e distribuite territorialmente in centri operativi unici. Insomma, mentre tutti chiedevano l’eliminazione delle (da molti odiate) Direzioni Regionali, io proponevo l’eliminaSi veda ad esempio l’ampia analisi in C. PAVOLINI, Il patrimonio storico-artistico e le politiche del Governo Renzi. A proposito di un libro recente, Testo e Senso, 16, 2015, c.s. Ma si vedano anche le mie considerazioni in www. giulianovolpe.it/it/14/Alcune_considerazioni_sulla_riforma_Franceschini,_fase_2./557/ e www.giuliano volpe.it/it/14/Ancora_sulla_seconda_fase_della_riforma_Franceschini/566/. Molto opportune, ad es., le osservazioni di Filippo Gambari, presentate in occasione dell’iniziativa nazionale del 19.2.2016 a Firenze: www.archeologiaviva.it/wp-content/uploads/2016/03/17.-Gambari.pdf. 4 Per una storia delle varie riforme si veda ora R. CECCHI, Abecedario. Come proteggere e valorizzare il patrimonio culturale italiano, Milano, 2015. 3

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zione delle Soprintendenze settoriali e la trasformazione delle Direzioni Regionali in vere e proprie Soprintendenze uniche regionali, cui attribuire tutte le competenze di tutela, ricerca, valorizzazione, compresi i poli museali. Quella proposta forse non fu pienamente compresa e fu unanimemente contrastata, anche da chi oggi sostiene che sarebbe stata la soluzione migliore. Peraltro altri autorevoli colleghi, sostenitori della Soprintendenza unica (ad esempio C. Pavolini o M. Montella5), ritengono che quel modello sia maggiormente applicabile a territori più piccoli e omogenei di quelli regionali e ritengo che anche questa posizione abbia le sue fondate ragioni. Ma non si giunse a discutere di questo, di fronte ai documenti e alle prese di posizione critiche, che di questo tema non si occuparono affatto, limitandosi ad una serie di ‘no’ privi di proposte alternative. Forse i tempi non erano maturi e forse io stesso non fui capace di sostenere adeguatamente quell’idea. Si perse, a mio parere, un’opportunità. Meglio tardi che mai, allora. Ulteriori aggiustamenti, miglioramenti e completamenti serviranno ancora. Il vero riformismo produce riforme progressive, anche imperfette, bisognose di aggiustamenti successivi. La riforma perfetta è quella che non si realizza mai! La recente decisione ha scatenato, com’era prevedibile, reazioni molto dure, documenti, interventi sulla stampa e sul web, con annunci catastrofisti di presunte ‘morte dell’archeologia’ e ‘fine dell’archeologia’, appelli a ‘salvare l’archeologia italiana’, accuse di ‘mobbing’ nei confronti della tutela, dichiarazioni di incostituzionalità e di ‘morte dell’articolo 9’, e via denunciando, non senza offese, anche volgari, rivolte a chi ha proposto e difeso questa nuova impostazione culturale. In particolare gli archeologi del MiBACT, che nell’agosto del 2014, di fronte alle proteste, per la verità blande, degli storici dell’arte che ‘subivano l’accorpamento’ con gli architetti, avevano brindato alla conservazione delle Soprintendenze archeologiche, hanno manifestato una quasi totale opposizione al provvedimento, mentre il resto del mondo archeologico italiano si è diviso, pur con alcune importanti eccezioni, tra un’adesione più o meno convinta alle proteste (non senza una certa dose di opportunismo), un consueto ‘ponziopilatismo’ o una sostanziale afasia e incapacità di proposta, secondo un costume peraltro consolidatosi negli ultimi decenni. Poche sono state le voci levatesi dal coro per difendere un cambiamento che in realtà ha radici antiche, in particolare proprio nelle istanze dell’archeologia medievale. Basterebbe rileggere la presentazione nel primo numero di Archeologia Medievale, che ha da poco festeggiato i suoi primi quarant’anni, per ritrovare tutte le ragioni scientifiche, metodologiche, culturali per sostenere questo progetto. Riccardo Francovich in tutta la sua vita di ricercatore, docente e personalità impegnata nelle battaglie civili, ha sempre sostenuto tali ragioni6, fino alla sua più recente, ampia, innovativa, riflessione sulle ‘politiche per i beni culturali fra conservazione e innovazione’7, poco prima della sua tragica e prematura scomparsa. Andrea Carandini, nella seconda edizione del suo Archeologia e cultura materiale, commentando a quattro anni dall’avvio delle pubblicazioni della rivista Archeologia Medievale, le straordinarie novità legate alla ‘nuova’ disciplina in Italia, sottolineava come fossero «le archeologie di più recente fondazione a soffrire in maggior misura dell’attuale assetto scompaginato dell’amministrazione dei “beni culturali” (se non altro per il fatto di essere ospiti non invitati, per i quali bisogna aggiungere un posto in più a tavola). Secondo le disposizioni vigenti, qualora si scavi in un edifico post-classico, lo scavo spetta alla Soprintendenza alle ‘antichità’, le strutture rinvenute C. PAVOLINI, Per una soprintendenza unica, in Ostraka V (1), 1996, p. 377-387; M. MONTELLA, Perché servono le Soprintendenze uniche, in La Stampa, 10 febbraio 2016, p. 25. ID., Soprintendenze, adesso si cambia. Invece di polemizzare ecco tutto quello che non avete mai chiesto, in Il Giornale dell’Arte, 1 marzo 2016, p. 1, 4. C. PAVOLINI, op. cit. (n. 3), ha, però, cambiato opinione preferendo ora Soprintendenze uniche a base regionale. 6 R. FRANCOVICH, Archeologia medievale e istituzioni, in Archeologia Medievale, II, 1975, p. 399-408. 7 R. FRANCOVICH, Politiche per i beni culturali fra conservazione e innovazione, in Workshop di Archeologia Classica, I, 2004, p. 197-205. 5

