Domenico CarusoUomini illustri di Calabria pagina n.1 360605_LAVORATO.pdf E’ vietato ogni tipo di adattamento o di riproduzione senza il consenso dell’autore che, comunque, dovrà essere sempre citato qualora si riprenda un brano del libro. I personaggi sono stati pubblicati sulle riviste “La Piana” di Palmi (R.C.), “Calabria Letteraria” (Editore Rubbettino), “Storicittà” di Lamezia Terme ed altre. 2 pagina n.2 360605_LAVORATO.pdf Francesco Sofia Alessio L’uso frequente logora anche le parole e i pensieri più belli che diventano stereotipati, ma è tuttora valida la massima evangelica Nemo propheta in patria, riferita a Francesco Sofia Alessio di Taurianova (18/9/1873 - 14/4/1943). I miei servizi sull’illustre poeta e umanista hanno sempre dovuto scontrarsi con l’indifferenza di tanti concittadini, ignoranti dell’opera di Alessio. Soltanto i furbi e i mediocri sono sempre in mostra ed hanno successo! Alessio, come ha affermato nel 1924 Padre Giovanni Semeria, «fa il maestro elementare ed è nato poeta latino. Il mondo va così da noi. In un paese dove molti professori di latino non sanno scrivere né un periodo né un verso nella lingua di Cicerone e di Virgilio, era giusto che uno scrittore inesauribile di bei versi latini rimanesse confinato nei banchi di una scuola 3 pagina n.3 360605_LAVORATO.pdf elementare. Nel paese della camorra F. Sofia Alessio non ha appartenuto e non appartiene a nessuna cricca né vecchia né nuova». Pertanto, è rimasto uno sconosciuto! Dalle colonne de Il Tempo di Roma di sabato 29 settembre 1973, lo scrittore don Domenico Condoleo da Cessaniti (VV), che con Alessio intraprese una lunga corrispondenza epistolare, denunciava la mancata celebrazione del centenario di nascita del poeta: «Altrove certe ricorrenze non vengono trascurate: in Calabria non si ricordano le benemerenze e le tre medaglie d’oro conseguite da uno dei suoi migliori figli e che tanto onore ha saputo riportare dall’Olanda in Italia coi suoi nutriti carmi in latino… Il dovere di ricordare pubblicamente, e per sempre, una figura tra le più illustri calabresi non era della sola città natale, ma della regione Calabria, la quale, a tempo opportuno, avrebbe dovuto additare un sì grande figlio soprattutto ai giovani e richiamarlo alla memoria dei contemporanei, i quali negli anni decorsi avevano esultato nel sentirlo redimito di gloria immarcescibile nella classica gara internazionale Hoeufftiana di Amsterdam (Olanda) con ben tre medaglie d’oro, oltre ad infinite benemerenze e segnalazioni internazionali, persino in Cina… I non calabresi conoscono ed apprezzano maggiormente il Vitrioli come il Sofia Alessio: in Toscana abbiamo ricevuto dal prof. Enrico Bianchi dell’Università Fiorentina lo stimolo a meglio conoscere il nostro Sofia Alessio e presso la Biblioteca Nazionale abbiamo potuto consultare le opere nell’edizione olandese, mentre successivamente dallo stesso poeta-autore abbiamo avuto in omaggio la 4 pagina n.4 360605_LAVORATO.pdf raccolta di Musa Latina, edita da Elpis - Napoli 1929 - ma altre sue pubblicazioni successive restano ignorate, o quasi, dalla maggior parte di uomini che si dicono di cultura». Anche se il Comune di Taurianova ha provveduto, in seguito, a pubblicare l’opera di Alessio, per la maggior parte di cittadini il poeta rimane uno sconosciuto! Dai preziosi scritti di Condoleo faccio rilevare la particolare fisionomia dell’uomo che, senza aver ricevuto alcuna preparazione accademica e senza aver fatto parte di alcun cenacolo letterario, con duri sacrifici riuscì ad apprendere il latino e a formarsi una solida cultura umanistica. In un autografo Alessio ricorda: «Rimasto orfano a quattro anni, fui educato da mia madre Alessio Rosina e poi affidato per l’insegnamento secondario alle cure del dotto Sacerdote Domenico Barillari, valente oratore, versato in tutte le discipline: nel latino, nel greco, ecc. Molte cose imparai quando egli dettava a me le sue prediche. Ma si può dire che io sono stato un autodidatta; mi procurai con i pochi risparmi una piccola biblioteca, imparando a memoria i migliori passi dei classici italiani e degli autori latini e greci tradotti. Così mi procacciai un buon patrimonio di lingua. A sedici anni incominciai lo studio del latino ed essendo maturo il mio giudizio, tradussi gli autori classici elegantemente in prosa e poesia. Mi esercitai quindi lungamente nella composizione italiana e nella poesia latina». Per quanto riguarda gli ultimi lavori, precisa l’autore all’amico Condoleo: «Attendo ora ad un Poema Italico, in lingua italiana, in cui canto le glorie dell’Italia antica, 5 pagina n.5 360605_LAVORATO.pdf medioevale e moderna...»; così nel marzo del 1937, mentre nella sua lettera del 3 giugno dello stesso anno: «Ho già iniziato il Poema Italico; è una trilogia. Manca però per completare la prima parte e siamo nell’Anno Augusteo (si riferiva al primo annuale dell’Impero dopo la vittoria in Eritrea), e, potrebbe, entro il 1937 essere pubblicata. Manca l’Editore. Ella potrebbe parlare con una casa editrice di Firenze ed esporre i miei meriti non convenientemente ancora conosciuti ed apprezzati». Il pio poeta era conscio dei meriti acquisiti e non parlava per superbia, ma si dimostrò modesto in ogni circostanza. Sempre nella lettera del ’37, l’Alessio continua le sue dichiarazioni scrivendo: «Ha ben rilevato (riferendosi all’articolo de Il Nuovo Giornale) che l’opera mia potrebbe stare accanto a quella del Pascoli: la Regina Margherita, che ha studiato il latino con Marco Minghetti della Scuola Bolognese, ha intuito subito il mio merito, quando io Le feci l’esposizione dell’argomento. (Il poeta si riferisce al carme Sepulcrum Joannis Pascoli). Tre volte ho vinto la medaglia d’oro e tre volte, il 4 marzo alle 5, ho fatto il sogno della vittoria». E non è tutto. «Ora io ho tante belle poesie italiane: canzoni, sonetti, versi sciolti e vorrei pubblicarle», confida l’autore a Condoleo. «Potrei mandargliene alcune, pubblicate già in diverse riviste». «Io ho qualche pregio», prosegue l’Alessio, «che non aveva il Pascoli. Io sono cattolico fervente con la fede di Dante, amantissimo delle lettere. Ho studiato con grande passione nella mia giovinezza, e... io orfano proletario, umile maestro elementare, autodidatta, continuo con fede e fervore l’opera mia: 6 pagina n.6 360605_LAVORATO.pdf debbo completarla. Spero che Dio mi dia salute e regni nell’Europa e nella nostra Italia quella pace necessaria per lo sviluppo delle belle arti». Il 2 ottobre 1937 scrive ancora: «Stimatissimo, ho ricevuto la sua e quanto prima scriverò all’Editore Vallecchi e gli proporrò la pubblicazione delle poesie italiane: esse sono già riordinate, vi sono circa 20 sonetti; vi sono i Canti dell’Amore, della Famiglia, della Natura, epigrammi di Nosside tradotti dal greco; i canti della Fede, della Patria, l’ultimo è quello dell’Impero. Il volume sarà intitolato Amore e Fede». Alessio, dunque, ha lasciato molto materiale inedito e sarebbe auspicabile che venisse rintracciato e diffuso. Non dimentichiamo che è un poeta italiano ed europeo, un cuore ardente che sprizza amore per la Patria e per la Fede, un genio universale. «La lampada dell’Umanesimo passa da Giovanni Pascoli nelle mani di Sofia Alessio», ha affermato il senatore prof. Luigi Rava. E il Fraccaroli: «Il Sepulcrum Joannis Pascoli è la poesia moderna più lirica, secondo il grande significato pindarico». Affascinato dai suoi modi e dal suo dire, che danno ai suoi versi un tono sublime, Padre Semeria ha appellato Sofia Alessio «Il poeta francescano vivente». «E’ un rapsodo, un aedo», ha scritto. «Canta e prega, perché il suo canto è preghiera, l’espressione della sua fede... Nel mondo della Fede egli ha sentito muoversi più libero il suo volo di poeta. Francesco Acri fu un greco rinato fra noi, Francesco Alessio è un latino. Acri pensava con la testa di Platone. Sofia canta con la cetra di Orazio e di Virgilio». 7 pagina n.7 360605_LAVORATO.pdf Corrado Alvaro «A cent'anni dalla nascita», ha affermato nel 1995 Padre Stefano De Fiores nel commemorare il suo illustre concittadino, «Corrado Alvaro resta uno scrittore sotto molti aspetti impenetrabile e da troppi ancora sconosciuto. Rimane misterioso ed enigmatico anche quando vuole comunicare per mezzo dei libri. Mentre intende uscire dalla naturale scontrosità per rivelarsi, proprio allora si cela nel suo mondo interiore e nel travaglio angoscioso della sua coscienza». «La vita, quando è stata dura e faticosa e sofferta, ci è doppiamente cara;» - si legge nel diario di Alvaro - «è una somma di esperienza che ci illudiamo di poter trasmettere. Così ho sempre cercato di evitare la prigione o di farmi uccidere, le occasioni più facili, mi pare, che il nostro tempo offra agli uomini di cultura. Ho cercato anche di non andare in esilio. Non posso vivere lontano dal mio paese, e d'altra parte so che uno scrittore esule va quasi sempre perduto. E ho cercato di non avere onori ufficiali, di restare un irregolare, non classificato, non tesserato». (Da: Quasi una vita - Bompiani - 1950). La complessità dello scrittore scoraggia persino gli esperti. E' lo stesso che precisa di vivere come una doppia vita, quella normale della 8 pagina n.8 360605_LAVORATO.pdf ferialità quotidiana e quella letteraria del racconto, che inventa «sulla trama dell'esperienza e della memoria una seconda vita che non conosce età». (Da: Ultimo diario - Bompiani - 1959). Nella poesia Il viaggio (1941) si può cogliere l’immobilità del suo mondo, che presenta come scenario il succedersi dei personaggi familiari: Sono tornato al mio paese e ho ritrovato tutto come prima. Soltanto non c’era mio padre né quelli del mondo di prima. Ma c’erano altri che somigliavano: i figli ai padri, io al padre mio, sembrava che nulla fosse mutato, tutto era giovane e pure finito. Tutto era giovane, ma anche velato dall’età che trascorre, tutto era fisso, ma bianco e sorridente nella morte. Dalle sue opere si comprendono i misteri di San Luca, suo luogo natale, come egli racconta: «Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il fiume, sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati. Il paese era gramo e povero in confronto alla ricchezza del mondo, e a me pareva il più ricco e il più vario». (Da: Il viaggio - Falzea - 1999). 9 pagina n.9 360605_LAVORATO.pdf E Mons. Giancarlo Bregantini, durante la sua visita pastorale a San Luca, ha asserito ricordando Alvaro «il figlio più illustre di questo borgo sofferto e tribolato, ma vivacissimo e tenace: Vi nasce nel 1895 (15 aprile) e vi resterà fino a vent'anni. Poi gli studi e la sua attività di giornalista e di scrittore lo porteranno per mezza Europa, corrispondente di testate famose e critico letterario acuto. Un uomo che molto ha pensato, molto ha sofferto, molto ha scritto. Morirà a Roma nel 1956 (11 giugno), con una produzione letteraria notevole». Ed ancora: «Con Alvaro, vi presento alcuni colori del cuore di Calabria, che lui ha tratto dalla passione della gente di San Luca, da quel balcone di casa che ha accompagnato i suoi sogni di adolescente, dalle viuzze del paese, dall'immensità di Polsi. La madre, la donna. Ha avuto un peso immenso su di lui. Come su ogni ragazzo di Calabria… Nel cuore della madre, Corrado ha percepito il segreto del mondo e ha trasformato in simbolismo universale ogni frammento del cosmo… La famiglia: ha un solo itinerario di salvezza: aprirsi alla comunità. Da sola, chiude e paralizza. Schiaccia i sogni dei figli, nell'attimo stesso che li vuol custodire… La scuola è il futuro, come ha ben potuto scoprire Corrado, per la tenacia invincibile del suo papà, maestro elementare illuminato e preveggente. Ma fatica, è astratta, parla un linguaggio lontano. Spesso non è rispettata, talvolta è vandalizzata. Va modellata sulla statura dei ragazzi del paese, come un abile sarto che sa tagliare su misura i suoi abiti. 10 pagina n.10 360605_LAVORATO.pdf La chiesa: è il luogo più tipico in cui è possibile sperimentare già fin d'ora la Comunità». Le considerazioni del Vescovo interpretano e riassumono sapientemente il travaglio dell'uomo che ha rinnovato il nostro Novecento letterario. Lo scrittore stesso riconosce che il «cammino della sua infanzia… era stato un viaggio attraverso la madre». «La donna è il personaggio più importante e più autentico per la Calabria. E' anche il lusso d'una natura scabra, immiserita dagli uomini». (Da: Ultimo diario). Nei saggi sulla Regione si mette in rilievo la struttura familiare della nostra Terra: «La famiglia è la sua spinta vitale, il campo del suo genio, il suo dramma e la sua poesia». (Da: Itinerario italiano). La fede in Dio, infine, è accertata dalle testimonianze dei suoi diari: «Il sentimento della vendetta contro cui ho lottato in questi mesi verso chi mi ha ingannato… Attraverso questo ho meditato sul bene e sul male, e su Dio». Ed ancora: «Sono andato in chiesa a ringraziare Dio di avermi aiutato». (Da: Quasi una vita). Sarebbe lungo elencare la produzione di Alvaro. Dal romanzo L'uomo nel labirinto (1926) - che evidenzia la crisi della borghesia all'indomani della prima guerra mondiale, al capolavoro Gente in Aspromonte (1930) - che ha dato alla cultura calabrese una voce possente; dal racconto avventuroso, colorato da luminosi squarci lirici L'uomo è forte (1938), che si conclude con la speranza, a L'età breve (1946) - che con Mastrangelina e Tutto è accaduto (opere postume) costituisce la trilogia delle "memorie del mondo sommerso", lo scrittore - mettendo a frutto la sua 11 pagina n.11 360605_LAVORATO.pdf cultura europea - dalla nostra Terra allarga la sua indagine al mondo intero. Nell'opera postuma Belmoro (1957) si avverte come un senso di profezia per le allucinanti novità del nostro tempo. Il romanzo «riveste un'importanza decisiva» - come ha rilevato Stefano De Fiores a Taurianova nella sua conferenza dell'aprile 2001 - «in quanto costituisce la verifica critica della civiltà industriale portata alle ultime conseguenze… Annullati i vecchi canti, i proverbi, le norme di vita, tutto quello che era patrimonio degli analfabeti, domina nella città futura un tipo di umanità (meglio, di disumanità) in cui all'amore è sostituito il sesso, alla verità i corsi di simulazione e menzogna, alla creatività la regolarità ineccepibile. Si potrà avere un cuore di cellophane, le donne saranno fecondate artificialmente, nasceranno gli omoteri senz'anima, cioè ibridi di uomini e animali. Sarà estirpato ogni sentimento». I numerosi saggi e i diari rispecchiano l'impegno morale di Alvaro e la nostra civiltà mediterranea. Basta ricordare: Calabria (1931), Viaggio in Turchia (1932), Itinerario italiano (1933), I maestri del diluvio (1938), Quasi una vita (1950), Il nostro tempo e la speranza (1953), Ultimo diario (1961 - postumo). «Non deve sembrare un azzardo critico», ha dimostrato Walter Mauro, «sostenere che il meglio di Alvaro è da reperirsi nei racconti e nei diari, struggenti questi ultimi per quell'ansia insopprimibile di partecipazione e di dolore civile che questo scrittore visse e consumò sulla propria pelle, senza mai indugiare a quella stanca retorica del dolore meridionale sul quale tanti letterati hanno a 12 pagina n.12 360605_LAVORATO.pdf lungo speculato, meritandosi da Carlo Bo l'appellativo - che è tutt'altro che un complimento - di letteratura da stato d'assedio». (Da Il Giorno dell'11 Agosto 1994). «Letteratura e umanità non vanno mai disgiunte nella sua opera, non vivono separate fra loro;» - ha scritto E. Maizza - «esse entrano invece nel contesto, nella descrizione, come un miraggio lontano, eppure sempre presente, nel quale il tempo perde le sue relazioni fisiche, e non è più né passato né presente né futuro, ma è contemporaneo a tutti questi tre momenti. Ognuno di noi - dice Alvaro - si porta dietro il suo passato; e forse ogni momento della nostra vita è un riepilogo di quel passato». Concludo con il documento di viaggio che appare sempre come una mirabile evocazione della nostra Terra, la quale se venisse ben conosciuta riacquisterebbe l’antico splendore: «La primavera è allo stesso modo sospesa sulla Calabria intera, nella stagione che dura sessanta o settanta giorni… L’aria è un profumo fluido che si respira come un’atmosfera sensibile. Per questi due mesi l’anno, la terra più severa e più scabra che sia in Italia sorride. E’ il tempo che bisogna visitarla, varia, orientale e boreale, mediterranea e interna. L’aria è trasparente e sonora, trasmette a distanze enormi i rumori e i suoni;… perciò tutto è popolato, sotto il cielo di cristallo che prolunga la sera indefinitamente in una chiarità di altri mondi lontani nel firmamento, di suoni e di voci, di scampanii di pecore, di richiami e di canti, ed è tutto un esclamare vago e diffuso, in un’eterna felicità di voci umane». (Da: Itinerario italiano). Tutto questo ed altro è la Calabria! 