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a quella ai ‘monumenti’ e gli oggetti mobili raccolti a quella alle ‘gallerie’. è una follia!»8. Riferendosi poi all’assetto che proprio in quegli anni si andava dando la Sicilia, nel quadro della sua autonomia, Carandini, allora responsabile della Commissione Cultura del PCI, che quella riforma siciliana aveva contribuito a elaborare, affermava: «Questa è una delle ragioni per cui molti invidiano la legge che si è data la Regione Sicilia che prevede un’unica struttura territoriale, articolata in più settori di lavoro ... In questo caso l’archeologia non è che una parte di uno stesso organismo; quindi il taglio diacronico di questo settore (dalla preistoria all’industrialismo) appare perfettamente funzionale»9. Insomma una netta presa di posizione a favore della Soprintendenza unica, espressa già alla fine degli anni Settanta, quando la sinistra riusciva a esprimere un maggiore coraggio innovativo e una più spiccata creatività culturale, prima di chiudersi purtroppo nella mera difesa di parole d’ordine del passato. Negli anni Settanta, infatti, la battaglia per una visione globale del patrimonio culturale, per un approccio fortemente interdisciplinare e per la Soprintendenza unica, era propria della sinistra ed aveva trovato in Dialoghi di Archeologia il luogo di maggiore elaborazione e di più decisa proposta10, quando denunciava «il perpetuarsi della frammentazione delle Soprintendenze invece di prevedere una Soprintendenza territoriale unica ...»11. Tranne rare eccezioni, il tema è rimasto successivamente sotto silenzio. Vent’anni fa la posizione più netta, e a lungo rimasta quasi del tutto isolata, a favore della Soprintendenza unica veniva da Carlo Pavolini, archeologo classico, con una lunga esperienza in Soprintendenza prima di approdare all’Università. Le motivazioni indicate vent’anni fa da Pavolini conservano intatte la loro validità e attualità, e anzi si sono andate arricchendo da un ulteriore affermarsi dell’approccio contestuale e globale nell’analisi dei territori, delle esperienze dei Piani Paesaggistici, del cambio di prospettiva nelle politiche dei beni culturali sempre più attente alle esigenze dei territori e delle comunità locali. Riprendiamo alcune delle ragioni sostenute in quell’articolo apparso nella rivista Ostraka. «In molti casi (forse la maggior parte) – sottolineava Pavolini –, strategie di tutela divergenti, che non tengono alcun conto le une delle altre, per un riflesso di chiusura disciplinare, per gelosie o calcoli d’ufficio, o perché, semplicemente, non ci si pone il problema: con la conseguenza che interventi isolati, magari utili alla salvaguardia di una singola parte del monumento, possono risultare nocivi ad altri settori di esso, o possono rendere inutili operazioni diverse programmate da altri uffici periferici dello stesso Ministero, o, infine, esserne vanificati»12. Il progetto della Soprintendenza unica, vero e proprio oggetto di ‘una rimozione collettiva’, veniva di lì a poco ripreso e con forza rilanciato da Daniele Manacorda (che lo ha poi più volte riproposto negli anni in vari suoi interventi) nel quadro di una riflessione del ruolo dell’Università nel sistema della tutela, di cui metteva in evidenza tutti i limiti in quanto «‘coacervo di clamorosi anacronismi, fattore di impaccio e quindi, indirettamente, di danno per la reale salvaguardia dei beni culturali’, mentre è tutta la cultura del Novecento che ci insegna che il territorio da tutelare è per definizione unitario», per cui riteneva che «sul tema della Soprintendenza unica si misura davvero la capacità di uno Stato (e di un Parlamento) di esprimere cultura nella organizzazione delle forme che esso dà alla sua amministrazione»13. Una capacità attesa per vent’anni. A. CARANDINI, Archeologia e cultura materiale. Dai “lavori senza gloria” nell’antichità a una politica dei beni culturali, Bari, 1979, p. 320. Si veda a proposito della recente riforma, ID., Soprintendenza unica necessaria, in Il Sole 24 Ore, Domenica, 25 febbraio 2016, p. 35. 9 A. CARANDINI, op. cit. (n. 8),p. 320-321. 10 Cfr. ad es. Dialoghi di Archeologia, VI, 1972, 1, p. 147-155; IX-X, 1976-77, p. 761; n.s. I,2, 1979, p. 119-120. 11 Cfr. C. PAVOLINI, Per una soprintendenza... op. cit. (n. 5), in part. p. 386. 12 C. PAVOLINI, Per una soprintendenza... op. cit. (n. 5), p. 377-378. 13 D. MANACORDA, Prospettive di cooperazione, in L’Università nel sistema della tutela. I beni archeologici. Atti della giornata di studio (Roma, 10 dicembre 1998), in Annali dell’Associazione Bianchi Bandinelli 6, 1999, p. 85-103 8

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Tra le voci più forti e autorevoli non poteva mancare quella di Gian Pietro Brogiolo, che in tante occasioni ha espresso una netta adesione ad un necessario policentrismo e a un approccio contestuale, oltre ad una forte condanna di ogni forma di frammentazione. Forse proprio la sua lunga militanza di archeologo, svolta con varie funzioni, come funzionario di Soprintendenza, come professionista, come docente universitario, gli ha sempre consentito di guardare al patrimonio culturale in maniera organica e di cogliere appieno la complessità delle tracce presenti nello stesso territorio, libero dai paraocchi delle afferenze. In un bellissimo saggio di vent’anni fa, affrontando il tema del rapporto tra archeologia e istituzioni ed esprimendo una posizione contraria al centralismo e allo statalismo imperanti, sulla base delle straordinarie acquisizioni che in quegli anni si andavano compiendo nel campo dell’archeologia stratigrafica e in particolare nell’archeologia urbana, dopo un’analisi dei vari attori (tecnici, professionisti, precari, volontari), proponeva quattro principi, ancora oggi validi, per porre rimedio al «fallimento della politica dei Beni Culturali», rifacendosi anche ad altre esperienze europee: «a) unitarietà di competenze e compenetrazione tra tutela e programmazione urbanistica, b) liberalizzazione della ricerca, c) collegamento istituzionale tra tutela e ricerca, d) decentramento»14. Principi ancora oggi da (ri)proporre e obiettivi ancora da raggiungere. Pur senza un esplicito riferimento alla Soprintendenza unica, Brogiolo esprimeva una convinta preferenza per strutture uniche a base territoriale, più volte ribadita nel corso del tempo e anzi progressivamente arricchita di nuovi argomenti, sulla base di una lunga esperienza nell’archeologia urbana, nell’archeologia dell’architettura, nell’archeologia dei paesaggi, sempre più orientata ad una ‘archeologia della complessità e delle relazioni’15 e a una ‘archeologia partecipata’16, sia pur nella consapevolezza, condivisa da chi scrive, che la recente riforma costituisca «solo un primo passo per tentare un difficile recupero dei significati e dei valori dei beni culturali in una società del terzo millennio che sempre più li rifiuta»17. Nel corso degli ultimi vent’anni le denominazioni delle Soprintendenze sono cambiate, ma non sono cambiati i problemi, le sovrapposizioni di competenze, gli sgarbi tra Soprintendenze ‘sorelle’, i danni al patrimonio, in particolare quello post-classico. E anche se una serie di disposizioni ministeriali hanno via via attribuito alle Soprintendenze archeologiche le competenze relative allo scavo, prescindendo dalle fasi storiche, non è mai stato del tutto superato quanto previsto dal Regio Decreto 363 del 1913, cioè che (art. 83) «qualora lo scavo o la scoperta rifletta cose d’arte medievale o moderna, le facoltà attribuite al sovrintendente per i musei e gli scavi d’antichità saranno esercitate dal sovrintendente per i musei e gli oggetti d’arte medievale e moderna o dal sovrintendente per i monumenti». Un macigno a favore della frammentazione dei contesti, il cui peso si avverte ancora oggi, con risvolti a volte farseschi. Alcuni li ho ricordati nel mio recente libro Patrimonio al futuro, che mi piace qui riproporre, anche perché uno degli episodi mi è stato narrato proprio dal destinatario di queste note. «Ricordo il caso di un complesso paleocristiano composto da una chiesa, un atrio e un monumentale battistero in una città pugliese, nella quale ho avuto la possibilità di condurre scavi archeologici. Le diverse parti di quel complesso conobbero destini diversi nel corso del Medioevo: = in Aedon 1, 1999. Si veda, a proposito della recente riforma, ID., Soprintendenze, adesso si cambia. Insieme è mille volte meglio: più forti, più efficaci, più coesi, in Il Giornale dell’Arte, 1 marzo 2016, p. 1, 4. 14 G. P. BROGIOLO, Archeologia e Istituzioni: statalismo o policentrismo?, in Archeologia Medievale XXIV, 1997, p. 7-30, in part. p. 25-27. 15 G.P. BROGIOLO, Dall’Archeologia dell’architettura all’Archeologia della complessità, in Pyrenae 38 (1), 2007, p. 7-38. 16 G. P. BROGIOLO, Nuovi sviluppi nell’archeologia dei paesaggi: l’esempio del progetto APSAT (2008-2013), in Archeologia Medievale XLII, 2014, p. 11-22; ID. (ed.), Campi nel Sommolago gardesano. Etnoarcheologia di una comunità di montagna, Mantova, 2014. 17 G. P. BROGIOLO, Nuovi sviluppi... op. cit. (n. 16); ID., L’archeologia dopo la riforma del MiBACT: criticità irrisolte e nuove sfide, in Beyond the limits. Studi in onore di Giovanni Leonardi, c.s. 331

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la chiesa e l’atrio, abbandonati, finirono per essere sepolti, mentre il battistero fu riutilizzato in età moderna sotto forma di frantoio, cosa che ne ha garantito la conservazione in elevato fino a oggi. Di conseguenza una parte dello stesso complesso, originariamente pensato, costruito e vissuto come un organismo unico è finito spezzettato nelle competenze di due Soprintendenze, quella archeologica, preposta a occuparsi della parte interrata, quella architettonica a curare il restauro del battistero, con scavi archeologici condotti da due diverse équipe per conto delle due Soprintendenze ‘sorelle’. Un collega mi ha raccontato l’episodio paradossale vissuto alcuni anni fa, relativo alla richiesta di una Soprintendenza ai Beni Artistici di estrapolare i reperti di età moderna separandoli da quelli di età antica e medievale, perché considerati di sua competenza. Si pretendeva, insomma, di frammentare i contesti stratigrafici in nome di una visione burocratica delle competenze. Casi paradossali? Forse. Unici? Non credo. Vicende analoghe potrebbero riempire molte pagine»18. Come dicevo, negli ultimi decenni la questione è stata accantonata. è calato il silenzio, mentre si consumava una progressiva crisi dell’archeologia e dell’intero comparto delle scienze dei beni culturali, ancora oggi in corso. «Se il silenzio registrato finora si prolungasse indefinitamente, ci troveremmo di fronte ad un segnale grave e implicito (ad una conferma?) del fatto che il mondo degli addetti ai lavori si va sempre più chiudendo in una difesa sterile, questa sì davvero “utopica”, delle rispettive piccolissime nicchie: nicchie di sopravvivenza, prima e più che di potere»19. Cioè, come ha sottolineato Brogiolo, «molti archeologi di Stato, asserragliati nei loro fortini soprintendenziali, devono uscirne, come già hanno fatto alcuni di loro, per confrontarsi con gli altri protagonisti della ricerca»20. Recentemente chi scrive, oltre a Daniele Manacorda21, ha in varie occasioni ripreso e rilanciato il tema della Soprintendenza unica, in stretta connessione con l’adesione metodologica all’archeologia globale e all’approccio territorialista e alla centralità del paesaggio22. Mi permetto, anche in questo caso, di riportare, ribadendoli, alcuni stralci tratti dal mio libro. Commentando la riforma Franceschini dell’agosto 2014, che aveva, tra le varie novità, unificato le Soprintendenze ai beni architettonici e al paesaggio e quelle ai beni artistici, lasciando autonome le Soprintendenze archeologiche, sostenevo che «la prima innovazione significativa dovrebbe riguardare l’estensione dell’approccio globale anche al mondo della tutela, della valorizzazione e della fruizione del patrimonio culturale. ... è un errore continuare a proporre, a livello sia centrale sia periferico, l’attuale frammentazione prodotta da una visione antiquaria e accademica che separa pezzi di un patrimonio unitario. Bisognerebbe, al contrario, affermare anche nella struttura organizzativa una visione olistica del patrimonio culturale e paesaggistico, superando una concezione settoriale e disciplinare e considerando il paesaggio quale elemento comune, tessuto connettivo, filo unificante dei vari elementi del patrimonio culturale. Andrebbe, dunque, affermata una visione globale, diacronica e contestuale, che ponga al centro dell’azione di tutela i paesaggi contemporanei stratificati, con le città, le campagne, gli insediamenti, le architetture, G. VOLPE, Patrimonio al futuro. Un manifesto per i beni culturali e il paesaggio, Milano, 2015, p. 30. C. PAVOLINI, Per una soprintendenza unica, op. cit. (n. 5), p. 387. 20 G. P. BROGIOLO, Archeologia e Istituzioni... op. cit. (n. 14), p. 28. 21 D. MANACORDA, L’Italia agli Italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale, Bari, 2014; D. MANACORDA, M. MONTELLA, Per una riforma radicale del sistema di tutela e valorizzazione, in G. Volpe (ed.), Patrimoni culturali e paesaggi di Puglia e d’Italia tra conservazione e innovazione. Atti delle giornate di studio (Foggia, 30 settembre e 22 novembre 2013), Bari, 2014, p. 75-85. 22 G. VOLPE, Università, studi umanistici, patrimoni culturali, paesaggi, in G. Volpe (ed.), op. cit. (n. 21), p. 23-42; ID., Archeologia, paesaggio e società al tempo della crisi: tra conservazione e innovazione, in M. P. Parello, M. S. Rizzo (eds.), Archeologia pubblica al tempo della crisi. Atti delle giornate gregoriane VII edizione (29-30 novembre 2013), Bari, 2014, p. 183-191; ID., op. cit. (n. 18); G. VOLPE, R. GOFFREDO, Il ponte e la pietra. Alcune considerazioni sull’archeologia globale dei paesaggi, in Archeologia Medievale XLI, 2014, p. 39-53. 18 19