13 pagina n.13 360605_LAVORATO.pdf Ugo Arcuri Il professore e scrittore Ugo Arcuri nacque a Rizzìconi (R.C.) il 19 aprile 1915 da Eduardo e da Amalia Moricca. Dal genitore, antifascista, ereditò il carattere libertario nonviolento ed il profondo senso di solidarietà umana. Non condivise, però, la professione di medico, come si evince da “la carriera del fesso”, che prende spunto dal “senario scontento del poeta dottor Fusinato”: Io ricordo: dottore anche lui, era andato mio padre in condotta, in quell’arte sì misera e rotta da avvilirlo ogni giorno di più. Pertanto, come sostiene la satira: Mi decisi: giammai nella vita avrei fatto il mestiere paterno: guadagnarsi magari l’inferno ma non certo scontarlo quaggiù. Fu così che con sommo diletto intrapresi la via letteraria 14 pagina n.14 360605_LAVORATO.pdf che sembravami libera e varia e di gioia più ricca e virtù. Ancor prima della laurea, infatti, iniziò la sua esperienza di docente in una borgata di Palmi e dal 1934 al 1936 diffuse gli scritti giovanili comprendenti quattro sillogi di “poesie”: Sotto la maschera, Foglie d’autunno, Schizzi e ghiribizzi e Il canto del sacrificio. I suoi interessi si concentrarono, quindi, sulla scuola e sui problemi del Sud pubblicando diversi libri e numerosi servizi su prestigiose riviste locali e nazionali. Ha collaborato a: La Luce, Il Marc’Aurelio, Il Travaso, Historica, Il Mulino, Il Merlo Giallo e ad altri periodici. La semplicità e l’originalità del suo discorso, l’immediatezza e l’anticonformismo della sua satira hanno conquistato l’uomo della strada che ha scoperto in Arcuri un amico e un difensore. Tutta la classe politica è stata bersaglio del suo sarcasmo: Riforme: devi crederli in parola. Segni architetta la riforma agraria e Corbellini quella ferroviaria; Gonella s’accontenta della scuola. Che democristi! Ma sarà poi vero che da buoni cattolici ortodossi ragionin quasi tutti con L’…utero? Fra gli “studi e ricerche”, ricordiamo: Quattro uomini e molti libri (1947); Introduzione allo studio della filosofia e della pedagogia (1950); Intorno ad alcuni problemi della pedagogia della scuola e 15 pagina n.15 360605_LAVORATO.pdf dell’insegnamento primario (1960); Diomede Marvasi e la sua requisitoria contro l’ammiraglio Persano (1966); Così parlando onesto (1974) e Aldo Capitini (1974). Negli anni difficili del dopoguerra, essendo sorta a Cittanova una sezione staccata del Liceo Ginnasio “T. Campanella” di Reggio Calabria, s’impegnò per il proficuo processo formativo della personalità giovanile e nell’amata città della Piana fece ritorno dopo le diverse peregrinazioni conseguenti ai concorsi vinti. Oratore raffinato, le sue lezioni di storia e di filosofia costituivano un sano nutrimento per la mente e un vero godimento per lo spirito. A favore della scuola Arcuri ha profuso le sue doti di cuore e d’intelletto, come testimoniano coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Il sincero rispetto per la dignità dell’uomo e per i valori della cultura lo rendevano grande maestro e guida esemplare per tutti. Aperto alle problematiche didattiche e pedagogiche più avanzate, ha saputo cogliere l’essenziale dal mondo antico per innestarlo alle esigenze del nostro tempo. Convinto che il problema del Mezzogiorno va affrontato nell’ottica del lavoro, dello sviluppo e della moralizzazione della vita pubblica, s’impegnò sempre all’effettiva educazione delle coscienze. Del socialismo fece sua l’esigenza della giustizia sociale e la pienezza spirituale della persona: «Il potere è di tutti e insieme è al servizio di tutti. Questa è la sola via per conquistare una libertà che non sia solo illusoria e fittizia». (Da: Aldo Capitini). Domenico Di Moro, che per diversi anni fu 16 pagina n.16 360605_LAVORATO.pdf collaboratore vicario del preside Arcuri, dopo aver enumerato i meriti del filosofo - storico - maestro e politico «ma di vecchio stampo, quando la politica non aveva ancora inquinato le istituzioni», afferma d’aver molto imparato da lui: «la prudenza nell’affrontare i problemi del quotidiano vivere, la mediazione nelle controversie, l’equilibrio e, soprattutto, l’amore per il lavoro assiduo e onesto». Ed il prof. Giuseppe Luccicano, che gli succedette nella cattedra di storia e filosofia presso il Liceo Classico di Cittanova, attesta: «Era, il preside Arcuri, un educatore di stampo socratico-platonico che privilegiava come metodo, nei rapporti interpersonali, a scuola come nella vita, il dialogo, donde la sua particolare attenzione alla filosofia di Guido Calogero. Il dialogo era per lui lo strumento tipicamente umano (gli uomini ragionano e dialogano, le bestie sibilano, diceva agli studenti in sciopero che rifiutavano di discutere, in occasione di qualche manifestazione tumultuosa nel periodo più caldo della contestazione sessantottesca), era il conversare, il domandare e il rispondere tra persone associate dal comune interesse per la verità». Ma, sosteneva Terenzio: “Verǐtas odium parit”. Nel dicembre 1955 Arcuri pagò ben cara la sua polemica a difesa dei professori. Il senatore Tomé, in quei giorni di rivendicazioni economiche della categoria, aveva rivolto al Governo un’interrogazione affinché, unitamente a quello dello stipendio, fosse imposto un aumento di ore d’insegnamento ai docenti. La lettera di protesta, che 17 pagina n.17 360605_LAVORATO.pdf Arcuri inviò al parlamentare, gli procurò una denuncia all’autorità giudiziaria. Il processo che ne seguì fu perso, ma per la scuola costituì una delle prime mobilitazioni sindacali. Un comitato di docenti, mediante una sottoscrizione, raccolse il danaro per le spese della causa sostenuta dal professore e con la somma residuata furono istituite delle borse di studio a favore degli alunni più bisognosi e meritevoli dell’Avviamento Agrario di Cittanova. Le vicissitudini e lo stress, purtroppo, causarono ad Arcuri un infarto che lo costrinse a trasferirsi a Reggio Calabria. Rientrato dopo un lustro al vecchio Liceo di Cittanova, ormai divenuto autonomo, il preside trascorse un periodo felice e denso di rapporti umani grazie principalmente all’amicizia di Guido Calogero e Aldo Capitini. Ma il 29 maggio 1979 aveva appena completato la biografia di quest’ultimo, guida del Movimento per la Pace, e il “campionario di articoli, spunti e memorie: Così parlando onesto”, allorquando improvvisa e inesorabile è sopraggiunta la morte. L’opera estrema, una sorta di presago testamento intellettuale, prima che ai cari nipotini - ha premesso Arcuri, è dedicata «a quei giovani (o non più giovani) incontrati ed amati nella mia lunga milizia scolastica. A loro, infatti, devo la consolazione di un sempre rinnovato lavacro di gioventù che mi ha consentito di credere in una più giusta e più buona umanità». Ma non finisce qui! «Questo romanzo continua», ha assicurato il professore. «E’ uno di quei romanzi che continuano. Sempre. Prima e dopo di questa puntata. Per il riassunto delle puntate precedenti bisogna andare direttamente 18 pagina n.18 360605_LAVORATO.pdf alle fonti: atto di nascita presso il Comune di Rizziconi, attestato di prima comunione, verbale di espulsione dalla scuola in quinta ginnasiale per gita in barca non autorizzata. Questo e ben altro, amici, ben altro. Purtroppo. Per le puntate seguenti chi può saperne nulla? Bisognerà armarsi di pazienza e scorrere ogni giorno il quotidiano locale fino a quando tra i necrologi non compariranno sette righe dedicate a me e qua a là non saranno affissi i rituali manifesti listati a nero col mio nome. Per conto mio non ho fretta. Questo è un romanzo che continua». Ancora a 64 anni, però, il tempo l’ha tradito ed ora spetta a noi far proseguire quel romanzo per un’imperitura memoria. Bibliografia essenziale: • Ugo Arcuri, Così parlando onesto, Tip. Meridionale, Cassano delle Murge - BA, 1974; • Ugo Arcuri (a cura), Diomede Marvasi e la sua requisitoria contro l’Ammiraglio Persano, Ed. Scilla - RC, 1966; • AA.VV., Testimonianze storico pedagogiche in ricordo di Ugo Arcuri, Accademia Libera “Novi Albori”, Cittanova - RC, 1989; • Rocco Lentini, Fascismo, Borghesia Agraria e lotte popolari in Calabria: Rizziconi 1918- 1946, Jason Ed. - Reggio Cal., 1992. 19 pagina n.19 360605_LAVORATO.pdf Antonino Basile Sento il dovere di tributare la mia riconoscenza al professore Antonino Basile per avermi esortato ad intraprendere lo studio del nostro ambiente, dopo la pubblicazione dei Proverbi di S. Martino (aprile 1959) sulla rivista Folklore della Calabria di Palmi da lui diretta. Numerosi scrittori hanno plagiato il mio lavoro, ma non me ne dispiace. Altri, come il Rohlfs e il Cucinotta (rispettivamente con il Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria e Proverbi calabresi commentati) l'hanno opportunamente valorizzato. Avendo seguito le orme di Basile, uomo aperto e sensibile ai problemi sociali e culturali, oggi anch’io posso esprimere con Dante il ringraziamento rivolto a Virgilio: Tu se' lo mio maestro e il mio autore; tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore. (Inf. I, 85-87) Fino alla morte, avvenuta nella cittadina natale il 9 febbraio 1973 - all'età di 64 anni, fui vicino all'illustre 20 pagina n.20 360605_LAVORATO.pdf storico che al movimento contadino dedicò gran parte della sua vita modesta e solitaria. Era nato a Palmi il 12 aprile 1908 da Giacomo e da Concettina La Capria, allorquando il tragico sisma del 28 dicembre lo colse in fasce condizionando la sua infanzia, come pure durante il travagliato periodo della ricostruzione si delineò la sua scelta politica. «Il socialismo di Basile ebbe peraltro un carattere eminentemente etico. Il suo popolo non si definiva in senso classista e la società da lui vagheggiata era più organica che conflittuale», ha sostenuto nella sua premessa Gaetano Cingari. «La realtà che egli indagava, e quella in cui viveva, gli proponevano forme diverse e opposte dal modello concepito già negli anni giovanili. Da qui il suo tormento interiore e il suo solitario e fecondo itinerario intellettuale». (Da: Baroni, contadini e Borboni in Sila di A. Basile - Gangemi ed. - 1989). Dopo gli studi secondari del suo paese, Basile conseguì nell'anno scolastico 1925/26 presso l'Istituto "Gulli" di Reggio Calabria l'abilitazione magistrale. Successivamente, avendo superato il relativo concorso, iniziò l'insegnamento elementare. Nel 1926 intraprese pure gli studi di filosofia e pedagogia al Magistero di Messina, dove si diplomò con punti 60/60 e la lode accademica discutendo la tesi: Il pensiero religioso di Giuseppe Mazzini. Dal 1937 al 1942 si trasferì a Messina per insegnare lettere negli Istituti Magistrali, prima di passare a Reggio fino al 1950. Nel 1949, sempre nella città dello Stretto, si laureò in materie letterarie e per un anno insegnò a Napoli. 21 pagina n.21 360605_LAVORATO.pdf La perdita del genitore lo richiamò a Palmi e, fino al 1961, fu preside incaricato presso il locale Istituto Agrario Statale con l'insegnamento delle sue discipline. Superato il concorso come preside di ruolo, per due anni diresse l'Istituto Magistrale De Nobili di Catanzaro e dal 1963 al 1972 quello della sua amata città. E' merito dell'appassionato studioso aver fondato la Società calabrese di etnografia e folklore, nonché nel 1955 - unitamente a De Rosa - il Museo di etnografia e folklore intestato a Raffaele Corso. L'istituzione, fra le più ricche e attrezzate del Mezzogiorno - con oggetti e reperti della sapienza popolare, sorge presso la Casa della Cultura di Palmi ed è meta di turisti e studiosi. Pure la rivista Folklore della Calabria - nata nel 1956 e condotta con grandi sacrifici personali fino al 1963 - ha contribuito a diffondere le nostre tradizioni, un bene inestimabile di cui dobbiamo essere orgogliosi se non vogliamo perdere la nostra identità. Possiamo essenzialmente suddividere l'opera del prof. Basile in due sezioni: la storia e il folklore. Dal primo filone rileviamo l'evolversi del Monachesimo in Calabria, i moti contadini dal 1848 al 1870 e le lotte per il possesso delle terre: un quadro drammatico della questione silana che spiega la strutturale contraddizione meridionale. Nel folklore constatiamo l'ampio spazio dedicato ai riti popolari legati ai vari momenti della vita, all'agiografia, alle credenze e alle superstizioni. Il servizio con il quale Basile esordisce nella rivista da lui fondata riguarda - appunto - le apparizioni prodigiose e le istituzioni dei 22 pagina n.22 360605_LAVORATO.pdf santuari nelle nostre tradizioni. Qui il racconto della Madonna di Polsi coinvolge emotivamente il lettore: Miraculu di Ddeu ch'ija matina ca lu massaru lu jencu circava vaci e lu trova ad Aspromunti 'n cima ch'an dinocchiuni la cruci adurava. Dalla straordinaria sensibilità con cui il professore interpreta il sacro, affermo che oltre a fare scoprire la propria eccezionale dimensione filosofico-religiosa, egli crede fermamente alle cose belle che provengono dalla verità. Gli argomenti che seguono nella rassegna, come l'animismo, i Vangeli Apocrifi, i canti popolari, i detti e proverbi costituiscono un materiale prezioso che ogni calabrese dovrebbe conoscere. A motivo dei suoi alti meriti culturali, nel 1957 il professore fu nominato dal Presidente della Repubblica socio effettivo della Deputazione di storia patria per la Calabria e Lucania; nello stesso anno fu pure premiato con la medaglia di bronzo quale benemerito della scuola - della cultura e dell'arte. Non va sottovalutato, infatti, lo studio di Basile per i beni culturali della nostra Regione. Ricordo, a proposito, una sua venuta a S. Martino di Taurianova per l'attenta osservazione della pregevole statua della Vergine col Bambino in braccio, realizzata a tutto tondo in marmo bianco di Carrara e che si trova nella Chiesa parrocchiale. Anche se non ho mai condiviso lo stile da 23 pagina n.23 360605_LAVORATO.pdf lui assegnato a Giovanbattista Mazzolo, in quanto perfino dai riquadri dello scannello si nota l'analogia con l'immagine di Antonello Gagini del Museo Nazionale di Messina e con quella della Chiesa di S. Marco di Seminara, ne apprezzai l'interesse. Ben documentato - invece - si rivela il giudizio nei confronti della Madonna del Popolo, che si può ammirare nel Duomo normanno di Tropea, opera della bottega di Montorsoli - il frate fiorentino allievo di Michelangelo. Il Capitolo della graziosa cittadina tirrenica, probabilmente, nell'ordinare la statua si era ispirato al modello della Madonna del Gagini esistente nella Chiesa arcipretale di S. Leoluca di Vibo Valentia e - prima della scoperta di Basile - si riteneva che anche la scultura di Tropea appartenesse alla famosa scuola siciliana. Non è facile trarre una conclusione sulla poliedrica personalità dell'uomo e dello scrittore, che ha osato risalire agli autori classici nel riportare le nostre tradizioni e ha fatto riferimento agli altri popoli nel descrivere le nostre devozioni popolari. Basile - pertanto - è un uomo di grande attualità, un personaggio europeo proteso verso il mondo che - a 36 anni dalla scomparsa - ci corre l'obbligo di rivalutare in modo adeguato. Non sono sufficienti l'intestazione di una via e una lapide a ricordare un benemerito che per la sua città ha speso l'intera esistenza. 24 pagina n.24 360605_LAVORATO.pdf Lorenzo Calogero Lorenzo Calogero, medico e poeta, nasce da famiglia agiata a Melicuccà (Reggio Cal.) il 25 maggio 1910 e là muore tra il 22 e il 25 marzo 1961. Prima di togliersi la vita lascia un biglietto con la scritta: «Non seppellitemi vivo». E’ l’estremo segno di timore per la sorte della sua poesia, mentre esplode quella psicosi che non è mai riuscito a superare - già avvertita ne “La fine del mondo”: Ho visto l’anima naufragare pazza disperatamente. Ho sentito dissotterrare la storia grave della mia mente. (Da: Parole del tempo - Ed. Maia, SI 1956). «I giornalisti hanno fatto il loro giuoco provocando le nostre confidenze, le nostre dichiarazioni», ha affermato il concittadino Giuseppe Fantino, «e un po’ - trattandosi del caso Calogero - le nostre ossessioni e hanno scritto i loro articoli, tenendosi a mezzo tra la realtà e la fantasia. Hanno scritto, però, pezzi interessanti, almeno quelli che ci è capitato di leggere; e alcuni, in pieno realismo, hanno fatto di lui un poeta maledetto. 25 pagina n.25 360605_LAVORATO.pdf Invece quello che appariva a prima vista era la stoffa del buon figliuolo, e che il maudit esistesse in lui non vogliamo negare, ma non era in quella parte che tutti conosciamo». (Da: Appunti e saggi di critica letteraria - Gastaldi, MI 1964). Per comprendere il patetico nichilismo (o meglio il misticismo, come sostiene Fantino) di Calogero è necessario ripercorrere le tappe essenziali della sua travagliata esistenza. I genitori, discendenti da professionisti, dopo aver fatto frequentare al figlio la scuola primaria del luogo e quella della vicina Bagnara, nel 1922 si stabiliscono per un lustro a Reggio Calabria al fine di seguire Lorenzo prima all’Istituto Tecnico e poi al Liceo Scientifico. Nel 1928 passano a Napoli dove, dopo un biennio di studi d’ingegneria, Calogero s’iscrive in medicina e chirurgia laureandosi nel 1937. Ha inizio pure l’opera giovanile, edita nel 1935 in Dieci poeti, nonché la silloge Poco suono (Centauro, MI) - ripubblicata nel 1956 unitamente a Venticinque poesie nel volume Parole del tempo (Maia ed., MI). Nel 1938 consegue a Siena l’abilitazione all’esercizio della professione, ma come medico (prima a Melicuccà e poi in numerosi paesi della Calabria) è un fallimento. Tra il 1942 e il 1943 tenta il suicidio e l’anno successivo si fidanza con un nulla di fatto a Reggio. Si richiude, allora, in se stesso divorando libri su libri. Sono forse di questo periodo le sillogi di liriche: Ma questo e Come in dittici. Dietro insistenza della madre, alla quale rimane sempre legato, nel 1954 partecipa e vince il concorso come medico condotto incaricato a Campiglia d’Orcia (Siena). Ma il lavoro gli riesce insopportabile e 26 pagina n.26 360605_LAVORATO.pdf confida ai familiari il desiderio di lasciarlo. Fa stampare nel 1955 Ma questo (Ed. Maia, Siena) e manda copia ai critici del momento senza ottenere alcun esito positivo. Dimesso dal posto per incapacità con delibera comunale, invia a Leonardo Sinisgalli (1908-1981) la silloge dattiloscritta Come in dittici, prima di pubblicare Parole del tempo (1956). Passando da Roma, coglie l’occasione di conoscere personalmente il noto poeta che diverrà suo estimatore e protettore. D’ora in poi, infatti, sarà Sinisgalli a difenderlo contro la sordità e l’indifferenza di editori ed intellettuali: Quale vergogna per voi amici vittoriosi, splendenti, quale scherno la vostra boria la sfortuna, la miseria d’un uomo inetto, innocente! Lorenzo Calogero da Melicuccà è venuto a chiedervi pietà in nome della poesia. Come un cane infetto ha raspato alle vostre porte, nessuno gli ha aperto. Le precarie condizioni di salute costringono Calogero a frequenti ricoveri presso la clinica per malattie mentali Villa Nuccia di Catanzaro. Nel 1960 incontra nella Capitale il critico Giuseppe Tedeschi, che gli appronterà il primo volume delle Opere poetiche. Trascorre da solo gli ultimi anni nel paese natale nutrendosi di caffè, sigarette e sonniferi fino alla tragica 27 pagina n.27 360605_LAVORATO.pdf fine che avrebbe dovuto richiamare ognuno alle proprie responsabilità. Il biglietto abbandonato ripropone - infatti - il disperato messaggio di Calogero che, in cambio del riconoscimento della sua poesia, è disposto a sacrificare la vita: Datemi quel tanto che mi spetta e me ne vada: ho le labbra arse secche schiume di cavalli. Sono vano per troppo aspettare. Sento la mia pupilla affogare in un labile pianto. Tendetemi la mano ed accoglietemi nel grembo vostro: mai desiderai la morte come in questo momento. (Da: Poco suono - Ed. Centauro, MI 1936). Come ha rilevato l’amico Giuseppe Fantino: «Grande interesse ha esercitato sulla stampa italiana e straniera la vita e il destino di Lorenzo Calogero… Ma non risulta che la critica ufficiale, cioè la critica delegata a criticare, abbia cominciato l’esame della sua poesia; anzi… aspetta che la poesia del Calogero «invecchi». Crediamo, invece, ch’essa non invecchia. E’ troppo sofferta, troppo legata a ciò che di più vivo fu in lui, perché possa invecchiare. Egli amò, sofferse, cantò e non poté del tutto invecchiare né del tutto morire». (Da: Appunti e saggi di critica letteraria, op. citata). 