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gli arredi, le opere d’arte, cioè tutte le componenti del ‘sistema paesaggio’, inteso come un continuum di presenze diffuse, secondo la visione che da anni propone Salvatore Settis come peculiare del modello italiano. ... Al contrario, c’è chi continua a difendere, sempre più stancamente e con sempre maggiore inefficienza, una visione che fraziona in maniera disciplinare (questa sì di tipo accademico!), tanto nell’analisi quanto nella tutela, ciò che sarebbe da considerare, per natura, organico, separando non solo elementi di un contesto unitario, ma anche riproponendo illogiche e scolastiche scansioni cronologiche, non senza evidenti paradossi»23. Come ha precisato Manacorda «una visione olistica tende, infatti, ad accorpare ciò che è diviso, a ridurre i campi di specializzazione, a governare la complessità con soluzioni che tengano in considerazione le esigenze contestuali generali superando la autoreferenzialità di certe soluzioni tecnicistiche»24. Nel clima arroventato delle recenti polemiche, molti (per lo più storici dell’arte ma anche alcuni archeologi) hanno contestato, e anche ridicolizzato in maniera caricaturale e farsesca, il riferimento alla ‘visione olistica’, divenuta quasi sinonimo di ‘tuttologia’, ‘pressapochismo’, ‘incompetenza’, denunciando, anche in questo, certi limiti della nostra riflessione metodologica e la tradizionale impermeabilità dell’archeologia italiana, ancora oggi forse, nonostante i notevoli progressi degli ultimi decenni25, legata a un’impostazione classicista e storico-artistica26, alle riflessioni e alle prassi della disciplina in Europa e nel mondo. Mi limito solo a ricordare – scusandomi per le inevitabili ovvietà e le rozze approssimazioni – che olistico (che potrebbe semmai avere come sinonimi ‘globale’, ‘totale’, ‘unitario’, ‘interdisciplinare’) si contrappone, anche nel suo significato filosofico, a ‘riduzionistico’, che si tratta di una metodologia elaborata in vari ambiti scientifici per l’esame di sistemi complessi, che in archeologia rappresenta (o dovrebbe rappresentare) un approccio da tempo parte integrante del DNA della disciplina: è sufficiente il rinvio, a tale proposito, alla voce Holistic/contextual archaeology, curata da E. Demarrais27, nel dizionario Archaeology, The Key Concepts, edito da C. Renfrew e P. Bahn. Anche ‘contesto’ è, peraltro, un concetto tanto sbandierato quanto, forse, ancora poco acquisito nei metodi e nella prassi. Se è vero che «gli archeologi chiamano “contesto” quella situazione in cui uno o più oggetti o le tracce di una o più azioni si presentano all’interno di un sistema coerente in un rapporto reciproco nello spazio e nel tempo sulla base di relazioni di carattere funzionale» e che «la realtà si presenta sempre sotto forma di contesti, ogni componente dei quali ha un valore intrinseco, proprio delle sue caratteristiche, e un valore estrinseco, che è funzione delle relazioni reciproche» e che, infine, «ogni parte ha quindi un senso in sé e un valore aggiunto»28, come sarebbe possibile affrontare la complessità dei contesti con gli strumenti euristici di una sola disciplina? La Soprintendenza unica territoriale è metodologicamente coerente – secondo il parere di chi scrive – anche con l’approccio territorialista, a partire dall’inscindibilità di natura e cultura e quella tra territorio e storia, promosso dalla Società dei Territorialisti, che già nel suo manifesto fondativo, basandosi su un’idea di ‘territorio come bene comune’, prevede la necessità di «sviG. VOLPE, op. cit. (n. 18), p. 28-30. D. MANACORDA, op. cit. (n. 21), p. 108. 25 Per un quadro dei cambiamenti in archeologia D. MANACORDA, Lezione di archeologia, Roma-Bari, 2008; si veda la voce ‘olistico’ in ID., op. cit. (n. 21), p. 108-114. 26 Basti leggere quanto scrive sulla sostanziale equivalenza tra archeologia e storia dell’arte uno dei più autorevoli critici delle recenti riforme, S. SETTIS, Istituto (monco) di archeologia, in Il Sole 24 Ore, Domenica, 28 febbraio 2016, p. 35. Ma si veda le osservazioni di D. MANACORDA, L’archeologia non è solo arte, in Il Sole 24 Ore, Domenica, 20 marzo 2016, p. 40. 27 E. DEMARRAIS, Holistic/contextual archaeology, in C. Renfrew, P. Bahn (eds.), Archaeology, The Key Concepts, London-New York, 2005, p. 106-109. 28 D. MANACORDA, Contesto, in In una parola. Frammenti di un’enciclopedia casuale, Varese, 2014, p. 64-65. 23 24