28 pagina n.28 360605_LAVORATO.pdf Calogero rappresenta il caso limite dell’uomo di cultura calabrese, obliato ed incompreso. Io che sono stato vicino ad altri personaggi (come Basile e Fantino) nel momento in cui tutti si sono dimostrati indifferenti, non posso trattenere una lacrima di fronte alla purissima poesia del nostro conterraneo. Ma alla commozione subentra la rabbia verso la società ottusa e meschina che abbandona nel pericolo i suoi figli migliori. Giuseppe Ungaretti (1888-1970), caposcuola dell’ermetismo, parlando del nostro uomo e riferendosi agli altri maestri del Novecento, ha convenuto: «Lorenzo Calogero, con la sua poesia, ci ha diminuiti tutti!». Mario Luzi ha sostenuto: «Credo che Calogero sentisse il silenzio che si era abbattuto su di lui (o che aveva cercato?) come una sciagura, anzi come la somma delle sue sciagure: lo ascoltò, lo analizzò, lo riempì tutto quanto di una fitta trama di sensi e infrapensieri ai confini con la vertigine: ed erano essi stessi doni o castighi di quel silenzio». Concludo con le parole riguardanti Calogero di Eugenio Montale (1896-1981), premio Nobel 1975: «Egli non scriveva la sua poesia, la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile. Se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi, sarebbe ancora vivo». Bibliografia essenziale: • Lorenzo Calogero, Antologia (proposta di lettura di R. Meliadò), Falzea, RC 1996; • G. Fantino, Scàmpoli (vol. II), Tip. Palermo, Palmi 1960; • Giuseppe Fantino, Scàmpoli (3^ serie), Gastaldi Ed., MI 1963; • La Provincia di Catanzaro, Anno II n. 4 (Luglio/Agosto 1983): Speciale Calogero. 29 pagina n.29 360605_LAVORATO.pdf Alberto Cavaliere Fin dall'adolescenza seguii con ammirazione ne La Domenica del Corriere i versi effervescenti de Il cavaliere errante, a commento del fatto della settimana, e con dispiacere appresi il 7 novembre 1967 la sua tragica scomparsa. Il decesso avvenne a Milano, a causa delle ferite riportate la settimana precedente a San Remo, dove Alberto Cavaliere era stato investito da un motociclista. Spesso, come un presentimento, riaffiorava nell'ironia del popolare poeta il tema della morte: La vita fuggirà dalle mie mani io l'amo, questo bene perituro, questo tesoro che non son sicuro di ritrovare all'alba di domani. Laggiù, nella mia cassa solitaria, non berrò più la luce del mattino e delle stelle; gelido e supino, non sentirò la musica dell'aria. (Da: Reparto agitati). Nato a Cittanova (Reggio Cal.) il 19 ottobre 1897 da Domenico e da Marianna Fonti, Cavaliere studiò a Montecassino e già dodicenne faceva saltare i nervi ai docenti con le sue ingenue satire. 30 pagina n.30 360605_LAVORATO.pdf Aderendo, quindi, al desiderio paterno che voleva fare di lui un bravo farmacista si iscrisse all'Università di Roma. Ma come lo stesso racconterà nell'introduzione del suo libro Chimica in versi: Da giovane studente, bizzarro e dissoluto, non andai mai d'accordo col piombo e col bismuto; anche il vitale ossigeno mi soffocava; il sodio, per un destino amaro, sempre rimò con odio; m'asfissiò forte a scuola, prima che in guerra, il cloro; forse perfino, in chimica, m'infastidiva l'oro. E di tutta la serie sí numerosa e varia di corpi e d'elementi, sol mi garbava l'aria, quella dei campi, libera, nel bel mese di luglio: finché non m'insegnarono che anch'essa era un miscuglio! Così l'esame si era risolto con un grande fiasco: Un vecchio professore barbuto, sul cui viso crostaceo non passava mai l'ombra d'un sorriso, un redivivo Faust, voleva ad ogni costo saper da me la formula d'un celebre composto. Non sapevo altre formule che questa: H2O; e questa dissi: il bruto, senz'altro, mi bocciò. Allora, da calabrese verace e tenace, durante l'afosa estate si era ingegnato a rendere la chimica più viva, traducendola in versi, e nel ripresentarsi ad ottobre sbalordì tutti: - Mi parli del cloro… "Il vecchio professore dalla barba irsuta e grigiastra non degnò neppure di uno sguardo il candidato…che sembrò esitare e reprimere a stento un sorriso. 31 pagina n.31 360605_LAVORATO.pdf - Ha capito? Mi parli del cloro, via… Sotto la spinta dell'intimazione imperiosa, Alberto Cavaliere cominciò: Composto trovasi, puro non già, per la sua massima affinità. Giallo verdognolo, d'odor non grato, è un gas venefico che ci vien dato! Proseguendo di tale passo, il giovane e nobile rapsodo calabrese ottenne al medesimo tempo la laurea in chimica e poesia. "D'allora egli si fece errante per il mondo, e poiché non ebbe, o non riuscì a trovare altre amiche che Madonna Povertà, tentò varia fortuna e arti parecchie; via via, amanuense, attore drammatico, giornalista". (Dalla prefaz. di G. Manacorda alla Chimica in versi). Infatti, dopo aver lavorato come chimico presso il Ministero dell'Aeronautica, preferì la libera professione. Il modo di vedere e di giudicare del nostro arguto e versatile poeta non mutò neppure nella legislatura 1953-1958, allorquando venne proclamato deputato. Col suo spirito critico interveniva alla Camera, toccando gli interessi degli uomini di partito e di Governo per cui - alla scadenza del mandato - tanti parlamentari tirarono un sospiro di sollievo per la sua mancata rielezione. Una volta il Ministro della Pubblica Istruzione accolse un ordine del giorno dell'onorevole poeta, mirante ad una maggiore 32 pagina n.32 360605_LAVORATO.pdf vigilanza sui libri di testo. Dopo essersi dichiarato soddisfatto, Cavaliere concludeva: Speriamo solamente che il progetto, non se ne vada in fumo, anzi in fumetto! Padrone perfetto del ritmo e di rara capacità di sintesi, fu redattore de La Domenica del Corriere, del Travaso delle idee, dell' Illustrazione italiana, di Bertoldo, del Marc'Aurelio e del Becco giallo, oltre che collaboratore di Stampa Sera e dell' Avanti! Fra le numerose opere dell'illustre scrittore e umorista ricordo la Storia di Roma in versi. Anche qui i personaggi balzano vivi ed esuberanti con tutti i loro difetti, come nel caso di Domiziano: E' un tipo autoritario, uomo di poco brio, si fa, negli atti pubblici, chiamar «Signore» e «Dio». E dopo, ha un vizio, gravido di conseguenze fosche: un'ora al giorno dedica ad ammazzar le mosche. Non manca l'esaltazione delle virtù: Marciando la vigilia, aveva Costantino veduto in ciel rifulgere un simbolo divino: la Croce, con le mistiche parole: «In questo segno tu vincerai». Massenzio, l'imperatore indegno, 33 pagina n.33 360605_LAVORATO.pdf fugge col rotto esercito, cade nel fiume e annega. Il fortunato libro si conclude con Odoacre e il tramonto di Roma del 476 d. C.: Ed a Costantinopoli il barbaro guerriero spedisce, vano simbolo, le insegne dell'Impero. Così cadeva, vittima delle sue colpe stesse, quella città magnifica che tutto il mondo resse: ma sopravvisse, splendida ed immortal sovrana, luce di tutti i popoli, la civiltà romana. Nei tipi e figure del Reparto agitati scopriamo le debolezze e le stranezze della vita: C'era un avvocatino, povero avvocatino settantenne!, con una chioma lunga, bianca bianca, e una barba solenne mi faceva un inchino, m'accarezzava con la mano stanca. Son qui da quarant'anni! quando morrò, Gesù, rispondi, il manicomio c'è forse anche lassù? - - Lassù? C'è un grande palazzo d'oro pei derelitti di questa vita tutto un giardino, tutto un tesoro, 34 pagina n.34 360605_LAVORATO.pdf ed aria libera, luce infinita.- - E donne, Cristo, donne, ne vedi? - - Oh, bionde, brune, tutto un fiorire! - L'avvocatino, curvo ai miei piedi, mi supplicava: - Fammi morire!…- Pur avendo scelto Milano come sua città adottiva, Cavaliere non dimenticò mai le sue origini: M'è cara la mia terra, e la ritrovo come nel sogno d'un lontano aprile, questa calabra terra aspra e gentile, con il suo volto antico e sempre nuovo, coi suoi brulli dirupi ermi e scoscesi, scavati dalle indocili fiumare, da dove ancor si specchiano nel mare le fortezze angioine e aragonesi: questa terra che fu, nei suoi begli anni, la Magna Grecia e che sfidò, negli evi, la ferocia d'Annibale, e gli Svevi e i Saraceni e i Turchi ed i Normanni; terra d'asceti, terra di pastori e di guerrieri, dove, ad Amantea, l'Italia trovò l'ultima trincea contro l'audacia dei conquistatori. Nella Villa Comunale della città natale, un bronzo ricorda il legame affettuoso che univa Cavaliere alla nostra Terra: Mi piace Cittanova, il mio paese, che vedo ormai soltanto in cartolina: una ridente e mite cittadina, alla buona, così, senza pretese… L'aspirazione dell' esule poeta sarebbe stata quella di 35 pagina n.35 360605_LAVORATO.pdf venire qui sepolto: Senza fretta, s'intende, fra molti anni, compiuto il lungo e inutile cammino, penso sia dolce riposar vicino ai genitori e al vecchio zio Giovanni. (Dalla lirica: Cittanova). Ma il volere del fato è imperscrutabile: così le spoglie mortali si trovano a Milano, mentre a Cittanova una piazza tramanda ai posteri l'amore di un uomo coraggioso che, sfidando la mentalità del Nord ha osato denunciare: C'è chi ignora che molti ‹terron› rinomanza, splendore e fortune hanno dato alla patria comune, nella lingua che Dante parlò: Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, il divino Torquato; e quel Vico, dal mondo acclamato, e quel Bruno che il rogo affrontò. (Da: Rataplan!!!). Non ci rimane, ormai, che rinnovare la memoria del nostro chimico-poeta: «La sua produzione andrebbe quasi tutta trascritta e, comunque, riletta al focolare e negli ozi dove, alla distensione mentale, i suoi versi aggiungono quel tipico odore di museo che fa ritrovare astrazioni narrative tra favola e morale». (D. Cara) 36 pagina n.36 360605_LAVORATO.pdf Don Giulio Celano Nel secolo scorso influì in modo determinante allo sviluppo spirituale e morale del nostro paese don Giulio Celano (quarto di 11 figli), nato a Polistena il 15 gennaio 1875, il quale condusse una vita esemplare di zelo e di sacrificio. Ordinato sacerdote nel Seminario Vescovile di Mileto il 23 dicembre 1899, dal 1° gennaio 1900 coprì la carica di economo curato a S. Martino, dove alla fine dell’anno successivo istituì la Pia Associazione di Maria SS. Immacolata. Nominato parroco il 1° aprile 1903, si prodigò per 45 anni per la salute anche fisica dei suoi fedeli. Pertanto, il 28 settembre 1945, allorquando una lunga malattia lo costrinse a tornare alla Casa del Padre, l'intera cittadinanza commossa gli tributò le estreme solenni onoranze. Era già convinzione che il vuoto da lui lasciato difficilmente sarebbe stato colmato. Anch’io giovinetto, presente alla cerimonia, mi asciugai gli occhi umidi di pianto. Nelle scuole elementari e alla 37 pagina n.37 360605_LAVORATO.pdf catechesi avevo apprezzato la generosità di un tal prete, che ad ogni incontro ripeteva il gesto di Gesù verso i fanciulli esaltato dal Vangelo. Il ricco patrimonio di tradizioni, tramandatoci dagli avi, per opera di don Giulio veniva rivissuto in serena letizia da tutta la comunità. Durante la spensierata ricorrenza del Carnevale egli addobbava a proprie spese con maschere e vestiti sgargianti, confezionati magari con carta crespa, i chierichetti e gli scolari più meritevoli e li mandava poi a lanciare confetti e cioccolatini nelle modeste abitazioni della nostra laboriosa gente. I sammartinesi ammiravano e ricambiavano ogni suo gesto spontaneo frequentando la chiesa e i sacramenti. Il mio genitore, Rocco Caruso, gli fu organista in chiesa. Nell'imminenza della Settimana Santa, don Giulio faceva costruire dai giovani gli strumenti di canna o di legno (carìci e tocche) per invitare i fedeli alle cerimonie sacre nei giorni in cui le campane rimanevano legate. Al grido di noi adolescenti: - All'ura all'ura, ca ’u Signuri è sulu! - tutti accorrevano ad adorare il Santissimo Sacramento esposto sull'altare. I riti risultavano così avvincenti da richiamare alla fede anche i più scettici. Per le tenebre del Mercoledì Santo consentiva a un cittadino di battere in chiesa con una piccola scure la base lignea dell'altare di Santa Lucia che, subito dopo la Pasqua, veniva riparata da un falegname. Naturalmente, nessuno trascurava di confessarsi e d’intraprendere un percorso di perfezione spirituale ed i frutti della 38 pagina n.38 360605_LAVORATO.pdf Resurrezione duravano per l'intero anno liturgico. Nel mese di maggio trenta chierichetti venivano preparati alla predica serale da tenersi a turno durante i giorni feriali in chiesa. La domenica era riservata a don Arcangelo Sorbara che con il suo eccezionale humour ricreava un'atmosfera cordiale e sincera. Si tornava a casa ripetendo le storielle spiritose, ma di ineccepibile moralità, con le quali il reverendo cittanovese intercalava le sue forbite omelie. Malati ed anziani ricevevano l'aiuto e il conforto di don Giulio. Avendo - infatti - studiato medicina e rinunciato a detta scienza dopo l'autopsia di un cadavere, egli era in grado di prestare il primo soccorso agli infermi al tempo in cui si era carenti di medici sul posto. I suoi consigli e le cure risultavano tanto efficaci da salvare spesso la vita ai cittadini ricorrenti. Pure la scarsità di scuole veniva compensata dall'azione educativa di don Giulio che istruiva gratuitamente giovani e analfabeti. Dalle sue composizioni, raccolte da mio padre, ho tratto L'inno di S. Martino (musica di O. Talenti) che viene eseguita in chiesa per la novena del Santo Patrono, i cui festeggiamenti si celebrano l'11 novembre. I contadini, infine, che costituivano la nostra categoria principale, facevano benedire dal parroco persino le coltivazioni dei campi e gli animali domestici. In segno di gratitudine però, come menzionato, tutti frequentavano la Chiesa che nei giorni festivi era gremita fin sul piazzale antistante. Don Giulio, per incrementare la fede, istituì negli anni trenta l' Associazione femminile del Sacro Cuore e la 39 pagina n.39 360605_LAVORATO.pdf Schola Cantorum. Il 30 novembre 1939, per merito suo, nella parrocchia fecero ingresso le Suore Veroniche del Volto Santo accompagnate dal fondatore Padre Gaetano Catanoso (dal 2005 proclamato santo). In precedenza, la domenica delle Palme del 1927 aveva dotato la chiesa anche di un armonium. La stessa unica chiesa, intitolata a Maria SS. della Colomba, che occupa un'area di circa 270 mq., edificata nell'ultimo periodo del XIX secolo dal rev. don Francesco Albanese nella parte grezza di muratura e tetto, fu nel 1906 restaurata da don Giulio Celano. Venne completata di soffitto, di pavimenti, di decorazioni e stucchi lucidi, nonché del palco di legno per la musica e la Schola Cantorum, per un ammontare complessivo di £. 6.542,75. In seguito, affinché venisse riparata dai danni subiti dal terremoto del 1908, dietro richiesta del parroco, il Comune deliberò un contributo. Oggi, dopo gli ulteriori restauri effettuati da don Antonio Scordo e dal successore don Antonio Iamundo, il sacro tempio è più che mai all'ammirazione di tutti. La straordinaria bontà e l'eccezionale cultura di don Giulio sono ancora testimoniati da coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo. Negli anno ’80 l’amministrazione comunale di Taurianova (dietro la proposta mia e di mio padre) ha intestato all’arciprete Celano la via che quotidianamente egli percorse per raggiungere la sua villetta. Ma non è abbastanza: sarebbe l'ora di far meglio conoscere alle nuove generazioni la figura e l'opera di questo illustre religioso, vero benefattore del nostro ambiente. 40 pagina n.40 360605_LAVORATO.pdf Giovanni Conia L’abate Giovanni Conìa nacque a Gàlatro (Reggio C.) nel 1752 da Francesco e da Rosa Siciliano, una famiglia contadina con proprietà e pastorizia. Nel 1777 fu ordinato sacerdote dal vescovo di Nicotera; si perfezionò - quindi - a Roma negli studi teologici, venendo in fama come valente oratore e predicatore nella Cappella Sistina davanti al Papa Pio VII. Anche a Reggio Calabria, si tramanda, dov’era stato chiamato dall’Arcivescovo a tenere il pergamo nel Duomo per la solenne ricorrenza della Madonna della Consolazione, alla presenza delle più alte autorità e del popolo, diede prova della sua eccezionale erudizione. Presentandosi muto, infatti, a chi lo redarguì per l’inspiegabile comportamento, l’abate rispose che stava ad attendere l’argomento dell’omelia. Avutolo, fu di una tale dottrina ed eloquenza da strabiliare tutti. A motivo delle sue doti di oratore e umanista, don Giovanni fu chiamato dal principe Filangelo Vibonese a far parte dell’Accademia Florimontana di Monteleone assumendo il nome di Floribo Elidonio. «La cultura del Conia», ha scritto A. Piromalli, «è istituzionalmente ecclesiastica negli anni che precedono e seguono la Rivoluzione francese. I suoi studi sono 41 pagina n.41 360605_LAVORATO.pdf fusi con le funzioni dell’istituzione: musica di organo, canto, cerimonie ecclesiastiche, oratoria, teologia. Reso idoneo a Roma ad curam animarum e approvato confessore, Conia fu vicecurato nella parrocchia del SS. Salvatore in Campo». Dopo tre anni di soggiorno nella Capitale, durante il quale fu uno dei dodici catechisti per l’approfondimento della dottrina cattolica, ritornò in Calabria come economo curato a Rombiolo e dal 1782 per undici anni parroco di Orsigliadi. Fece poi il parroco a Caridà, a Zungri, arciprete della ricettizia S. Maria degli Angeli e S. Gregorio Taumaturgo a Laureana di Borrello, canonico arciprete della Cattedrale di Mileto nel cui Seminario svolse pure le mansioni di rettore e professore di teologia. Nel 1824, morto il Vescovo, Conia governò interinalmente la Diocesi per invito dei capitolari. Alla nomina del nuovo prelato, l’abate accettò l’invito del Vescovo di Oppido e nel 1826 raggiunse per sempre la nuova sede divenendo canonico protonotario, convisitatore, promotore fiscale, esaminatore sinodale, rettore del Seminario e cantore. Questa ultima dignità è menzionata nell’atto che registra il suo trapasso avvenuto - alla rispettabile età di 87 anni - il 6 febbraio 1839 nell’antica ed accogliente cittadina che custodisce le sue spoglie mortali. Superando le critiche mosse alla poesia del Conia, riguardanti «l’affettazione di ingenuità e credulità ammirativa e celebrativa, di sdegno in cui c’è tenerezza e, perciò, mancanza di vera avversione al male: un’affettazione, insomma, pretesco-arcadica», (come rileva Piromalli), mi soffermerò, (con lo stesso letterato 42 pagina n.42 360605_LAVORATO.pdf calabrese), ne «l’impasto linguistico giocoso-patetico» che «rende Conia poeta nuovo che si incontra con le peculiarità popolari in un ambiente realistico paesano del quale egli canta la gioconda allegrezza, gli avvenimenti scherzosi, le facezie». Nel sonetto, che costituisce il prologo all’opera poetica e che merita di venire riportato per intero, l’Autore ammette d’aver composto le sue bagattelle (‘sti ‘nchiastri) insipide (dissapiti) soltanto per combattere gli sbadigli (li hhasmi) e le affida così come sono alla comprensione del lettore: Amici nci ncappai: no’ mi cridìa, ca mi attrappati mai ntra chisti riti, ‘sti nchiastri calavrisi eu li facìa, mu cumbattu li hhasmi, o fami, o siti ma mi passava mai pe’ fantasia, mu stampu chisti versi dissapiti? Viditi quanta cura nci tenìa, chi mo no’ nd’appi nuju: lu criditi? Vi li jivi cercando ad unu ad unu. Eu stessu mi ndi fici meravigghia, la rrobba mia mu vi la cercu in dunu. Mutai?... Lu vecchiu a l’urtimu stortigghia: mo si vi mancu, no’ nc’è cchiù perdunu; varau la varca… duvi pìgghia pìgghia. Per Conia l’Arcadia può fornire forme leziose che accattivano l’animo popolare, ma non lascia spazio alla poesia se priva di affetto, come appare nella composizione al disciogliersi dell’adunanza: Chissi versi hhiuruti, e mpinnacchiati (adornati) no’ ndi valinu mancu nu tornisi: 43 pagina n.43 360605_LAVORATO.pdf si no’ si sfà lu cori, su’ nchiastrati (cose ridicole). La sola verità è «l’edificazione religiosa nella sua struttura pedagogica della lotta tra il bene e il male». Sarà il richiamo di Dio e la sua infinita misericordia a salvare l’umanità: Mi cridìa ca lu mundu è tuttu chianu: mi la pigghiai cu Ddeu pe’ troppu pocu: vi’ lu Demoniu ca mi jetta manu… Sventura mia! mi sciful’a lu focu… Nei quattro novissimi l’abate detta le norme per un corretto vivere cristiano, dimostrando - dopo oltre un secolo e mezzo - l’attualità di alcuni principi del Catechismo della Chiesa Cattolica: Veni lu puntu mu dicu, finivi. Ma lu cori mi dici, mo chi vivi, tu cu lu tempu ti voi fari amicu. Spendilu beni, e poi non ti spagnari... E st’anima quando esci duvi vaci? Duvi vaci? quando esci vidi a Cristu. Comu lu vidi? in tronu: e chi si faci? Si esamina ogni fattu, o bonu, o tristu… E si (non sia mai Ddeu) su’ cundannatu, lu Diavulu mi acchiappa, e locu locu, mi arrùmbula a lu Nfernu ntra lu focu: ed esciu cchiù? lu casu è disperatu!… Ma si la Leggi mi serviu di scorta, Cristu mi abbrazza, l’Angelu mi pìgghia, la Madonna mi accogghi comu fìgghia, 44 pagina n.44 360605_LAVORATO.pdf San Petru lestu lestu apri la porta… Dalla teologia alla satira per Conia il passo è breve. Ad un canonico che benediceva le case, una cagna gli lacerò il rocchetto; si rise dell’episodio ed alcuni buontemponi idearono ricorsi in giudizio: Su Judici sentiti la ragiuni: vògghiu giustizia cuntra di ‘na cani; Canonacu su eu, non su’ luntruni benedicia li casi, ed a li mani avia la sponza: jivi a la fujuni: li mali attuffi li cridia luntani. La questione della lingua, sempre aperta fin dalla nascita del volgare, era di moda anche al tempo di Conia al quale importa ben poco. Infatti, mentre il dialetto rappresenta per lui un momento giovanile e gli serve per intendersi con i compaesani, da uomo colto usa l’italiano - il solo che unifica il popolo della Penisola - per comunicare con i pari suoi. Non convincono, pertanto, lo stupore del calabro idioma nel notarsi gradito e l’elenco delle sue origini storiche: Nci furu li Tudischi, nci furu li Romani, chi non fìciaru pani a chistu Celu. … Nui simu ntra l’Italia, e fummu Greci puru: e quanti nci ndi furu genti strani. … Nci furu Saracini, nci furu li Normanni, e pe’ tanti, e tant’anni 45 pagina n.45 360605_LAVORATO.pdf li Spagnoli. … Di tutti chisti lingui mi ndi pigghiai ‘na picca vidi quantu su’ ricca di palori. E’ lingua universali la lingua Calavrisa: ma vi’ ca pemmu è ntisa nci vo’ testa. Per quanto riguarda la bibliografia dell’opera poetica, è importante il “Saggio dell’energia, semplicità ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia, canonico, protonotario della Cattedrale di Oppido, con l’aggiunta di alcune poesie italiane dello stesso”, volumetto pubblicato a Napoli dall’Autore nel 1834. Le composizioni dell’abate di Galatro vennero ristampate, dapprima, nel 1878 - 1891, 1929 e 1955 rispettivamente a cura dello storico reggino Mario Mandalari, Pasquale Creazzo e Giuseppe Marzano. Fra l’altro, nel 1980, per le edizioni Parallelo 38 Raffaele Sergio ha raccolto testimonianze e poesie del nostro illustre conterraneo che ha tenacemente difeso il nome dell’amata Calabria. Bibliografia essenziale: • Raffaele Sergio, L’Abate Giovanni Conia - Poeta dialettale calabrese - Edizioni Parallelo 38, RC 1980; • Antonio Piromalli, La letteratura calabrese - Vol. I - L. Pellegrini Ed., CS 1996; • Nicola Caporale, Nove poeti calabresi - Calabria Letteraria Ed., Soveria Mannelli (CZ) 1986 46 pagina n.46 360605_LAVORATO.pdf Pasquale Creazzo Nella nostra Regione, durante il periodo bizantino, era in uso la lingua greca che nel Trecento necessita già di traduzione. Pertanto la poesia calabrese nasce adulta, anche se figurano antichi documenti come la Carta rossanese scoperta nell’Archivio Vaticano che risale al XII secolo. Trascorrerà quasi mezzo millennio prima che il dialetto possa assurgere alla dignità d’arte. Il prezioso patrimonio culturale dei singoli territori, che si trasmette specialmente con il linguaggio, costituisce la somma dei valori umani e spirituali che caratterizzano l’identità di una nazione. La poesia dialettale rappresenta l’espressione più immediata dei nostri sentimenti e spesso manifesta un’aperta denuncia dei mali della società presente. Il prof. Antonio Piromalli sostiene che «il livello autobiografico delle poesie dialettali di Pasquale Creazzo è caratterizzato da una personalità risentita moralmente, ricca di reazioni e profondamente radicata in un ambiente di villaggio pedemontano calabrese isolato, arretrato, greve ancora dei residui di servitù feudale (il villaggio era stato feudo dei Caracciolo, Pignatelli, Giffone, Cicala e Pescara)». 47 pagina n.47 360605_LAVORATO.pdf Pier Paolo Pasolini nel suo saggio sulla poesia dialettale del Novecento aveva notato che nella nostra letteratura non v’è traccia di quel movimento della società calabrese che nel primo cinquantennio del secolo da feudale diviene moderna. Evidentemente, il noto personaggio ignorava il nostro conterraneo la cui opera per lo più inedita non aveva oltrepassato i limiti dei luoghi in cui visse. Basta esaminare gli scritti pubblicati per notare l’impegno, la ricerca minuziosa e la conoscenza della storia, dell’etnografia e della letteratura calabrese di Creazzo. Tra le sue opere ricordiamo: Su la Divina Commedia - (Cinquefrondi, 1929); Poesie complete di Giovanni Conia - (Reggio Calabria, 1929); Il terremoto del 1908 - Episodio di Cinquefrondi - (Palmi, 1934); Poesie dialettali - 1906/1936 - (Oppido M., 1979); Antologia dialettale - (Cosenza, 1981). Ha collaborato pure a numerosi quotidiani e periodici politici e culturali. «Pasquale Creazzo», afferma Domenico Scafoglio, «avrebbe potuto essere un poeta in lingua, partecipe com’era della tradizione umanistica della cultura calabrese (era un contadino-artigiano, che era stato avviato agli studi postelementari, che aveva poi continuato autonomamente e irregolarmente), ma non volle, perché l’orizzonte della sua cultura più autentica coincideva, in larga misura, con quello della cultura dialettale-popolare». Nato a Cinquefrondi (Reggio Cal.) l’8 marzo 1875 da Federico e da Peppina Grande, famiglia borghese, Creazzo maturò la coscienza di appartenere ad una civiltà sommersa e abbandonata, quella contadina e 48 pagina n.48 360605_LAVORATO.pdf meridionale che incita sempre al riscatto morale e civile: Jetta la zappa; pìgghia lu giornali: Avanti! avanti! dici, o zappaturi… La minditta arrivau di lu to’ mali! Pe’ mmò, pìgghia ‘nu lapissi e grancija… Difendi lu faccìgghiu cu’ la scheda!... Nenti cchiù servi! nenti cchiù patruni: avanti, è santa la rivoluzioni!... (Da: Unità proletaria). Per essere stato anarchico rivoluzionario e alfiere del socialismo (per un periodo anche comunista), fu sorvegliato e perseguitato dai governi prima e durante il fascismo provando fin dagli anni giovanili il carcere politico. Il dialetto gli servì come strumento di conoscenza della vita contadina, per organizzare nella Piana la lotta contro l’oppressione di classe che aveva ridotto allo stremo della miseria e all’emigrazione il nostro popolo. Fin dal 1927 padri e figli analfabeti si ripetevano a memoria Lu zappaturi, il suo canto amaro e disperato sulle tristi condizioni dei nostri lavoratori della terra, un canto di denuncia contro li gnuri: Zappu e mbiv’acqua ntra gozzi rutti… mbivi a la gutti… cu’ mangia e agghiutti! Avi tant’anni chi zappu terra curvu abbuzzuni, comu crapuni. Standu accirchiatu lu pettu serra sempi pistandu cu’ ‘stu zappuni. E scippa e chianta no’ pozzu cchiuni, sempi cogghiendu pe’ lu patruni! 49 pagina n.49 360605_LAVORATO.pdf Nella poesia La zappa e la sciabola, scritta il 16 novembre 1912 in occasione del conflitto libico, sono messi a confronto i due tipi di strumento: quello popolare e quello capitalista, il primo che costruisce e l’altro che distrugge. La gioventù è rovinata dalla guerra e l’esempio di questa tragedia lo troviamo nelle due armi: Nc’era ‘na zappa ‘mpendut’a ‘nu muru di ‘nu catòiu niru e affumicatu, china di rùggia, queta ‘ntra lu scuru, cu’ ‘na lucenti sciàbula di latu. La sciabola ‘nci dissi: - Oh zappa strutta, vattindi, esci di jocu pe’ favuri: non è lu postu toi tamàrra brutta, vicin’a mmia chi lustru di sbrenduri! -... A tanta arroganza: La zappa cchiù non potti risistiri, e ‘ncissi: - Veramenti si’ ‘mprisusa… m’a mmia non mi cumbinci lu to’ diri, ca si’ potenti guappa e valurusa. Lu vi’, pe’ ttia ‘sta casa è ruvinata; spitu di ‘mpernu, facci di guccèri, ‘mpama, spaccuna, brutta sbuccazzata, vattindi tu de ccà ca tu non meri. Tu feti di peccati di sassìna, tu lustri di dolùri, chianti e guai, di sangu tu si’ lorda chiina chiina, e tu smerdiji a mmia pecchì zappai?- 50 pagina n.50 360605_LAVORATO.pdf La rappresentazione del demonio-borghesia (il drago) che San Michele (il proletariatu) sconfigge richiama in senso rivoluzionario la nostra leggenda popolare: Arcangialu di paci, sdarrùpa a Satanassu! Tu si’ lu Socialismu, iju lu riccu grassu! Scafoglio rileva che non c’è mai nei versi di Creazzo «l’anticlericalismo violento di tanta tradizione socialista-massimalista: la demistificazione delle imposture dei preti, la satira di certe forme di devozione popolare strumentalizzata dall’alto non sono fatte da un punto di vista irreligioso, ma, semmai, da un punto di vista ereticale. La percezione stessa dello sfruttamento avviene nei termini che erano più propri della più autentica cultura contadina di protesta che dell’ideologia degli intellettuali socialisti piccolo- borghesi: i padroni sono ricchi epuloni, grassi e leccardi; i politicanti (politicuni) sono vagabondi, camorristi, ladri, mangioni; i preti sono imbroglioni che si arricchiscono sull’ingenuità della gente». Nel periodo elettorale del 1948 i religiosi, per sostenere i potenti privilegiati, si schierarono contro la lista politica del blocco popolare: Lu préviti cumanda ‘ntra li casi, puru se la mugghiéri hai pemmu’abbàsi!... E quantu ntrusarii, ndai pemm’accucchi. Mariti: Siti veri babacùcchi!... Prima di denunciare la loro ingerenza politica, Creazzo 51 pagina n.51 360605_LAVORATO.pdf elogia l’opera meritoria dei Mònaci: Ccà vìnnau d’Orienti, Basiliani: - éranu veramenti genti boni - e formaru Cumménti a munti e chiani. E pe’ l’aggricurtura? - Oh, chi culoni!... ‘Mportaru l’olivari ed atri pianti, li voschi trasformaru a ‘nnu trisoru; la providenza tandu jiv’avanti, e si potìa chiamari età di l’oru. Il nostro poeta contadino, deceduto all’età di 88 anni il 7 settembre 1963, mentre ammira l’incomparabile bellezza del paesaggio calabro, si adopera senza sosta per riscattare le masse dalla subalternità sociale e culturale: O maiu chi risbigghi la natura e simini allegria cu’ suli d’oru; tu chi d’amuri spandi grand’arsura e di rosi e di hiuri ‘nu trisoru… …Lu primu maggiu di rivoluzioni dimenticau lu scopu e lu culuri e di li caduti la mindicazioni… C. Carlino ha notato che Creazzo «non ha operato nessuna rivoluzione poetica ma ci ha dato buona poesia». Soltanto per questo meriterebbe un posto di rilievo nella letteratura calabrese del Novecento. 52 pagina n.52 360605_LAVORATO.pdf Vincenzo De Cristo Tra gli ingegni più eruditi della nostra Regione, un posto di primo piano spetta allo storico - educatore - archeologo - giornalista - politico - poeta e letterato Vincenzo De Cristo (n. 31 dicembre 1860 - m. 5 giugno 1928), capostipite di una fra le più prestigiose famiglie di Cittanova (R.C.). Sotto la guida del genitore, Notar Domenico - patriota e umanista, ha compiuto gli studi classici. Appassionato ricercatore delle glorie passate, ha costruito le memorie del suo paese natale esaltando le figure del nostro Risorgimento e scoprendo ruderi e monumenti della nostra amata Terra. Ha affermato il nostro grande latinista Francesco Sofia Alessio, che a De Cristo ha dedicato il Carme "Vita rustica": «Vincenzo De Cristo era nato maestro e scrittore, e fu di un'attività veramente fenomenale». Ed ancora: «Nei tempi turbinosi, quando l'animo mio era afflitto e scoraggiato per l'indifferenza e la freddezza degli uomini, egli uomo di fede, m'incoraggiò a bene sperare nell'avvenire». Come per il pio poeta taurianovese, anche per De 53 pagina n.53 360605_LAVORATO.pdf Cristo non c'è stato un adeguato riconoscimento nel proprio paese se consideriamo l'eccezionale e ricca produzione letteraria nonché la tenace attività nei più importanti settori della vita pubblica. Segnalo fra i suoi scritti opere storiche: Prime memorie storiche di Cittanova; Cittanova nei fasti del Risorgimento italiano; La caduta di Gioacchino Murat e l'insurrezione della Calabria nel 1815; Cittanova nei fasti del Risorgimento italiano dal 1799 al 1870; biografie: Biografie di Luigi Chitti, di Placido Geraci, di Romeo, di Cardone; opere archeologiche: L'importanza della Piana di Calabria nell'archeologia; opere folkloristiche: Tradizioni popolari ed origini del Comune di Molochio e di Feroleto della Chiesa; La scuola di S. Francesco d'Assisi e la Calabria; opere letterarie: I crocifissori di Gesù Cristo; Il falsatore di monete; La confessione del brigante Maddalena; opere pedagogiche: Studio su Gregorio Gerard; Per il riordinamento del corso popolare; opere varie: I terremoti di Calabria del 1783, del 1894 e la scienza; I cimeli di quel che fu il Duomo di Oppido Mamertina, ecc. Scriveva, a proposito, nel 1926 il colto meridionalista Silvio Mollo su De Cristo: «Egli conta fino ad oggi circa 100 pubblicazioni su soggetti vari, interessanti quasi tutti gli angoli dello scibile umano: dai più agevoli ai più astrusi!». L'avv. Arturo Zito de Leonardis nella sua pregevole opera Cittanova di Curtuladi (1986) ha scritto: «Volle 54 pagina n.54 360605_LAVORATO.pdf con la sua storia rivendicare tutti i nostri diritti, e Cittanova sopra tutte e prima di tutte, divenne in poco tempo, mercé la sua instancabile attività, una patria orgogliosa delle sue memorie e sicura del suo destino. In fondo alla sua anima c'era la pietà per tutti e per tutte le cose umane. Ogni cosa si comprende e si ama nel palpito della sua anima. E per questo senso, questo bene interiore dell'anima, Vincenzo De Cristo rivolgeva a tutte le piccole cose, a queste cose che la mano prepotente dell'uomo minaccia ed annulla». Lo studioso Rettore dell'Università di Napoli, Raffaele Corso, ha affermato: «Il folklore di Cittanova, e in parte della Piana, ci è palese attraverso gli articoli dello storico Vincenzo De Cristo, che seppe porgere l'orecchio alle tradizioni del popolo con diligenza, con acume e, talvolta, con intuito di filologo». «La scuola fu l'oggetto dei suoi pensieri», ha sostenuto l'avv. Filippo Raso, «la scuola ambiente sacro in cui deve schiudersi l'anima umana. E nella scuola fu grande innovatore: presentò ed applicò tutti i metodi moderni. E primi in Calabria per opera sua sorsero un Museo Didattico e una Biblioteca Scolastica». «Vincenzo De Cristo», ha sottolineato ancora Raso, «ebbe un ingegno versatile e non fu un eclettico, ma tutto seppe approfondire. Fondò in Cittanova, fra l'altro, l'Osservatorio di Meteorologia, e l'osservazione meccanica illuminò con i suoi studi in sismologia e scrisse un'opera I terremoti in Calabria e le scienze che riscosse il plauso di Riccò e di Mercalli, per ricordare i sommi». 