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luppare il dibattito scientifico per la fondazione di un corpus unitario, multidisciplinare e interdisciplinare delle arti e delle scienze del territorio di indirizzo territorialista, che sia in grado di affrontare in modo relazionale e integrato la conoscenza e la trasformazione del territorio»29. Improrogabile, infine, è la necessità di strutture pubbliche più vicine al cittadino, capaci di garantire rapidità e trasparenza delle decisioni. Come ha ben scritto Pavolini «consideriamo la cosa dal punto di vista del comune cittadino. Ognuno di noi si è trovato (o conosce persone che si sono trovate) nella necessità di chiedere legittimamente un permesso di costruire, di ampliare un immobile, di modificare la destinazione d’uso di un lotto, ecc., in presenza di una qualche realtà d’interesse storico: e ognuno ricorda l’esasperante iter burocratico cui i richiedenti – o i malcapitati – hanno dovuto sottoporsi, un iter fatto di istanze inviate a Soprintendenze diverse (vedi sopra), e perché no anche al Comune, con tempi biblici e col rischio di ottenere magari risposte divergenti»30. I critici di questo modello hanno sempre utilizzato, per la verità in maniera assai strumentale, il caso siciliano per contestare la Soprintendenza unica. In realtà all’origine dei problemi siciliani non è affatto il modello della Soprintendenza unica ma semmai «un’eccessiva ingerenza della politica (per cui ad ogni cambio di assessore – 5 negli ultimi tre anni! – fa seguito una girandola di dirigenti), di una gestione fortemente clientelare, di dirigenti reclutati o promossi non sulla base di competenze tecnico-scientifiche, di sprechi, etc., oltre ad una malintesa autonomia e ‘identità siciliana’ (la denominazione attuale è ‘Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana’)»31. Peraltro molte voci di archeologi siciliani, Soprintendenti (tra gli altri Caterina Greco, Francesca Spatafora, Sebastiano Tusa), si sono recentemente levate a difesa della Soprintendenza unica. In particolare Tusa, ribandendo la necessità di adeguare il sistema della tutela alle istanze di globalità, contestualità, interdisciplinarità, ha affermato: «è con soddisfazione, inoltre, che constato che quanto fu fatto da noi in Sicilia negli anni ’70 del secolo scorso con la rivoluzionaria riforma di settore che istituì già allora la Soprintendenza unica multidisciplinare, riceve, finalmente un riconoscimento nazionale. In Sicilia, tra luci ed ombre dovute spesso a una cattiva amministrazione più attenta al clientelismo che alla professionalità (ma questo, ahinoi è un male nazionale), il bilancio sulla gestione della Soprintendenza unica provinciale è senza dubbio positivo. Affrontare le tematiche del territorio con il lavoro comune, all’interno dello stesso istituto, di professionisti di più discipline è stato esaltante ed efficace»32. Le obiezioni proposte, tutte legittime e comprensibili, toccano sempre e solo aspetti tecnici, logistici, amministrativi, o anche in qualche modo corporativi, come il timore che le Soprintendenze uniche siano dirette prevalentemente da architetti che – a detta dei critici – non sarebbero in grado di comprendere la ‘specificità’ del bene archeologico. Obiezioni rimaste inalterate nel tempo, se già vent’anni fa a Pavolini33 i critici di allora facevano notare che «la natura umana è quella che è, e che, ad esempio, un architetto chiamato a dirigere una Soprintendenza interdisciplinare finirebbe fatalmente per privilegiare i propri interessi scientifici e professionali a scapito dei beni di altra natura». Anche questo è un tema culturalmente assai debole, che semmai richiama il problema della formazione dei dirigenti del ministero. Cosa ci sarebbe di così ‘pericoloso’ per gli archeologi nel lavorare fianco a fianco con architetti, storici dell’arte, demoetnoantropologi? Anzi il vero tema è: servirebbero molte altre competenze specialistiche in tali organismi unici: geologi, bioarcheologi, archeometristi, informatici, ingegneri strutturisti, economisti della cultura, esperti di comunicazione, etc. Specialisti che nessuna Soprintendenza settoriale potrebbe mai permettersi. www.societadeiterritorialisti.it. C. PAVOLINI, Il patrimonio storico-artistico... op. cit. (n. 3). 31 G. VOLPE, Patrimonio d’amore o patrimonio d’interesse al Sud?, in Il Mulino 2016.1, p. 82-91. 32 http://www.sebastianotusa.it/. 33 C. PAVOLINI, Per una soprintendenza unica... op. cit. (n. 5), p. 385. 29 30