55 pagina n.55 360605_LAVORATO.pdf Concludo la mia breve carrellata di giudizi con Mons. Bruno Palaja, erudito esegeta: «La Calabria doveva essere alla testa non alla coda: questo lembo che emerse prima, doveva essere valutato adeguatamente, diceva De Cristo… Eravamo Magna Grecia e non dobbiamo essere trattati da Ottentotti o da Zulù. Fummo i Bruzi liberi e indomiti; e fa male i suoi conti chi ci piglia per asini da basto. Son dolori? Siano e ben vengano. Ci temprano, del resto, i dolori; ci spezzano, ma non ci piegano: e anche così spezzati godiamo soddisfazioni morali…». Per verificare la sete di amore e di verità che De Cristo ha nutrito per il nostro suolo benedetto, basta soffermarsi a Il canto del pino. Dall'alto dell'Aspromonte, così il poeta ha dato libero sfogo alla sua fervida fantasia: L'orizzonte azzurro vasto del ciel con quello si confonde del mare nostro e di Sicilia in tutto il sorridente occaso che la vaga cintura delle Eolie ha per confine. Di là il verde dei monti giù discende a stendersi nel piano immenso e vario che l'Appennin circonda; che corona di monti, colli e di valloni ombrosi forma alla Piana; che, d'ogni bellezza d'ogni ben produttrice, è annoverata tra i luoghi più incantevoli d'Italia di Calabria il più bello e il più fecondo, che un tempo fu di quell'Italo regno 56 pagina n.56 360605_LAVORATO.pdf ch'ebbe fortuna, o Italia mia, di dare a te il gran nome che ti fa sì altera e ai barbari dei boschi abitatori le umane leggi che li fer civili. Da quell'altura si contempla intera la gran foresta degli annosi ulivi dalle forme grandiose e dai contorti rami che al ciel si adergon poderosi. Non me ne voglia il lettore se dal nostalgico e soave poemetto ho riportato pochi versi: anche il nostro Sofia Alessio nella sua ode in morte di Vincenzo De Cristo ha dovuto ammettere: Per te s'accese di nova gloria, questa ferace madre di popoli; te le vetuste memorie, riscintillano di nova luce. Concediamoci - dunque - un momento di riflessione: soltanto con la poesia, credetemi, si rinasce e «non merita il nome di creatore se non Iddio e il Poeta!» (T.Tasso). 57 pagina n.57 360605_LAVORATO.pdf Giuseppe Fantino Nemo propheta in patria. (Lc IV, 24). Nessun grande ha fortuna in patria: io che conobbi Giuseppe Fantino, sono pronto a testimoniarne la verità. Negli Scàmpoli, contro ogni forma di omertà letteraria, sarà soltanto egli stesso a fare l’autocritica! Nato a Melicuccà (R.C.) il 28 giugno 1908, dopo aver compiuto gli studi elementari fino al ginnasio nei paesi del nostro Circondario, s’iscrisse al Liceo di Roma ritornando con un’otite che gli procurò la sordità. Conseguì la maturità classica a Reggio Calabria e nel 1933 si laureò in lettere classiche presso l’Università di Catania. Fantino svolse - quindi - la sua carriera d’insegnante in diverse scuole italiane concludendola a Rimini - da dove rientrò molto infermo e, nonostante le amorevoli cure del fratello Ernesto, morì il 20 febbraio 1975. Apprezzai il professore negli anni 60, allorquando insegnava all’Istituto Tecnico di Taurianova. Il primo omaggio che in quell’occasione mi fece fu Parole a Maria, che lo scrittore sostiene d’aver ricevuto manoscritto e abbozzato - tra il 1946 e il ’48 - nei locali della Biblioteca Nazionale di Napoli da un reduce di guerra. La donna di cui si parla era forse un sogno o un 58 pagina n.58 360605_LAVORATO.pdf incubo del povero amico ammalato, deceduto dopo breve tempo. Ma, se in principio la protagonista appare come un ricordo del passato, in seguito si parla di lei come di una persona vivente. Galvanizzati dalle romantiche espressioni che il presunto innamorato rivolge a Maria, i giovani studenti cercavano morbosamente nel libro qualcosa di più personale riguardante l’autore. Pertanto, ebbi l’idea di vergare in fondo all’opera le testuali considerazioni: Ancora il cuore canta la sua pena / con voce roca e con voce ardita; / per una donna l’anima è smarrita, / per un’ingrata pace più non ha. // Canta e rimembra i suoi felici voli, / le notti insonni, le segrete cure: / pietoso trasse già dalle sozzure / colei che fu miraggio e nulla più. // Le tormentate ore senza fine / passan fugaci con malinconia, / ma le parole scritte per Maria / nessuno cancellare mai potrà. A volte non è tanto il talento ufficiale, quanto qualche aneddoto o particolare, a permetterci di scoprire l'io profondo di un letterato o di un artista. Il mio poetico giudizio estemporaneo - infatti - venne gradito da Fantino, col quale intraprendemmo una sincera amicizia, nonché una proficua frequenza per tutto il suo periodo d'insegnamento nel nostro Comune. Spesso, al termine delle lezioni a Taurianova, s'incamminava verso casa ed io lo accompagnavo fino a San Martino. Da qui, raggiungeva la vicina stazione ferroviaria o quella di Amato, da dove prendeva la littorina per Gioia Tauro e poi per Melicuccà. Si era, 59 pagina n.59 360605_LAVORATO.pdf così, instaurata un'esperienza peripatetica fra me giovane insegnante e il professore, esperto critico letterario, che contribuì alla mia crescita culturale. Appresi in anteprima dalle sue labbra quanto in seguito ebbi modo di leggere nei suoi libri: «La storia d'Italia è una ricca polifonia che canta il dramma della complessa anima italiana. Il genio d'Italia, oltre che politico, è genio poetico e profetico. Nella sua misteriosa armonia esso abbraccia e illumina ogni aspetto della vita. Non v'è ramo dello scibile in cui l'italiano non abbia lasciato una traccia di sé. Esso possiede tutte le volontà e tutte le possibilità. Ma l'equilibrio non è tra i suoi doni». Possiamo dividere l’opera di Fantino in tre sezioni: 1) Saggistica: Scàmpoli (4 volumi - 1958/1964); Leopardi: Canti - Interpretazione e saggio introduttivo - (1956); Saggio su Papini - (postumo - 1981). 2) Narrativa (due parti) - Novelle: Uno strano smarrimento - (1960); La città incantata - (1961); Ho baciato sette ragazze - (1962); E’ proibito sognare - (1969). Romanzi: Parole a Maria - (1961); La biografia di nessuno - (1970). 3) Teatro: Appunti per sei drammi - (1972). Fantino “è un pensatore che non è mai pervenuto a compromesso con la propria fede, un uomo che non ha mai prostituito il suo ingegno al potere né il suo animo alla sventura”. «Non c’è mestiere più inutile», si legge nell’ avvertenza del Saggio su Papini, «di chi si serve della 60 pagina n.60 360605_LAVORATO.pdf penna a illuminare o ad ammaestrare il suo prossimo… Chi pretende d’illuminare o di abbuiare l’umanità con la parola scritta è nelle condizioni del bambino che pretende di aumentare la potenza del sole o delle tenebre accendendo o spegnendo un lumino da notte. Il mondo s’accende o si spegne da sé e chi s’ illude di aiutarlo in qualche modo nella bisogna è un ingenuo o un furbo di tre cotte… Si scrive per un desiderio di liberazione anche quando si scrive d’altri». E, conclude l’autore: «Se, nello scrivere, ho male impiegato il mio tempo, non chiedo scusa a nessuno, perché non v’è errore più grave di quello che vuol farsi perdonare speculando sull’educazione o sulla debolezza degli altri». A proposito di Scampoli, Fantino ribadisce nella quasi prefazione: «L’obiettività di giudizio, che caratterizza il saggio storico, critico, estetico è cosa d’altri tempi. Oggi anche lo sbadiglio è una forma di dichiarazione di guerra. Guerra d’interessi, siamo d’accordo, e non di idee; ma sempre guerra, e guerra ad oltranza. Unite venti italiani in un caffè, in una sala da ballo, in un campo sportivo: dopo cinque minuti li troverete scissi, dissidenti, nemici. Prendete due libri storici che trattano il medesimo soggetto: fanno a pugni anche loro. Leggete due corsivi su uno scandalo di banca o due notizie di cronaca nera: non c’è caso di raccapezzarsi neppure lì». Nei servizi polemici del primo volume, come negli altri che seguiranno, l’autore si prefigge di correggere storture e di chiarire confusioni di giudizio. «La Storia è o non è, secondo l’angolo visuale da cui si 61 pagina n.61 360605_LAVORATO.pdf guardano i fatti da essa generati…». Gli scrittori tipici delle epoche di decadenza e di crisi… «non la negano nel suo sviluppo di lotta di classe, di conquista dei mezzi di produzione, di urto tra capitale e lavoro, ma la negano nella dialettica dei suoi contrari, nell’armonia della sua struttura perché, mostrando la realtà umana del lavoratore, dell’uomo della strada e via dicendo, tentano di sopprimere l’altra realtà, quella superiore dell’uomo artefice, del personaggio rappresentativo, del creatore di valori religiosi o estetici. Non svuotano la vita del suo significato, la riducono a un piano grigio e uniforme. E ciò facendo, operano con ingiustizia perché la Realtà - comunque la si possa guardare e giudicare - adombra l’aspetto della Natura ed è perciò variegata, multiforme e complessa. Un’epoca storica è come l’affresco d’un paesaggio che può essere, di momento in momento, bello o brutto, mostruoso o incantevole, secondo l’angolo da cui si guarda e le zone che si guardano: vedere in esso un solo piano o una sola zona significa impoverirlo nei suoi motivi, svuotarlo d’ogni sua ricchezza. Atene del V secolo a.C. non è tutta nel Partenone, siamo d’accordo; ma neanche l’Egitto dei Faraoni è tutto negli schiavi che lavorarono a innalzare le Piramidi. Ogni civiltà è sintesi di valori in contrasto. Raggiungere l’armonia con la fusione di essi è opera del genio». «Da che mondo è mondo», l’autore chiarisce nel 2° volume di Scampoli, «gli scrittori si rimandano voci e pensieri e la novità consiste, caso mai, nell’ignoranza o nella durezza d’orecchio di chi legge… La novità c’è in questi scritti ma è come l’araba fenice: che c’è ciascun 62 pagina n.62 360605_LAVORATO.pdf lo sa, ma dov’è nessun lo dice. E siccome non lo dice nessuno, mi prendo licenza di dirlo io, a costo di sembrare immodesto». Ne La biografia di nessuno riscontriamo l’autentica personalità di Fantino, venuto alla luce in un piccolo centro della Piana, emigrante e uomo di cultura fuori corrente. Come afferma anche un suo illustre concittadino: è stato «uno scrittore che consumò la sua gioventù negli studi, per non essere assimilato ai copisti». Alla domanda se c’è dell’autobiografia nei suoi lavori, lo stesso Fantino risponde: «Non saprei. Ma so che ogni opera d’arte è una forma di autobiografia, com’è dei fendenti di Achille che Omero - essendo cieco - probabilmente invidiava. Dunque, una forma di autobiografia nostalgica, autobiografia alla rovescia». (Da: Appunti per sei drammi). Per il centenario della nascita di Fantino, il 28 giugno 2008 l’Amministrazione Comunale di Melicuccà promosse una solenne manifestazione che coinvolse l’intera cittadinanza. Anch’io fui chiamato a far parte della commissione per l’esame degli scritti inediti che, appena pubblicati, renderanno felici i numerosi fieri ammiratori del professore. Soltanto così verrà, finalmente, resa giustizia! 63 pagina n.63 360605_LAVORATO.pdf Salvatore Giovinazzo Numerosi poeti di Cittanova (Reggio Calabria) hanno, in ogni tempo, levato il loro inno all’amore e alla bellezza; ma nessuno come Salvatore Giovinazzo è stato anche amico di Sorella Morte. La sua dolorosa storia ha suscitato nell’ultimo dopoguerra il mio interesse di studente aperto ai misteri della vita. Come ha scritto Francesco De Cristo: «Nacque un giorno l’amore tra il Poeta trascinante la sua pena infinita sulla croce delle grucce, e la bella fanciulla tredicenne dagli occhioni azzurri spalancanti lo stupore dello zaffiro sotto una meraviglia di riccioli falbi. La natura beffarda ne aveva fatto di lui il prototipo dell’infelicità umana; grande cuore in corpo deforme. Trascinava la sua pena strisciando per terra, quasi dovesse rappresentare il continuo umiliarsi dell’anima umana verso l’infinito che la opprime». 64 pagina n.64 360605_LAVORATO.pdf Dall’opera postuma: Vampi…, considero il delicato quadretto di spensierata giovinezza davanti alla monumentale Chiesa di S. Rocco: Chi vannu a fari? Vorrìa mu sàcciu jeu chi vannu a fari a Santu Roccu, a la secunda Missa, certuni, chi non vògghiu nominari, (oh terramotu pe’ mu li subissa!). Pàrtinu di la casa allicchettati comu quandu ca vannu a lu triatu, cu’ li giubetti e li saji pressati mu su’ viduti di l’annamuratu. Pecchì dà tanti e tanti giuvanotti, parati, allerti, avanti a lu portedu a nzo cu trasi, comu pira cotti càdinu ‘i ncodu - povaru cervedu! – Pe’ chissu poi non nd’hannu senzu letu mancu a li vanchi dassusu, seduti, e si la fannu occhijandu pe’ d’arretu - lu scornu lu perdiru ‘ssi tingiuti fìmmani! - Quandu sagra, speciarmenti, sunnu daveru cosi ‘i meravìgghia videndu rivotati tanti genti chi pàrinu li pècuri a mandrìgghia. 65 pagina n.65 360605_LAVORATO.pdf Quandu nèscinu fora, atru baccanu! Tutti li frischialepri, dà fermati, fannu nzinghi cu’ l’occhi e cu’ la manu mostrandu a l’atri li so’ innamurati. No’ abbastava la Prisa e Marinedu e la funtana di ntra lu cerdinu, ca puru a Santu Roccu - me’ gioiedu! - ndi fannu cchiù ‘i Guerinu lu Mischinu! A la Missa si va cu’ divuzioni, se no è mègghiu mu si dassa stari! Chissi, chi vannu senza ntenzioni di lu Signuri, chi nci vannu a fari? Ancora con l’aiuto del Direttore Didattico De Cristo, studioso di vasta cultura, ripercorro le tappe fondamentali dell’infelice Poeta la cui «Musa non ha accenti di gioia: volle cimentarsi alla fiamma distruggitrice dell’amore e ci rimise le ali; è la solita, l’eterna storia della falena, o, se più vi piace, della farfalla che svolazza intorno al lume: storie e motivi che si ripetono con esasperante monotonia da che mondo è mondo». Vorrìa pe mu mi scordu e ntantu cchiuni ti haju avanti a l’occhi notti e jornu: cercarìa no mi vegnu a ‘ssi puntuni e inveci sempi docu rociu ntornu. Comu a ‘na lapa chi ntornu a lu fiuri 66 pagina n.66 360605_LAVORATO.pdf girija sempi pecchi nc’è lu meli: jeu però ntornu a tia chinu i doluri vegnu mu assàggiu sempi acitu e feli. Ritrovo in Giovinazzo quel desiderio verso la donna amata più volte riscontrato nel canto popolare, come dall’esempio che riporto dal mio paese San Martino di Taurianova: Jeu di ‘sta strata ‘nci volìa passari tricentu voti l’ura se potissi: puru mu ‘nc’esti ‘na lingua di mari sutt’acqua venarrìa comu ‘nu pisci, pemmu ti cuntu li me’ peni amari ca puru se non m’ami ciangiarrissi. La sorte di Salvatore Giovinazzo è ormai segnata e le sue invocazioni non giungono alla donna amata: Mbatula chiamu! Ad ogni ura ‘stu cori chiama a tia pecchì non c’esti cchiù nud’atra cosa chi appaciari mi poti l’arma mia chi non trova ‘nu jazzu mu si posa. Per mancanza di olio, quella del poeta è una lampa astutata: Ed avìa ‘n annu chi adumai ‘na lampa pe’ no’ mu dassu ‘stu cori a lu scuru 67 pagina n.67 360605_LAVORATO.pdf finu a chi Deu lu decretau mu campu supa ‘stu mundu tantu crudu e duru. Quando tutto svanisce, ha affermato nel 1930 Francesco De Cristo: «nell’anima deserta non rimane che il nulla: Fumo è la vita…ed ecco, accorati accenni, che richiamano i più tremendi momenti della passione leopardiana…»: Fumu è la vita Pe’ quali fini la vita si campa quandu non s’ àvi nenti di sperari? Stu cori è comu ‘nu vacanti mari di gralimi, asciucati di ‘na lampa. La vita è bona finu a chi ‘na vampa nc’è di speranza, chi fa stravisari la cruda verità; ma a l’astutari mi restau fumu chi chiuni no’ svampa. Fumu è ‘sta vita?…E chi la campu a fari cu’ l’anima vacanti funda e scura, comu ‘nu vasu di ‘nvecchiata crita? E’ mègghiu milli voti non campari, ca stari a menzu a quattru nudi mura, perdutu ntra lu veru di la vita! Ma al cuore non si comanda, per quanto respinto l’amore torna impetuoso: 68 pagina n.68 360605_LAVORATO.pdf ‘U suli cu’ la luna si cuntrasta; chiù no’ mu m’ami non è cosa giusta: ti tegnu comu rosa ntra la grasta, comu ‘nu figurinu ntra la busta. T’appi stampata sempi ntra lu cori, ti vògghiu beni, no’ lu poi negari: pe’ tia chist’arma spinna, suffri, mori, e tu, crudili, mi voi abbandunari. Ha scritto ancora De Cristo: «Il poeta, accasciato sotto il peso del suo sogno svanito, ancora sotto l’urto della tempesta che lo aveva stroncato, osa rialzare il capo e sperare; osa riaccendere la lampada con l’olio pitoccato alla pietà dei suoi simili!»: Ritornai doppu a undi era posata la vecchia lampa e l’inchìa china china di l’ògghiu finu, ca era svacantata e l’adumai di novu stamatina. Ma ormai, come la fiamma: Tuttu passa! Passaru ‘i tempi bedi di l’astati, passaru li jornati d’allegria, e ntra ‘stu cori la malincunìa mi ritornau. E ttuttu affrittu ccani, sulu sulu, cu’ lu ricordu ‘i chidi cari tempi 69 pagina n.69 360605_LAVORATO.pdf di sogni d’oru, passati pe’ sempi, dicu ntra mia: “Quantu era bellu mu si trattenianu chidi jornati di gioia, d’amuri, di canti, di profumi, di sprenduri, chi si ndi jiru!”