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Insomma, la visione olistica non può essere propugnata solo a livello di riflessione teorica e metodologica, ma deve necessariamente attuarsi con «una impostazione unitaria anche nella struttura organizzativa, del ministero, sia centrale sia periferica, che andrebbe ripensata in una visione globale, diacronica e contestuale, che ponga al centro dell’azione di tutela i paesaggi contemporanei stratificati, con le loro città, le campagne, gli insediamenti, le architetture, gli arredi, le opere d’arte d’ogni periodo storico, indissolubilmente legati tra loro come componenti del ‘sistema paesaggio’. Queste previsioni sono indigeribili in particolare per i dirigenti e i funzionari del Mibact»34. Sono convinto che si aprano nuove e stimolanti sfide per gli archeologi, che potranno mettere i metodi dell’archeologia a disposizione anche delle altre discipline per una tutela integrale e organica dell’intero patrimonio culturale. Gli archeologi dimostrino nei fatti la forza metodologica del loro approccio stratigrafico, contestuale e tecnologico al territorio e si confrontino con le altre specializzazioni. Ma soprattutto sviluppino la riflessione teorica, la sperimentazione metodologica e tecnica, il confronto. Anche per questo presso il MiBACT sorgerà un Istituto Centrale per l’Archeologia, come luogo di sperimentazione e di supporto tecnico-scientifico all’attività delle Soprintendenze (e anche, spero, delle missioni italiane all’estero), in collaborazione con le Università e il CNR. Una struttura da anni invocata (per esempio da Riccardo Francovich) che potrà favorire un innalzamento della qualità media della ricerca archeologica sul campo. Mi auguro, infine, che a questo punto si riesca a percorrere l’ultimo miglio della riforma, lavorando alla costruzione, grazie ad accordi strategici con le Università, il CNR, altri centri di ricerca, di strutture territoriali di tutela moderne, innovative, all’avanguardia. Si proceda, cioè, alla naturale evoluzione della recente riorganizzazione del MiBACT con l’istituzione dei cd. ‘policlinici dei beni culturali’, cioè strutture miste di ricerca, formazione, tutela e valorizzazione, con la collaborazione sistematica di docenti, ricercatori, tecnici e funzionari, la condivisione di laboratori, biblioteche, strumentazioni, l’integrazione di competenze e di professionalità, a tutto vantaggio sia della formazione di elevate figure professionali, sia della ricerca e della sperimentazione sia della stessa tutela del patrimonio35. UN SOGGETTO UNITARIO DEGLI ARCHEOLOGI: SOGNO O (POSSIBILE) REALTÀ?

Uno dei limiti principali dell’archeologia è rappresentato da sempre dalla sua divisione e dalla sua litigiosità interna, oltre che dalla sua sostanziale lontananza dalla società contemporanea. Nel 1961 usciva il libro di Ranuccio Bianchi Bandinelli Archeologia e cultura, uno straordinario tentativo, isolato e lungimirante, di stabilire un rapporto tra antichità e cultura contemporanea. Nello stesso anno, una personalità assai diversa ma non meno prestigiosa, con posizioni politico-culturali lontane da quelle di Bianchi Bandinelli, Massimo Pallottino, di cui forse si è a lungo sottovalutata la capacità di visione, tentò la strada di dar vita alla SAI-Società degli Archeologi Italiani, che nelle intenzioni dell’ispiratore, avrebbe dovuto «avere il fine precipuo dell’incontro ed essere pertanto aperta a tutti gli studiosi qualificati di archeologia, senza discriminazione di funzioni e di età: il suo carattere aperto, collaborativo, democratico dovrebbe anzi soprattutto risultare da questa parità di diritti e di posizione per ogni socio, aprendo la possibilità di far sedere a fianco, e far discutere con qualche efficacia ed impegno, l’assistente e il professore, il giovane ispettore e il soprintendente anziano»36. Come sia andata a finire, è D. MANACORDA, op. cit. (n. 21), p. 109. G. VOLPE, op. cit. (n. 18), p. 44-46. 36 M. PALLOTTINO, Per una coscienza ed una azione unitaria degli archeologi, in Archeologia classica, XIV, 1962, p. 118; ID., Per un Istituto Italiano di Archeologia, in Archeologia classica XII, 1960, p. 102-107. Sulla vicenda della SAI cfr. R. BIANCHI BANDINELLI, AA.BB.AA. e B.C. L’Italia storia e artistica allo sbaraglio, Bari, 1974, p. 27234 35

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noto. Un gruppo di allora giovani archeologi propose un documento in tredici punti, che non risultò molto gradito all’establishment archeologico di allora. Emersero inoltre conflitti a proposito dell’istituzione di un settore umanistico al CNR e della riforma della Scuola di Archeologia; la SAI fu comunque costituita nel 1964, ma ebbe vita breve: già alla fine del 1965 si ebbero le dimissioni del consiglio direttivo e una scissione con la fuoriuscita di 102 dei 124 soci. Si perse un’occasione, anche se le ragioni dei ‘giovani’ erano assolutamente fondate. Si trattava, infatti, di un tentativo promosso solo dall’archeologia ‘ufficiale’, accademica e ministeriale, tradizionalista e anche alquanto retriva, cioè, come ha scritto Renato Peroni, dalla «quasi totalità dei notabili dell’archeologia italiana»37. Il contesto era, cioè, assai diverso da quello attuale: gli archeologi erano poche centinaia, distribuiti quasi solo tra Università e Soprintendenze, e l’archeologia era concepita e praticata in maniera molto diversa da come, pur tra molte sfumature, la si concepisce e la si pratica oggi. Anche quello, però, era un momento di profondi cambiamenti che di lì a poco esplosero, con il 1968, i rivolgimenti sociali, il manifestarsi delle istanze giovanili, la trasformazione dell’Università d’élite in Università di massa, e anche con l’avvio di una nuova stagione dell’archeologia che ha avuto poi sviluppi importanti negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, innovando e trasformando profondamente la disciplina, nei metodi, nelle tecniche e nelle tecnologie, nell’ampliamente dell’oggetto stesso e dei campi di applicazione, nella creazione sul campo, in maniera quasi spontaneistica, della figura dell’archeologo professionista. Negli ultimi anni l’archeologia italiana è andata perdendo quella ‘spinta propulsiva’, quella creatività, quella forza di innovazione, richiudendosi sempre più in se stessa, alzando steccati tra appartenenze e afferenze, tra discipline, funzioni, istituzioni, associazioni, anche per effetto del clima dominante di incertezza e di paura, che porta inevitabilmente alla difesa di recinti sempre più angusti, esito anche di un processo di frammentazione e quasi ‘balcanizzazione’ accademica che rappresenta il risultato peggiore della stagione passata. è in atto da un anno, su iniziativa di chi scrive, un tentativo di costituzione di un soggetto unitario degli archeologi italiani, attraverso una federazione delle varie associazioni in cui attualmente gli archeologi si riconoscono, operanti nell’Università, nel MiBACT, negli enti locali, nel mondo delle professioni e delle imprese, nelle società scientifiche. Un organismo unitario inteso come luogo di confronto, per promuovere una conoscenza reciproca dei problemi propri di ogni comparto, l’individuazione dei punti in comune, l’elaborazione di proposte e di progetti condivisi38. Un luogo che soprattutto consenta di riflettere sul ruolo dell’archeologia nel mondo contemporaneo, in una società, cioè, in profonda e tumultuosa trasformazione agli inizi del terzo millennio. Con uno sguardo aperto all’Europa e al mondo intero che consenta di valorizzare ancor meglio le peculiarità del patrimonio archeologico italiano e le competenze, le visioni, le sensibilità degli archeologi italiani. A causa, infatti, dell’eccessiva frammentazione, dell’autoreferenzialità e della separazione fra mondo della ricerca, della tutela, delle professioni e dell’economia, le numerose esperienze positive, le eccellenti competenze e gli importanti risultati scientifici conseguiti hanno finito col perdere il legame con il mondo esterno, se non addirittura a porsi in antitesi: di conseguenza l’archeologia ha perso sempre più un (necessario) sostegno sociale. Eppure si può cogliere nella società attuale un grande bisogno di ‘archeologia’: sta agli archeologi, nel loro insieme, intercettare questo bisogno e fornire risposte adeguate a questa richiesta. 275; R. PERONI, Dalla ‘Società degli Archeologi Italiani’ all’’Albo’: motivi per un’unità politica, in Verso una professione. Seminario per l’elaborazione di una proposta di ordine professionale per gli archeologi (febbraio 1988), Roma, 1989, p. 76-82; in maniera più diffusa: M. BARBANERA, L’archeologia degli Italiani, Roma, 1998, p. 162-164; ID., Storia dell’archeologia classica in Italia, Roma-Bari, 2015, p. 157-159. 37 R. PERONI, op. cit. (n. 36), p. 80. 38 Il 19 febbraio 2016 si è tenuta una grande iniziativa nazionale organizzata dal nascente coordinamento degli archeologi: si vedano gli interventi in http://www.archeologiaviva.it/formazione-ricerca-tutela-professionerelazioni-interventi. 336

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Il progetto della SAI fallì. Questo il commento di Peroni: «La sinistra archeologica, rimasta nominalmente padrona del campo, si accorse ben presto che non e era rimasto in mano altro che un guscio vuoto. Il dibattito politico si esaurì ovviamente in breve. Ogni categoria restò con i suoi problemi, compresi i più prosaici e nessuno fu più in grado di preparare un approccio a tali problemi che non fosse parcellizzato e dunque perdente»39. Si riuscirà, cinquant’anni dopo, a evitare il rischio della permanente frammentazione, e dunque della permanente irrilevanza? ‘DAL DIRITTO DEL PATRIMONIO CULTURALE AL DIRITTO AL PATRIMONIO CULTURALE’: LA CONVENZIONE DI FARO E L’ARCHEOLOGIA PARTECIPATA

Affermare la necessità di una visione olistica del patrimonio culturale è insufficiente se quel patrimonio non è sentito come proprio dai legittimi proprietari. «Dal diritto del patrimonio culturale al diritto al patrimonio culturale che abbiamo in quanto persone individui e comunità. è solo garantendo quel diritto che noi garantiamo l’altro diritto. Dunque il patrimonio culturale non è un bene da proteggere per un suo valore intrinseco, ma è un bene da proteggere perché è una risorsa il cui valore è dato anche dalla sua utilità in vista di uno sviluppo sostenibile e per il miglioramento della qualità della vita»: così Daniele Manacorda40 ha recentemente sintetizzato il valore rivoluzionario della Convenzione di Faro sull’eredità culturale41. Una dimostrazione che l’Europa può essere non solo finanza e burocrazia ma anche principi e valori! Tale convenzione fa seguito a una serie di altri fondamentali documenti europei e internazionali (dalla Convenzione europea sulla protezione del patrimonio archeologico del 1992 alla Convenzione europea del paesaggio del 2000 e alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO del 2003) che segnano vere e proprie svolte, ancora in minima parte recepite (al di là della sottoscrizione e dell’adozione formale) nel nostro Paese. Il documento di Faro introduce, infatti, un concetto innovativo di ‘eredità culturale’, considerata «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione» (art. 2) e di ‘comunità di eredità’, cioè, «un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future» (art. 2). Definizioni queste perfettamente coerenti con la visione olistica del patrimonio culturale e con un ribaltamento di prospettiva, una vera e propria rivoluzione copernicana, che mette al centro i cittadini, le comunità locali, le persone. Come sottolinea la Convenzione «chiunque da solo o collettivamente ha diritto di contribuire all’arricchimento dell’eredità culturale» (art. 5): si ribadisce, pertanto, la necessità della partecipazione democratica dei cittadini «al processo di identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione dell’eredità culturale» nonché «alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che l’eredità culturale rappresenta» (art. 12). Protagonisti sono i cittadini, per cui bisogna «promuovere azioni per migliorare l’accesso all’eredità culturale, in particolare per i giovani e le persone svantaggiate, al fine di aumentare la consapevolezza sul suo valore, sulla necessità di conservarlo e preservarlo e sui benefici che ne possono derivare» (art. 12). R. PERONI, op. cit. (n. 36), p. 76-78. D. MANACORDA, in La “Convenzione di Faro” e la tradizione culturale italiana, relazioni di M. Montella, P. Petraroia, D. Manacorda, M. Di Macco, interventi di D. Jallà, G. Volpe, R. Cioffi (Macerata 5-6.11.2015), Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, suppl. 5/2016, c.s. 41 STCE n. 199, del 27.10.2005, sottoscritta dall’Italia il 27.2.2013. La Convenzione dovrebbe essere – si spera – ratificata a breve dal nostro Paese. Si spera anche che si eviti confusione con un ‘doppio binario’ tra ‘Patrimonio Culturale’ e ‘Eredità Culturale’, traducendo ‘Cultural Heritage’ in ‘Patrimonio Culturale’ e adeguando quindi il nostro Codice ai principi di Faro. 39 40