. Ma rifrettendu m’’ici ‘n atru senzu: “Tu no’ lu sai ca nudu tempu dura? Tuttu passa pe’ leggi di natura: non c’è chi fari! «E il dramma precipita: Ruit hora! E si risolve nell’unico vero: la Morte» ha ricordato De Cristo. «E morì. In una gelida sera di dicembre. Ed anche il sole era coperto da una tetra uniforme cortina di nubi. Breve era stata la malattia: breve ed inesorabile. I medici, nella freddezza della loro diagnosi, la chiamarono coi nomi strani che servono ad archiviare la serqua di mali che sfociano nel grande mare. No, uomini di scienza: Egli, attraverso l’Amore, giunse alla Morte! Privo dell’Amore, movente unico e supremo della vita, morì». (Da: Il Poeta e la Morte di F. De Cristo, riportato in Cittanova di Curtuladi di A. Zito de Leonardis - 1986). 70 pagina n.70 360605_LAVORATO.pdf Era il 29 dicembre del 1929 quando Salvatore Giovinazzo, a soli 26 anni, ha reso la sua bella anima a Dio! Nella sua commemorazione Enrico Marvasi ha sostenuto: «Lo spirito di lui non poteva costringersi nell’arida volgarità del nostro misero mondo, non poteva sorridere gioioso all’alba rosata del nuovo anno, apportatore ineluttabile di nuovi dolori, di nuove tristezze». Come ultimo desiderio del poeta, la bara passò davanti alla casa della divina monella che diè il colpo supremo al povero cuore. Ma non finiva così la storia del Poeta: «La pallida, spettrale Selene non aveva compiuto due volte il suo corso dacché il poeta riposava in grembo alla Terra madre, che la fanciulla, colpita da male inguaribile, chiudeva alla luce i suoi meravigliosi occhi azzurri». (De Cristo) L’aveva chiamata il Poeta? Forse, un giorno, ne sveleremo il mistero! 71 pagina n.71 360605_LAVORATO.pdf Francesco Jerace «Polistena ha dato i natali a tanti uomini illustri, i quali hanno contribuito con amore e intelligenza al suo sviluppo sociale, artistico e letterario». E’ quanto afferma mia figlia Adriana nella tesi (riguardante le memorie artistiche dell’evoluta città della Piana) che ha presentato nell’anno 1990/91, a conclusione dei suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria. «Visitando le Chiese e la Biblioteca Comunale», lei scrive, «ci siamo trovati di fronte ad opere di notevole valore e, nell’ammirarne la bellezza, è sorto in noi spontaneo il desiderio di conoscere meglio la vita di quei protagonisti che le hanno create». Primo fra tutti annoveriamo Francesco Jerace, che con i suoi monumenti in marmo e in bronzo - statue sacre e lavori vari sparsi per il mondo, ha onorato non soltanto 72 pagina n.72 360605_LAVORATO.pdf il suo paese ma l’intera Regione. L’insigne scultore e pittore nacque nel 1853 da Fortunato e da Maria Rosa Morani, primogenita di Francesco (nato nel 1804 e deceduto nel 1878). Terzo di tre figli, ereditò dal padre la bottega d’arte, punto di riferimento per artisti, intagliatori e scultori di tutta la provincia. Fin da piccolo rivelò le sue eccezionali capacità nel modellare la creta e nel disegno presso il nonno materno don Ciccio Morani. Il genitore, preoccupato per il futuro familiare, avrebbe desiderato che il giovane intraprendesse la carriera ecclesiastica ma Francesco, ancora sedicenne, per sfuggire a tale imposizione si recò a Napoli dove risiedeva il prozio - il noto pittore Vincenzo Morani. Non avendo ricevuto l’accoglienza dal congiunto, Jerace riuscì ad entrare nel locale Istituto di Belle Arti. Venne così a contatto con la cultura dell’epoca, conobbe famosi artisti e frequentò la distinta famiglia calabrese dei De Luca e quella dello storico letterario Francesco De Sanctis. Verso il 1870 nel basso del Parco Grifeo aprì lo studio, si costruì la casa e lì fece ritorno durante la sua vita movimentata, fino alla morte che lo colse il 18 gennaio 1937. Aveva 17 anni quando eseguì il pregevole bassorilievo, un uomo barbuto di profilo, custodito nella Biblioteca Comunale di Polistena. E’ significativo ricordare un episodio che denota il fermo carattere del Maestro non ancora ventenne. La Principessa della Rocca narra che Jerace inviò alla 73 pagina n.73 360605_LAVORATO.pdf promotrice del concorso del pensionato romano Stanzani de’ Virtuosi del Pantheon due tele, firmando la seconda con uno pseudonimo. Essendo stata scartata la prima, l’autore si presentò all’esposizione e con un temperino tagliò intorno alla cornice l’opera rimasta, l’arrotolò e la portò via canterellando, dopo aver così redarguito la commissione: «Non avete voluto il quadro firmato col mio nome ed io non voglio lasciarvi l’altro!» Una commessa ufficiale del 1873, il monumento funerario per la scrittrice Mary Somerville effettuata dalla figlia Marta, oltre alla stima e alla cospicua somma di danaro, segnò per Jerace l’inizio di una fortunata carriera. Sono stati realizzati, infatti, per l’imperatore del Brasile e per alcune nobili famiglie del tempo, i busti che hanno raggiunto Londra, Capo di Buona Speranza e Odessa. Fu presente alla Mostra Universale di Parigi del 1878 con il gruppo marmoreo di Eva e Lucifero e per il Cimitero di Schiavonea in Calabria allestì L’Angelo della tomba Compagna. Nel 1880 con Victa, Marion e I Legionari di Germanico, Jerace partecipò al triplice concorso dell’Esposizione Nazionale di Torino ottenendo - oltre al successo - l’elogio di Camillo Boito, Carducci, De Zerbi e Panzacchi. Non meno interessanti ed espressive si sono rivelate le sculture di donna come Carmosina, Ercolanea, Eroica, Fiorita, Hadria, Myriam, Nosside ed Era di maggio. I ritratti degli uomini illustri come Beethoven, Gaetano Cimarosa, Francesco Crispi, Gabriele Pepe e Umberto 74 pagina n.74 360605_LAVORATO.pdf di Savoia hanno fatto segnare all’arte di Jerace una svolta storica nella concezione del monumento. «La composizione», sostiene Adriana Caruso, «non s’impone nel contesto ambientale, ma diviene completamento e parte integrante del luogo dove sorge. Jerace applica accorgimenti che sconvolgono e superano la rigidità architettonica degli schemi monumentali della seconda metà dell’800. A dimostrazione, basta osservare il monumento a Francesco Fiorentino, nella Villa Trieste di Catanzaro, in cui l’artista ha saputo saldare perfettamente il busto con il basamento per poi inserirli armoniosamente nella vegetazione…». Ed ancora: «Nel marmo per Gaetano Donizetti del 1897, Jerace rivela tutta la sua passione per la musica. L’incarico gli venne conferito dopo un regolare concorso che gli permise di battere i colleghi e far superare nel contempo l’antipatia dei settentrionali verso i meridionali. La musica guidò il Maestro nel completamento del lavoro che fonde plasticamente e perfettamente i concetti, le idee e la musica, regalando a Bergamo una delle più suggestive e sentimentali opere d’arte». «Una costante nella vita di Jerace», rileva infine Adriana Caruso, «è l’amore verso la terra natia, la Calabria, il suo tentativo di renderla grande di fronte al resto d’Italia, l’amarezza per lo stato di abbandono in cui si trovava e in cui veniva tenuta, il profondo affetto e il riconoscimento verso nonno Ciccio (espresso in 75 pagina n.75 360605_LAVORATO.pdf alcune lettere ai parenti) che gli fece apprendere la vera arte. A testimonianza, in una figura del frontone dell’Università di Napoli, il nipote ha ritratto il volto del Morani». «Semplice, fervente come un profeta», precisa pure Alfonso Frangipane, «freme di sdegno quando trova la vita del nostro paese ancora, purtroppo, maculata dal secolare tarlo, e spesso focolaio di rinnegatori e di dubitanti; e ne attraversa le zone misere e abbandonate con dolore e rimpianto: ma benedice sempre ed onora l’antica Madre, di cui egli vede la bellezza e la grandezza dei futuri destini, al di là degli ultimi lembi di tenebra. Così il Maestro polistenese prosegue anche qui la missione rischiaratrice dei suoi avi, di cui non ha obliato gli ideali ed i canoni d’arte, anzi li ha onorati e inghirlandati di alloro». Nella Gipsoteca dell’Amministrazione provinciale di Catanzaro oltre a ventidue gessi, che coprono l’intero arco produttivo dell’artista, si trovano un busto in marmo (Ercolanea) - il cui bronzo è nel Palazzo del Quirinale - e due teste in terracotta (Giovanni Patari e Beethoven). La statua in gesso del San Ciro per la Chiesa del Gesù Nuovo di Napoli, invece, non fu mai scolpita in marmo per il sopravvenuto decesso dell’autore. La Calabria, che Jerace ha fatto apparire sempre nobile e grande, vanta numerose opere dell’artista. A Polistena, oltre al citato bassorilievo, figurano un Monumento ai Caduti (La Bellona) nonché l’Altare del SS. Sacramento e il quadro L’Ultima cena situati presso 76 pagina n.76 360605_LAVORATO.pdf la Chiesa di Santa Marina. A Reggio, a S. Ferdinando (Monumento per il giovane sottotenente Vito Nunziante), a Palmi (presso il Museo M. Guerrisi), a Cittanova (Madonna col Bambino - di un impressionante realismo, all’esterno in alto - sul frontone della Chiesa del SS. Rosario - ma che l’autore avrebbe desiderato vedere collocata in basso sulla gradinata del tempio) e in tante altre località della Regione si possono osservare altre pregevoli sculture che riflettono il culto della classicità, quella intima virtù latina che l’artista ha sempre perseguita ed insegnata agli altri. L’impegno per la Terra d’origine non è poco se pensiamo al consenso internazionale ed al peso determinante sullo stesso corso dell’arte che il polistenese ha riportato in un periodo così denso di fermenti innovatori. 77 pagina n.77 360605_LAVORATO.pdf Diomede Marvasi Diomede Marvasi, nato il 13 agosto 1827 a Casalnuovo (ora Cittanova) dal notaio Tommaso e da Girolama Guzzo - appartenenti a distinte famiglie del luogo, ben presto diede prova delle sue eccezionali capacità. Dopo gli studi classici a Monteleone (oggi Vibo Valentia), si trasferì all'Università di Napoli per la laurea in giurisprudenza. In quella città maturò la sua vocazione politica e frequentò la scuola del Puoti e del De Sanctis (autore della Storia della Letteratura Italiana, capolavoro della critica europea dell'Ottocento). Appena ventenne sperimentò, per le sue idee liberali, i rigori del carcere. Nel gennaio 1848 fu uno dei primi firmatari di un Indirizzo al Borbone per il ripristino della Costituzione del 1820 e, successivamente, nel propugnare coi compagni la spedizione in Lombardia di volontari napoletani venne colpito con una baionettata alla coscia. Arresti e assoluzioni, prove di coraggio e sacrifici si alternarono fin al 3 giugno 1853 allorquando, uscito dal carcere per essere mandato in esilio, riuscì a sbarcare a Malta. 78 pagina n.78 360605_LAVORATO.pdf Nel settembre dello stesso anno a Torino, con De Meis e De Sanctis formò un triumvirato. Il 26 marzo 1856 i due inseparabili amici accompagnarono De Sanctis al Politecnico di Zurigo, dove il Professore aveva accettato la cattedra di letteratura italiana. Nel gennaio 1857, ammesso dalla Corte di Torino all'esercizio del patrocinio legale, Diomede Marvasi si distinse per la sua alta professionalità. Nel marzo 1860 fu chiamato all'insegnamento del Diritto Costituzionale all'Università di Modena e, alcuni mesi più tardi, s'incontrò con De Sanctis e De Meis a Napoli per la collaborazione al Nazionale. Ma la Calabria era sempre nel suo cuore e nel 1861 alle elezioni per l' VIII legislatura nel Collegio di Cittanova, dopo l'annullamento di una precedente prova, venne rieletto a maggioranza di voti. Dovette però presto rinunciare all'incarico per incompatibilità alla carriera nella Magistratura. Nel 1862 sposò la contessa Elisabetta Miceli, vedova Viollard, dal cui matrimonio nacquero sei figli. Nell'aprile di quell'anno venne nominato Sostituto Procuratore Generale e, ai primi del '63, destinato a reggere la Procura Regia presso il Tribunale di Napoli. Il 4 ottobre 1866 il principe Eugenio di Savoia Carignano, Luogotenente Generale del Re, nominò rappresentanti del Pubblico Ministero i Procuratori Generali Trombetta, Nelli e Marvasi per giudicare l'Ammiraglio Persano (responsabile della sconfitta di Lissa). Come si ricorderà, l'8 aprile 1866 la Prussia aveva 79 pagina n.79 360605_LAVORATO.pdf proposto al nostro Governo un accordo che prevedeva il passaggio del Veneto all'Italia in caso di vittoria sull'Austria. Mentre gli alleati giungevano trionfanti fino alle porte di Vienna, il nostro esercito fu sbaragliato a Custoza e la nostra flotta (31 navi di cui 12 corazzate) il 20 luglio subì l'umiliazione di Lissa. Pur essendo numericamente superiore - a causa del disordine - la nostra formazione perse il Il Re d'Italia e la Palestro che affondarono; i marinai morti furono 620 e i feriti 40. I caduti austriaci furono soltanto 38 ed i feriti 138. Colpevole d'imperizia e di inadempimento della missione venne accusato Persano. La requisitoria contro l'Ammiraglio Persano, pronunciata dal Marvasi l'11 aprile 1867 davanti all'Alta Corte di Giustizia di Firenze, è rimasta memorabile. La voce dell'accusa si è tramutata «in voce della coscienza italiana atterrita e sgomenta all'annuncio della disfatta navale di Lissa», si è scritto. Meritava di essere pubblicata: «Dare l'orazione di Diomede Marvasi è prospettare in sintesi impeccabile tutta la storia navale d'Italia, nell'alba dell'unità politica. Ed è offrire alla buona volontà degli studiosi di cose giudiziarie un documento indistruttibile di oratoria forense». (Da: Cittanova di Curtuladi di A. Zito de Leonardis, 1986). Il 10 maggio 1868 Marvasi venne promosso Consigliere presso la Corte di Cassazione di Napoli. Ma ancora una volta lo assillò il mal di Calabria e nel 1870 80 pagina n.80 360605_LAVORATO.pdf si candidò alle elezioni nel Collegio di Cittanova. Purtroppo, al ballottaggio con Plutino del 27 novembre venne sconfitto per soli 6 voti. Napoli, quindi, tornò ad essere la sua patria ideale. Qui nel 1870, assieme ad altri moderati, acquistò il giornale La Patria e in seguito assurse alle più alte cariche: R. Commissario Straordinario al Comune nel 1872, Procuratore Generale presso la Corte di Appello l'anno successivo, Procuratore Generale alla Corte di Cassazione nel marzo 1874 e nel mese di novembre - tra il consenso generale - Senatore del Regno. Ma i capricci del destino sono imprevedibili e la gloria umana non è che un soffio di vento che cambia nome col mutare di direzione: Non è il mondan romore altro ch'un fiato di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato. (Purg. XI, 100-102). Nel 1875 Marvasi, oltre a perdere il diletto figlio Guido, non poté inaugurare l'anno giudiziario per una grave malattia di cuore che il 18 ottobre, a soli 48 anni, lo spegnerà per sempre. Le sue spoglie riposano al Cimitero monumentale della città partenopea, nel recinto degli uomini famosi. Sulla sua tomba, ornata da un mezzo busto del nostro scultore Francesco Jerace, si legge l'accorata epigrafe dettata dall'affezionato amico De Sanctis: Qui accanto al suo piccolo Guido / riposa Diomede 81 pagina n.81 360605_LAVORATO.pdf Marvasi / consunto innanzi tempo / dal foco dell'anima / che lui infiammava e ingrandiva / negli uffici alti della vita / patriota scrittore magistrato. Il 6 dicembre 1875 Marvasi venne commemorato al Senato dal Presidente conte Serra: «Grande ingegno, o signori, e cuore assai più grande aveva sortito dalla natura. Saggio luminoso del primo egli diede in tutti gli uffici pubblici che gli furono confidati, sia di Procuratore del Re e di Consigliere di Cassazione, sia di regio Commissario del Municipio di Napoli e di Procuratore generale presso quella Corte d'Appello; e splendide prove del suo gran cuore diede nell'amor di figlio, di marito e di padre, nella costanza della fede, nell'amicizia, nell'incrollabile amore alla patria». Pure il Comune di Cittanova, il 1° gennaio 1925 ha scoperto delle lapidi in onore del suo cittadino che: Senatore del Regno Procuratore Generale del Re / nella sua brevissima vita / ovunque e sempre / sulle barricate di Napoli / e nel Senato di Firenze / difese il diritto d'Italia. Per valutare la nobiltà d'animo e la fermezza di carattere di Diomede Marvasi, merita di essere riportata la lettera che il 7 nov. 1849 egli scrisse dalla sua segregazione al fratello minore Vincenzo: «…Vedo con grandissimo compiacimento…che hai belli e puri sentimenti. Conservali sempre. Non tutti possono essere grandi uomini, perché non tutti hanno avuto in dono dalla natura un grande ingegno; ma tutti abbiamo il 82 pagina n.82 360605_LAVORATO.pdf debito di sentire e di operare bene. Quando sarai entrato più innanzi cogli anni, vedrai e saprai quanto male il mondo rimerita i sentimenti virtuosi e le opere più belle e più eroiche. Ma io sono certo che tu non ti sbigottirai, e camminerai sempre dritto e fermo per la via che il cuore t'addita. Avrai un mediocre esempio in me. Io ho sempre operato secondo gli insegnamenti ispiratimi da Papà nostro: e tu sai che Papà è un uomo virtuosissimo e che non poteva ispirarmi sensi e pensieri cattivi». L'integrità morale di Marvasi verrà confermata - specialmente nei momenti più critici - dagli amici, come De Meis e De Sanctis. Per quanto concerne la professionalità e la qualità oratoria, il Professore ha affermato: «A Diomede sovrabbondano il pensiero e l'affetto, ma ebbe sempre poca dimestichezza con le ombre e le astrazioni, e in una scuola di alte speculazioni, assentiva talora, non era persuaso. Fidava più nel suo buon senso e nella sua intuizione veramente meravigliosa: Voleva vederci chiaro, diceva talvolta». Se ogni magistrato seguisse le orme di Diomede Marvasi la nostra società, a dir poco, diverrebbe esemplare! Bibliografia: 1 - U. Arcuri (a cura), Diomede Marvasi e la sua requisitoria contro l'Ammiraglio Persano, Ed. Scilla (R.C.), 1966; 2 - D. Caruso, Storia e folklore calabrese, Centro Studi S. Martino - S. Martino (R.C.), 1988; 3 - V. Marvasi, Diomede Marvasi (Patriota Scrittore Magistrato), Rubbettino - Soveria M., 2001; 4 - A. Zito de Leonardis, Cittanova di Curtuladi, MIT - CS, 1986. 