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Sono gli stessi principi, purtroppo assai lontani dall’attuale spirito della nostra legislazione nazionale e ancor di più dalla prassi, che ispirano la più recente riflessione di Gian Pietro Brogiolo sull’“archeologia partecipata”, che non può più ridursi solo a favorire un interessamento del pubblico alle ricerche e alle scoperte archeologiche, a mettere in campo strumenti comunicativi chiari, inclusivi, coinvolgenti, a favorire l’accesso libero e la libera circolazione dei dati e delle informazioni – che peraltro rappresentano importanti risultati ancora tutti da conseguire – ma «condiziona i modi di svolgimento della ricerca: sta a significare che archeologi professionisti collaborano con chi vive e lavora in una comunità locale per recuperare le memorie dei luoghi, costruendo in tal modo una storia locale»42. Ancora. La Convenzione di Faro considera il diritto, individuale e collettivo, «a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento» (art. 4) ed evidenzia la necessità che l’eredità culturale sia finalizzata all’arricchimento dei «processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ...» (art. 8). Come ha sottolineato Massimo Montella, «l‘idea di patrimonio culturale proposta a Faro postula un valore che è d’uso e vede nella valorizzazione il fine e la premessa della tutela, perché il patrimonio culturale deve essere finalizzato ad elevare la qualità di vita immateriale e materiale delle persone e perché non potrà essere conservato contro la volontà della collettività. Non contrappone, dunque, economia e cultura, ma le ritiene anzi convergenti e coincidenti perfino»43. La concezione ampia e dinamica del patrimonio culturale sancita a Faro potrebbe produrre a cascata una revisione profonda di visioni e funzioni. Si archivia, infatti, l’idea del ‘valore in sé’, statica, immobile e immodificabile, del patrimonio culturale. L’idea di un’eredità ricevuta dai nostri padri, da conservare e curare, e da trasmettere ai nostri figli, che ha finito per attribuire a noi un mero ruolo di trasmettitori. L’eredità culturale, al contrario, andrebbe riconquistata, conosciuta, apprezzata, arricchita di nuovi significati. Riprendendo un celebre detto di Goethe («ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero»), riproposto da Freud, recentemente Massimo Recalcati ha precisato che «l’eredità non è l’appropriazione di una rendita, ma è una riconquista sempre in corso. Ereditare coincide allora con l’esistere stesso, con la soggettivazione, mai compiuta una volta per tutte, della nostra esistenza. Noi non siamo altro che l’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole, i significanti che provenendo dall’Altro ci hanno costituito»44. è questa una definizione perfetta per rappresentare la complessità della nostra eredità culturale, stratificata nei paesaggi attuali, nelle campagne, nelle città, nei monumenti, nella cultura materiale e in quella immateriale, nelle tradizioni e nel ricco bagaglio dei luoghi e delle comunità locali. Se «lo sguardo dell’erede non è mai solo uno sguardo rivolto all’indietro», perché allora limitarsi «a interpretare l’eredità come ripetizione, fedeltà assoluta al proprio passato, infantilizzazione perpetua del soggetto, obbedienza senza critica, dipendenza senza differenziazione, conservazione monumentale e archeologica del passato»?45. Tornando alla Convenzione di Faro, vorrei, in conclusione riservare un breve cenno a quanto prevede l’articolo 11, che invita non solo a «promuovere un approccio integrato e bene informato da parte delle istituzioni pubbliche in tutti i settori e a tutti i livelli» ma anche a «sviluppare un quadro giuridico, finanziario e professionale che permetta l’azione congiunta di autorità pubbliche, esperti, proprietari, investitori, organizzazioni non governative e società civile». Un invito, cioè, a «sviluppare metodi innovativi» che garantiscano il massimo coinvolgimento, in tutte le fasi, compresa la gestione. G.P. BROGIOLO, Nuovi sviluppi... op. cit. (n. 16). M. MONTELLA, in La “Convenzione di Faro”, op. cit. (n. 40). 44 M. RECALCATI, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, 2013, p. 121, 123. Sono grato a Mariuccia Turchiano e Francesco Violante per la segnalazione di questo testo e per vari altri suggerimenti. 45 Ibidem, p. 123-124. 42 43

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Quanto lavoro c’è ancora da compiere per superare quella visione elitaria e proprietaria del patrimonio culturale da noi tuttora ampiamente dominante e strenuamente difesa anche da personalità sedicenti democratiche e progressiste? Quanto lavoro c’è ancora da compiere per uscire dalla palude immobile nella quale si è impantanato il mondo dei beni culturali e anche quello dell’archeologia nel nostro Paese, da tempo bloccato in una malintesa, cieca, fedeltà alla tradizione, di cui si adorano le ceneri piuttosto che ravvivarne il fuoco, per citare le celebri parole di Mahler recentemente utilizzate anche da papa Francesco46. Il nostro Paese (compreso il nostro piccolo mondo archeologico) rischia così di restare «imbalsamato nel suo passato classico – uso le intelligenti parole di Marino Niola in una sua breve nota dedicata ai duecento anni del Viaggio in Italia di Goethe –, proprio come il padre del Barone rampante di Calvino. Condannato a gestire la sua antichità vivente, o sopravvivente. Che è l’antitesi dell’attuale idea di sviluppo»47. Come potrei allora concludere queste brevi note, se non con le stesse parole di vent’anni fa di Gian Pietro? «Dobbiamo costruire tutti insieme, attraverso un confronto di idee e sedi istituzionali opportune, un’archeologia come sfida alle attuali tendenze di rifiuto dei Beni Culturali da parte di larghi strati sociali. Per far questo è tuttavia indispensabile che gli archeologi di Stato [ma estenderei a tutti gli archeologi, quelli operanti nel MiBACT, nell’Università, negli enti di ricerca, negli enti locali, nelle professioni] abbandonino il porto protetto dai venti della società, per affrontare la sfida del confronto con gli altri»48.

G. VOLPE, op. cit. (n. 18), p. 108-110. M. NIOLA, L’Italia di Goethe ricca di passato povera di futuro, in Il Venerdì, n. 1454, 29 gennaio 2016, p. 55. 48 G. P. BROGIOLO, Archeologia e Istituzioni... op. cit. (n. 14), p. 29. 46 47

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