83 pagina n.83 360605_LAVORATO.pdf Il Generale Vito Nunziante Nato a Campagna (SA) da un’umile famiglia, Vito Nunziante quarto di undici figli, dopo essere stato avviato al sacerdozio da uno zio prete, ha dovuto interrompere gli studi teologici per intraprendere la carriera militare. Le sue capacità fisiche e morali gli fecero ben presto raggiungere i più alti gradi dell’esercito partenopeo e le più ambite onorificenze. Nel 1806, quando il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone fu costretto a rifugiarsi in Sicilia perché il Regno veniva occupato da Napoleone Bonaparte, gli venne affidato il comando di un reggimento a difesa di Reggio. Sia in detta occasione che nelle successive imprese, il coraggio di Nunziante ebbe la meglio sugli avversari tanto da venire promosso Maresciallo di Campo. Nel 1815 guidò la Quinta Divisione Militare per la Calabria e il 12 aprile dell’anno successivo gli furono conferiti il titolo di Marchese per sé e i suoi discendenti, la promozione a Tenente Generale con il comando delle truppe in Calabria e l’incarico di Commissario Civile per la Calabria e la Basilicata con pieni poteri di alta polizia. 84 pagina n.84 360605_LAVORATO.pdf Morto re Ferdinando i successori, tenuto conto delle sue particolari capacità, da una promozione all’altra hanno comportato a Nunziante «onori e grado di Ministro di Stato». Ma il generale fu anche un abile imprenditore nel settore industriale e agricolo. Diede vita ad alcune società, compì opera di mecenatismo nei confronti di giovani dotati, bonificò il territorio di San Ferdinando da lui fondato, contraendo la malaria che lo condusse a morte all’età di 61 anni. Dopo i solenni funerali tenutisi a Napoli, il suo corpo venne imbalsamato e trasferito a riposare nella chiesetta di S. Ferdinando. 85 pagina n.85 360605_LAVORATO.pdf Il professore Francesco Pentimalli Gli ultimi contadini di S. Martino di Taurianova, che per lunghi anni coltivarono a viti e ulivi la proprietà San Bartolo della famiglia Pentimalli, ricordano ancora con gratitudine il celebre professore che durante il triste periodo del secondo conflitto mondiale con generosità era andato incontro a tutti i loro bisogni. Si legge nell'epigrafe del presidio ospedaliero di Palmi: Francesco Pentimalli - uomo di scienza - maestro di vita - operò in silenzio - arricchendo di preziosi contributi - l'arduo campo dell'oncologia. Nato a Palmi il 28 Novembre 1885 da Luigi e da Giuseppina Contestabile, dopo i primi studi compiuti nella città natale, si trasferì a Napoli dove nel 1911 si laureò brillantemente in medicina e chirurgia. Fu, quindi, assistente ordinario nell'Istituto di Patologia Generale della città partenopea dall'ottobre 1911 al novembre 1912, fino a quando cioè , vinto il concorso per la borsa di studio triennale Vitale, si recò a Freiburg in Germania. Là frequentò l'Istituto di Patologia diretto dal prof. L. Aschoff e quello di Farmacologia del prof. 86 pagina n.86 360605_LAVORATO.pdf W. Straub. Rientrato in Italia nel 1914, nel gennaio dell'anno successivo fu nominato Aiuto nell'Istituto di Patologia Generale di Napoli. La prima guerra mondiale lo vide impegnato dapprima in Sanità e poi, su domanda, in Corpo combattente, dall'ottobre 1915 al febbraio 1919. Per l'attività profusa come medico e come soldato meritò la medaglia d'argento al Valor Militare. Dopo la vittoriosa conclusione bellica, dal marzo 1919 fu libero docente in Patologia Generale a Napoli e, alla morte del prof. Galeotti, coprì la carica d'insegnamento di detta disciplina dall'aprile 1921 all'ottobre 1922. Vinto il concorso per la cattedra di Patologia Generale, fu professore a Cagliari dal 1925 al 1927, a Perugia fino al 1933, a Firenze fino al 1936, a Napoli fino al 1953 ed a Roma fino al 1956. Parecchie furono le cariche scientifiche coperte dal prof. Pentimalli in Italia e all'Estero. Direttore dell'Istituto G. Pascale di Napoli per lo studio e la cura dei tumori dal 1937 al 1947; Direttore Generale dell'Istituto Regina Elena di Roma per la stessa specializzazione dal 1949 al 1958. Nel 1927 lavorò al Kaiser Wilhelm - Institut fur Biologie Berlin-Dahlem (prof. Warburg); nel 1928 presso i Laboratori Hilger di Londra e nel 1936 nell'Istituto di Chimica - Fisica di Upsala (Svezia) - prof. The Swedberg. Fu, ancora, socio dell'Accademia dei Lincei e della R. Accademia d'Italia; membro della Società tedesca e di quella ungherese di Patologia; socio del Comitato viennese per lo studio del cancro; socio 87 pagina n.87 360605_LAVORATO.pdf dell'Associazione francese per lo stesso studio; socio della Società Leeuwenhoek di Amsterdam; socio dell'Unione Internazionale contro il cancro. La particolare attività del prof. Pentimalli si manifestò in seguito alla famosa scoperta contemporanea di Peyton Rous in America e di Fuijnami in Giappone dei tumori a virus filtrabile del pollo: egli - con le sue ricerche - precisò l'istogenesi del sarcoma di Rous, identificandone l'agente in un virus proteina. Di notevole rilievo fu, altresì, la sperimentazione di alcuni fenomeni che intervengono nella malattia leucemica. Negli ultimi anni, Pentimalli s'impegnò soprattutto nella chemioterapia dei tumori. Inoculava da sé le sostanze nei topi e, quando fu colpito da una grave alterazione cardiaca, si faceva portare i piccoli animali accanto al letto per seguire direttamente gli sviluppi. Tra i premi vinti dal professore ricordiamo: il premio Cagnola dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere; il premio della R. Accademia dei Lincei sulla patogenesi del cancro; il premio Balbi Valier del R. Istituto Veneto di Scienze e Lettere; i premi internazionali Riberi e Bocconi. Nel periodo della sua vita politica (fu deputato nella XXIX legislatura) ed in ogni altra occasione, si batté affinché lo Stato fosse garante della salute dei cittadini. La sua attività scientifica è documentata in cento pubblicazioni a stampa, quaranta delle quali apparse in riviste straniere. Dottore honoris causa dell'Università di Freiburg, Pentimalli morì a Roma il 2 Dicembre 1958, due anni dopo il suo collocamento a riposo. 88 pagina n.88 360605_LAVORATO.pdf Il Sottotenente Livio Pentimalli Dulce et decorum est pro patria mori. (E’ dolce e bello morire per la patria). Non ci sorprende se un componente della Famiglia Pentimalli sia potuto giungere al sacrificio di se stesso, dando ragione alla verità di Orazio! Tra gli eroi del secondo conflitto mondiale, la nostra generosa Terra annovera - infatti - il giovane Livio Pentimalli. Nato a Roma il 29 dicembre 1921 dal Generale Natale e da Elisa De Pinedo (sorella del grande trasvolatore atlantico degli anni 30), fin da studente aveva manifestato il desiderio di diventare un buon soldato. Dopo aver concluso con profitto gli studi classici nel 1939, Livio s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza nell’Università della Capitale. Chiamato alle armi, frequentò lodevolmente la Scuola Allievi Ufficiali di complemento a Lucca e nell’estate del 1940 venne assegnato come Sottotenente carrista alla Divisione Ariete, avente come destinazione l’Africa Settentrionale. 89 pagina n.89 360605_LAVORATO.pdf Ma durante l’addestramento nelle campagne di Oria (Brindisi), considerato che altri tre fratelli maggiori si trovavano già in zona di combattimento, le Autorità competenti avevano ritenuto giusto esonerare d’ufficio Livio dall’obbligo militare. Colpito nel suo orgoglio da tale decisione, il giovane si prodigò per essere riammesso in servizio come volontario di guerra. Ottenuto nel febbraio 1941 quest’onore e reintegrato nel suo vecchio reparto, partecipò a tutte le battaglie d’Africa distinguendosi particolarmente negli scontri di Ain el Gazala contro le forze della Francia libera e di Bir el Gobi contro l’VIII Armata britannica. Il 21 giugno 1942 Pentimalli, nel corso della battaglia per la riconquista di Tobruk, alla testa del suo plotone irruppe dal forte Pilastrino nelle difese nemiche comandate dal Gen. Klopper le cui truppe australiane qualche ora più tardi si arrendevano. Il destino avverso - però - non permise al nostro Sottotenente di assistere alla disfatta del nemico, poiché uno degli ultimi proiettili sparati dai difensori della piazzaforte che stava capitolando colpì il suo carro armato incendiandolo e uccidendo lui stesso. Alla sua memoria fu decretata la Medaglia d’Oro al Valore Militare sul campo con la motivazione che segue: «Sottotenente carrista ventenne, due volte volontario, rifiutava il congedo pur avendone diritto per la presenza di tre fratelli alle armi. Entusiasta dei suoi carri, esuberante di fede e di volontà, plasmava il suo plotone forgiandone una agguerrita compagine d’assalto. Di contro al nemico si offriva sempre per le 90 pagina n.90 360605_LAVORATO.pdf azioni di maggior pericolo; impavido sotto i violenti attacchi aerei, superava con ardimento e perizia campi minati allo scopo di compiere la sua missione, attaccava di iniziativa elementi corazzati anche di maggiore potenza, mettendo sempre in luce doti bellissime di coraggio e di capacità. Nella dura battaglia, per la riconquista di una piazza fortificata, partecipava con il suo plotone alle pericolose complesse operazioni per il forzamento delle opere, riuscendo in tre distinti episodi a distruggere con il suo plotone vari mezzi corazzati nemici. Nell’ultimo, benché ripetutamente colpito nel suo carro che veniva immobilizzato, ingaggiava un aspro duello col nemico finché soffocato dalle fiamme del carro stesso incendiato immolava la propria esistenza. Fulgido esempio di eroismo e di attaccamento al dovere». (Got el Ualeb, 26 maggio 1942 - Tobruk, 21 giugno 1942). Per tale gesto di abnegazione, l’Università di Roma ha conferito alla memoria del glorioso combattente la laurea Honoris causa in Giurisprudenza, mentre la città di Palmi lo ha ricordato con l’intestazione della piazzetta di fronte al Mausoleo del musicista Francesco Cilea. Il giovane meriterebbe ben altro, poiché richiama ancora noi tutti a quegli ideali di cui l’odierna società è carente affermando con Leopardi: Alma terra natìa, la vita che mi desti ecco ti rendo! 91 pagina n.91 360605_LAVORATO.pdf Il Generale Natale Pentimalli Palmi, evoluta cittadina della Piana, perla del Tirreno, è la patria di numerosi personaggi illustri che si sono distinti in ogni ramo dello scibile umano. Nel nostro caso, addirittura, alcuni componenti della stessa famiglia, quella dei Pentimalli, ci hanno onorato sia nel campo medico (con il professore Francesco, celebre patologo) sia in quello militare. A Palmi, infatti, il 28 novembre 1882 vide la luce il Generale Natale Pentimalli, figlio di Luigi, stimato medico della Scuola di Cardarelli e di Giuseppina Contestabile di Settingiano. Dopo aver compiuto gli studi liceali a Messina, attratto dalla vita militare, entrò presto come allievo nella Regia Accademia di Artiglieria a Torino, uscendone nel 1901 con i gradi di sottotenente. Frequentato, quindi, il corso biennale della Scuola di Applicazione nel Capoluogo piemontese per la nomina a tenente, iniziò il servizio presso la truppa e, contemporaneamente, gli studi 92 pagina n.92 360605_LAVORATO.pdf storici che proseguì per tutta la vita. Ancora giovane apprese e approfondì la difficile lingua russa, al punto che, dopo un severo esame presso lo S. M., vinse una borsa di studio per il perfezionamento della stessa. Inviato nel 1909 per sei mesi in Russia, venne in possesso di un libro di memorie scritte dal generalissimo Kuropatkin, capo Supremo dell’Esercito zarista nella guerra russo-giapponese del 1905 e comandante delle forze navali, nonché consigliere tecnico dell’Armata rossa al termine della rivoluzione. Analizzando le cause della sconfitta russa, il Pentimalli sostenne che il tragico avvenimento storico può «servire d’insegnamento a tutti, anche se non siano militari, poiché oggigiorno non i soli soldati, ma tutti i cittadini di una Nazione, concorrono all’esito di una guerra; e non sarà male se noialtri italiani avremo imparato una volta, anziché a spese nostre, a spese altrui». Dal 1911 al 1913 frequentò la Scuola di Guerra e, superati brillantemente gli esami, si classificò al primo posto, divenendo uno dei più giovani ufficiali di Stato Maggiore. Con tale grado partecipò al primo conflitto mondiale presso il Comando della 3^ Armata, guadagnandosi per merito e coraggio due medaglie d’argento al Valor Militare. Nel 1917 fu mandato come membro della missione interalleata in Russia, con lo scopo di evitare la pace separata della Russia con la Germania. In tale occasione la padronanza della lingua gli consentì di trattare senza intermediari con i capi bolscevichi, vivendo da presso i gravi eventi della rivoluzione. 93 pagina n.93 360605_LAVORATO.pdf Rientrato in Italia fu inviato in Dalmazia, quale Capo di S. M. delle Forze Armate italiche agli ordini dell’Ammiraglio Millo. Addetto militare a Berna, Pentimalli tradusse il libro dello storico e teorico militare inglese B. H. Liddell Hart: Un uomo più grande di Napoleone, Scipione l’Africano. La profonda conoscenza dei problemi politici e militari gli permise di scrivere nel 1923 l’opera La Nazione organizzata, con la quale, definita la guerra del futuro, prevedeva una radicale trasformazione delle Forze Armate. Il libro, per le sue idee ardite e innovative, urtò contro la mentalità conservatrice del tempo che non volle staccarsi dalle vecchie strutture organizzative sin d’allora superate. La stessa sorte toccò al Generale Douhet per quanto riguardava l’impiego dell’aviazione nel futuro. Dal 1936 fino alla morte, avvenuta a Roma il 30 aprile 1955, Natale Pentimalli studiò la vita del Principe Eugenio di Savoia che, al servizio degli Asburgo, giunse ben presto ai più alti gradi militari e politici, conseguendo le famose vittorie di Petervaradino, Zenta e Belgrado. Di ciò preparò un’opera, composta di vari volumi, che gli eredi del Generale hanno consegnato all’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito per la pubblicazione. Poiché le notizie essenziali del presente servizio sono state da me ricavate in passato mediante la corrispondenza con gli eredi del Generale residenti a Roma e non ho potuto seguire gli eventi, sarebbe 94 pagina n.94 360605_LAVORATO.pdf auspicabile che il Comune di Palmi facesse conoscere al mondo l’eccezionale lavoro del valoroso figlio della nostra Terra. Dal matrimonio del Generale Pentimalli con Elisa De Pinedo sorella di Francesco, il grande e sfortunato trasvolatore atlantico degli anni 30, il 7 novembre 1921 nacque Livio, giovane eroe dell’ultimo conflitto mondiale. Il Generale Riccardo Pentimalli Nato a Palmi il 29 Febbraio 1884, trascorre in famiglia la sua adolescenza. Segue, quindi, le orme dei fratelli maggiori Antonio e Natale, frequentando l’Accademia di Artiglieria e Genio e la Scuola di Applicazione a Torino. Divenuto sottotenente di Artiglieria, dopo alcuni mesi di normale vita di guarnigione, partecipa alla spedizione di conquista della Libia, subalterno in una batteria pesante campale. Contagiato dal colera, viene rimpatriato. L’inizio del primo conflitto mondiale lo 95 pagina n.95 360605_LAVORATO.pdf trova fresco sposo, padre e capitano. Assegnato al Forte di Punta Corbin, a difesa della Val d’Astico, passa successivamente agli ordini della IV Armata seguendone le vicende di pilone di rotazione del fronte, sia a Caporetto sia a Vittorio Veneto. Il 3 Novembre 1918, con salvacondotto del Comando Supremo Italico, a firma Badoglio, in automobile con bandiera italiana al vento, parte da Abano per raggiungere Vienna il giorno dopo, assolvendo così la missione affidatagli. Al Servizio di Stato Maggiore alterna il Comando del V Reggimento di Artiglieria da Campagna e quello della Scuola di Artiglieria di Bra. In Etiopia copre la carica di Capo di Stato Maggiore del II Corpo d’Armata. Giungiamo al 1941 e con la Divisione Marche, in Albania, assume il comando di un Raggruppamento formato dalla sua Divisione, da Gruppi Carri della Brigata Centauro, da reparti di Camicie Nere e, sulla parte Nord, ottiene lo sfondamento del Fronte Jugoslavo. Sono occupate Cattaro, Ragusa e Spalato. Durante i combattimenti, si presenta al suo Comando avanzato, preceduta da bandiera bianca, la Delegazione Jugoslava per offrire la resa delle sue forze armate e la cessazione delle ostilità. Nell’occasione, Riccardo Pentimalli viene decorato di medaglia d’argento al V.M. e promosso Generale di Corpo d’Armata; il 30 Agosto 1943 ottiene il Comando del XXIII Corpo d’Armata. Nelle visite di presentazione ai suoi diretti superiori, il Comandante del Gruppo Armate Sud (Umberto di 96 pagina n.96 360605_LAVORATO.pdf Savoia) e quello di Armata (Gen. Arisio), non riceve alcun avviso circa l’eventualità di un prossimo armistizio. Colto di sorpresa da tale evento, sposta il suo Comando da Case Marciano, presso Napoli, al Capoluogo partenopeo, vicino al preesistente Comando Territoriale, per meglio svolgere il suo ruolo. Il Comando gli si affievolirà in mano, ora per ora, sia per la violentissima e feroce azione disgregatrice delle preponderanti forze germaniche, sia per la stanchezza psicologica dei militari ai suoi ordini, troppo provati da una guerra che li aveva logorati, avviliti e disorientati. Verrà arrestato nella primavera del 1944, mentre a piedi dalla Marina saliva verso Palmi, con l’imputazione della mancata difesa di Napoli. Con sentenza dichiarata inappellabile dall’Alta Corte di Giustizia è, quindi, condannato a vent’anni di reclusione il 24 Dicembre 1944. Avendo, in seguito, la Cassazione giudicato che le Sentenze dell’Alta Corte erano inappellabili soltanto se giuste, viene esaminato il ricorso di revisione presentato contro il processo, il quale si conclude con la richiesta del Pubblico Ministero di immediata scarcerazione del Generale Pentimalli per non aver commesso i fatti addebitatigli (Febbraio 1947). Libero e integrato nel Grado, vive a Venezia gli ultimi anni, nel ricordo dei suoi soldati, nell’oblio per i transfughi del Baionetta, nella speranza del ritorno d’Italia all’antica grandezza. E nella splendida Città lagunare, patria di Daniele Manin e dei Fratelli Bandiera, si spegne il 23 Maggio 1953. 97 pagina n.97 360605_LAVORATO.pdf Leonida Rèpaci Nato a Palmi (Reggio Cal.) il 5 aprile 1898, ultimo di dieci figli e presto orfano del padre, Leonida Rèpaci trascorse un'umile infanzia nella sua città fino al catastrofico sisma del 28 dicembre 1908 che devastò Messina, Reggio e le zone limitrofe. Anche l'abitazione della sua famiglia andò distrutta. Leonida fu allora mandato a Torino, dove il fratello Francesco esercitava l'avvocatura. Nel capoluogo piemontese il giovane poté proseguire per quattro anni gli studi interrotti e iscriversi all'Università in giurisprudenza. Scoppiato il primo conflitto mondiale partì per il fronte, divenendo ufficiale degli alpini. Per il coraggio e l'ardimento dimostrati sul Monte Grappa, Rèpaci si conquistò una medaglia d'argento al valor militare. Passato, quindi, nei reparti d'assalto lanciafiamme, a Malga Pez venne ferito. Nel dicembre 1918 con l'influenza spagnola perdette una giovane sorella e due fratelli, il primo capitano d'aviazione pluridecorato e l'altro grosso esponente politico. Tornato a Palmi con la divisa di capitano, nel 1919 ripartì per Torino dove conseguì la laurea in Legge e 98 pagina n.98 360605_LAVORATO.pdf l'anno seguente l'abilitazione alla professione che esercitò per un biennio. L'amore per la narrativa e la poesia lo portarono ancora ventenne a scrivere, trascurando le discipline giuridiche. S'interessò contemporaneamente di politica e si iscrisse a Torino nel partito socialista, partecipando al Movimento Operaio e collaborando ad Ordine Nuovo con Gramsci. Dopo la marcia su Roma lasciò Torino per Milano. Nel 1924 collaborò fin dal primo numero a L'Unità e per lo stesso giornale tradusse Il tallone di ferro di London. Nell'agosto 1925, durante la festa della Varia a Palmi, venne ucciso un fascista con un'arma da fuoco. Rèpaci, i fratelli ed altri amici furono accusati e imprigionati. Dopo essere stato prosciolto, fece ritorno a Milano. Nel 1927 perdette la madre. La disavventura del carcere gli fece indossare la toga per difendere a Milano un giovane anarchico. Nella città lombarda ideò e realizzò il premio letterario Viareggio (1929). In tale circostanza conobbe e sposò pure Albertina Antonelli alla quale rimase fedele fino alla morte di lei avvenuta nel 1984. Collaborò alla Gazzetta del popolo e a La Stampa. Dopo il secondo conflitto mondiale divenne partigiano a Roma. Qui fondò con Angiolillo e fu per nove mesi condirettore de Il Tempo, prima di passare alla direzione del quotidiano L'Epoca, durato soltanto 14 mesi. Nel 1948, dietro insistenza degli amici, Rèpaci decise di candidarsi senza venire eletto al Collegio Senatoriale di Palmi nella lista del Fronte Democratico Popolare. 99 pagina n.99 360605_LAVORATO.pdf Nel 1950 fu membro del Consiglio mondiale della Pace. Nel 1970 vinse il Premio Sila e da tale periodo si dedicò alla pittura, giungendo a tenere con successo mostre personali a Roma e Milano. Si spense a Pietrasanta (Lucca) il 19 luglio 1985. L'opera di Rèpaci procede di pari passo con l'esperienza diretta della vita. Ad esempio, nel protagonista del romanzo di esordio L'ultimo cireneo (1923) c'è il ferimento sulla cima del Monte Grappa; nel libro In fondo al pozzo si narra dal carcere la triste vicenda del 1925; ne La Pietrosa racconta (1984) si rievoca l'amata Albertina. La Storia dei Rupe - autobiografica, che gli valse il Premio Bagutta nel 1932 e il Premio Villa S. Giovanni nel 1958, comprende un intero ciclo: I fratelli Rupe (1932), Potenza dei fratelli Rupe (1934) e Passione dei fratelli Rupe (1937). A parte gli omnibus mondadoriani con i tre volumi, la Storia dei Rupe prosegue nel 1969 (Principio di secolo e Tra guerra e rivoluzione), nel 1971 (Sotto la dittatura) e nel 1973 (La terra può finire). Come si legge nella 3^ edizione del 1933 che il dott. Bruno Zappone riporta in Uomini da ricordare - Palmesi illustri - (AGE - 2000): I fratelli Rupe è un libro dove egli stesso (Rèpaci) esorta il lettore a non spaventarsi della mole dato che quello che non si vede è assai più grande, e con il quale si prefigge di «puntare l'obiettivo su una famiglia italiana numerosa e fattiva della media borghesia provinciale e condurla, per variar di casi e di personaggi, ad attraversare le esperienze sociali, 100 pagina n.100 360605_LAVORATO.pdf spirituali, psicologiche di questi primi trent'anni del novecento ed esprimere il travaglio del tempo». Sarebbe lungo soffermarsi sulla vasta produzione letteraria di Rèpaci. Basta ricordare: La carne inquieta (1930), da cui è stato tratto l'omonimo film; Un riccone torna alla terra (1954), per il quale romanzo due anni dopo gli fu conferito il prestigioso Premio Crotone; Calabria grande e amara del 1964, una carrellata di eventi tra il 1939 e il 1963; Compagni di strada (ritratti), del 1960. Io che ho conosciuto ed apprezzato personalmente Rèpaci durante la fondazione dell'Unione Culturale Calabrese (Catanzaro - 1963) e il 28 ottobre 1984, quando l'Amministrazione Comunale di Palmi gli ha intitolato ufficialmente la Casa della Cultura, prima di riportare due particolari di quelle occasioni, condivido la definizione espressa da Antonio Altomonte (altro illustre conterraneo scomparso) nel ricordarlo: «Un combattivo, sempre disposto - come amava dichiarare - a schierarsi in prima linea e puntualmente riversava nel suo lavoro di scrittore le sue prese di posizione, il suo impegno civile, i suoi amori e le sue rabbie: con una partecipazione così accesa da far pensare che la sua pagina domandasse di essere giudicata non solo per la testimonianza che rendeva ma anche per la temperatura in cui la rendeva». Nel capoluogo calabrese, da uomo colto e galante aveva voluto trascorrere un po' di tempo soltanto con noi sposini (non si era sbagliato nel chiamarci così, avendo osservato che io e mia moglie - sposi da pochi 101 pagina n.101 360605_LAVORATO.pdf mesi - passeggiavamo indifferenti degli ammiratori che l'assediavano!), mentre nella sua città natale - dopo il ricordo dell'avvenimento di Catanzaro - ha scritto di suo pugno in calce ad una mia poesia dialettale: «Calabrisi sugnu anch'io. Il vecchio Leonida Repaci - 1984». Era proprio vero! La mancanza di Albertina, inseparabile compagna della sua vita, aveva reso triste e vecchio il leone ruggente e a nulla era valso il tentativo del noto giornalista Gianni Granzotto - presente alla cerimonia - di distrarlo. Concludo con un significativo evento che, ancora Altomonte, riporta in Leonida Rèpaci: «La mia storia dei Rupe finisce con un episodio realmente accaduto. Una madre va in Tribunale perché ha una causa di alimenti con il figlio. Si presenta tutta vestita di nero, con una lampada in mano, una “lumera” accesa. Il pretore che è calabrese le chiede: - Cos'è questa lumera accesa? - E lei risponde: - Vinni pe' illuminari la giustizia. - Il pretore rimane sbalordito da questa affermazione e capisce di quali lontananze, di quali sofferenze sono frutto quelle parole. E allora dice al figlio: - Inginocchiati, chiedi perdono a tua madre! - Il figlio ascolta queste parole, si inginocchia. Allora lei, con un gesto quasi sacro, di cadenza eschilea, spegne la lampada e dice al figlio: - Ora ci 'ndi potimu jìri! - (Ora ce ne possiamo andare!)». 102 pagina n.102 360605_LAVORATO.pdf Pasquale Rombolà Ricordare Pasquale Rombolà (23/7/1918 - 4/10/1991), avvocato per professione e poeta per vocazione, rappresenta per me un motivo di legittimo orgoglio. Mi sento onorato, infatti, d’aver messo in luce fin dal 1985 (Storia e folklore calabrese - 1988) i pregi del grande amico e “cultore delle tradizioni patrie che egli, nobilmente, ha indagato e tenuto in vita”. Mi limito, pertanto, a presentare una sintesi dell’affresco Calabria mia - Poemetto in vernacolo - che il Centro Studi Medmei di Rosarno ha pubblicato nel 1982 e che rispecchia l’anima di un poeta che ha vissuto intensamente la travagliata storia della nostra Terra. Come per ogni innamorato, il primo pensiero di Pasquale Rombolà si rivela un inno di tormento e d’amore: Terra mia bella, di sbrendori anticu, Cristu cchiù bella no’ ti potìa criari: lu suli ti calìa comu ‘nu ficu, t’abbasanu e t’abbraccianu ddu’ mari. Ed ancora: Tu, cuntegnusa ‘nta lu to’ doluri, arridi sempri ad ogni foresteri; pingiri non ti poti ‘nu pitturi ca hai culuri di milli maneri. L’incanto che manifesta ad ogni mutar di stagione spinse i popoli vicini a trovare rifugio in essa: 103 pagina n.103 360605_LAVORATO.pdf La to’ bellizza fici gula a tutti, li Greci “Mamma Randi” ti chiamaru. Gli uomini illustri che la resero grande sono davvero numerosi: Milone, Ibicu, autri vincituri quanti doni a la casa ti portaru! Pitagora, Zaleuco, Alcameuni ‘ssa testa sempri d’auru ‘ncurunaru. Le sue città, il suo prestigio, il suo nome furono famosi: Desti lu nomi a tuttu lu Stivali, furnisti leggi puru a la latrona. Ma le incursioni straziarono, in passato, le sue carni: Venianu ‘i notti, a frotta, i Saracini sempri assitati di sangu e rapina; sbarcavanu queti queti a li marini, facianu sempri la carneficina. E dopo gli stranieri i movimenti tellurici; il Flagello fece strage di cose e di persone: Sutta a Rre Nandu primu di Borbona ‘nta l’annu setticentottantatrì, lu cincu di frevaru all’ura nona, 104 pagina n.104 360605_LAVORATO.pdf settantamila figghi t’agghiuttì. Anche la Rivoluzione Francese impresse le sue tristi conseguenze: Stancu, affrittu, miseru e affamatu lu populu non sapìa cchiù comu fari; di lu Vangelu venìa cunortatu: sulu ‘nta l’atra vita avìa a sperari. La ventata di Libertà napoleonica non impedì altre inaudite violenze sulla nostra martoriata Regione. Ma il coraggio dei Calabresi è abbastanza noto: Francisca Saffioti di so’ manu, di la Bagnara coraggiosa fìgghia, lu cori ‘nci mangiò a ‘nu capitanu senza bisognu di vrasci e gravigghia. Nemmeno l’Eroe dei due Mondi mutò le nostre sorti: Poi vinni Garibardi all’urtimata la Patria nostra pimmu faci unita; ‘nci nd’accorgimmu ca fu ‘na jajata: facìa lu stessu sonu la pipìta. Le vicende che ne seguirono furono sempre dolorose per le nostre popolazioni, costrette alfine ad emigrare oltre Oceano: Era spartenza dolorusa e amara, a luttu la famigghia rimanìa; 105 pagina n.105 360605_LAVORATO.pdf ciangìa la vecchia mamma e la cotrara: lu cori cchiù ‘mpetratu cummovìa. Ma la nostalgia della propria Patria ebbe il sopravvento: Partianu sì, cu’ la speranza ‘ncori, nissunu mai di tia poi si scordau: quand’era vecchiu e prontu pemmu mori, pemmu ti vidi ancora riturnau. Altri, nel dopoguerra, trovarono accoglienza e occupazione al Nord: ‘Nta l’Artitalia stannu grandi gnuri chi di dinari ‘ndi ponnu accuppari: cu’ chista ‘ggenti tu mangi e lavuri, ‘sti genti randi ti fannu campari. Anche se le umiliazioni per la nostra gente non cessarono mai, ricordiamoci l’insegnamento della storia: Cu’ jetta orgiu non ricogghi ranu: chista è la fini di li tradituri. Nella mia opera sopra citata ho riportato alcune composizioni, nonché i proverbi più significativi, che l’autentico poeta ha raccolto nella sua San Ferdinando (Reggio Cal.). E’ un prezioso patrimonio che ogni buon calabrese ha il dovere di conoscere e di apprezzare. 106 pagina n.106 360605_LAVORATO.pdf Raffaele Sammarco Fra gli uomini illustri che onorano la nostra Terra emerge la figura di Raffaele Sammarco - poeta, scrittore, giornalista e maestro. Della sua morte, avvenuta a Reggio Calabria l’8 giugno 1931 - dove riposano le spoglie mortali, rimangono memorabili il dolore e le testimonianze d’affetto. L’epigrafe incisa nella lapide del cimitero sintetizza le virtù del personaggio: «In dedizione assoluta agli altissimi umani ideali insegnò che nella vita si opera in umiltà al servizio del bene; luce perenne allo spirito degli eletti doloranti, le virtù qui si sono date convegno sussurrando ai passanti che la fiamma del suo grande cuore e del suo grande intelletto arde robusta ancora e sempre alimentata dal suo spirito immortale per la famiglia, la scuola, la patria». Nato a Varapodio (Reggio Cal.) il 14 ottobre 1866 da Giacomo e Maria Annunziata Carbone, Raffaele Sammarco intraprese gli studi sotto la guida degli zii sacerdoti don Carmelo e don Giuseppe Sammarco. Passò, quindi, nel Seminario di Oppido Mamertina dove rivelò le sue doti di poeta e un comportamento 107 pagina n.107 360605_LAVORATO.pdf esemplare che gli procurarono l’ammirazione e la benevolenza di tutti. Tra questi, mons. Carmelo Puija che sarà arcivescovo di Reggio Calabria. Lasciato il Seminario, nel 1884 conseguì la licenza ginnasiale a Monteleone (oggi Vibo Valentia) e nel 1886 quella liceale a Reggio Calabria. A 20 anni conosceva già cinque lingue: latino, greco, tedesco, inglese e francese. Di tale periodo sono le poesie francesi e inglesi: Delicta juventutis. Nel 1888 prestò il servizio militare a Napoli, Verona e Roma come allievo ufficiale, congedandosi nel 1891 col grado di sottotenente. A Roma tentò di pubblicare un settimanale letterario umoristico La macchietta, che fallì perché il finanziatore sparì dalla circolazione. Trasferitosi a Messina si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, sostenendo nel 1895 ben sedici esami speciali in unica sessione. Indossata la toga, difese egregiamente la prima ed unica causa in Corte di Assise. Nella città siciliana si dedicò pure al giornalismo con il ruolo di redattore capo della Gazzetta di Messina e delle Calabrie (1894); successivamente fondò e diresse un quotidiano che ebbe breve durata a causa del terremoto del 28 dicembre 1908. Alla laurea in legge, si aggiunse due anni dopo nello stesso Ateneo quella di lettere - divenendo professore (1897). Giovanni Pascoli, ivi docente, lo definì il forte e pensoso Sammarco. Ottenne un primo incarico d’insegnamento al Real Convitto messinese Dante Alighieri, prima di divenire direttore del Ginnasio e della Scuola tecnica annessa. 108 pagina n.108 360605_LAVORATO.pdf Conferenziere applaudito nei teatri e nelle piazze, fondò con Mandalari e Visalli l’Associazione Pro Calabria con sede a Roma e rappresentanze nei maggiori centri della nostra Regione. S’impegnò con tenacia alla ricostruzione di Reggio e Messina, distrutte dal sisma, tornando anche alla Gazzetta che rivide la luce al sorgere delle prime baracche. Le autorità di Messina - affinché riordinasse le scuole - gli affidarono l’incarico di Provveditore agli Studi. Vinse, quindi, il concorso per una cattedra di lettere a Trapani (1913) e a Reggio (1914) ove rimarrà fino alla morte. Ricoperse altre importanti cariche in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale e nel 1922 divenne a Roma segretario particolare del Ministro delle Poste e Telegrafi. Ma sia perché non era quella la sua tendenza sia perché infermo, fece ritorno a Reggio dove la sua laboriosa esistenza fu stroncata da un male incurabile. Nella vita di Sammarco vanno considerati due momenti: quello giovanile nel quale si rivela poeta e scrittore e l’altro dell’età matura che lo vede filosofo e maestro. Dei suoi scritti poetici segnaliamo: Poesie e prose varie (in lunedì della Gazzetta sotto lo pseudonimo di Hierros); Delicta Juventutis; Carmina (versi in latino); Poesie (circa 70 sparse su diverse riviste), raccolte dal fratello Gianfrancesco e pubblicate a cura di Nicola Giunta. A giudizio di quest’ultimo, quella di Sammarco è «poesia che nasce da un’educazione classica e in cui è contenuto il fresco dei suoi tempi, che potevano dirsi moderni, come fantasia e sentimento: la poesia di un uomo che si diede 109 pagina n.109 360605_LAVORATO.pdf ordinatamente una cultura e selezionatamente un’educazione, passando dal rigore dei greci e dei latini ai Maestri dell’ottocento...». Nella lirica A se stesso si risente la dolorante pensosità del Leopardi: «O mio cuore infelice, / datti pace oramai. / Il tanto vaneggiar, dimmi, che giova? / O cuore mio, non sai / il proverbio che dice: / bene perduto più non si ritrova? / Nostro tempo felice / passò. Giorni di sol, per sempre addio! / Candidi soli de l’età mia nova, / su voi sceso è l’oblio». Nel Primo amore, il poeta descrive con tenerezza la sua donna: «Agile ell’era, giovinetta e bella, / viso di un cherubino innamorato, / limpidi e neri gli occhi di gazzella / e la bocca parea fior di granato; / onde dolce e soave la favella / e il respiro ne usciva profumato, / quando al nome gentile rispondea / de la più bella giovinetta ebrea». In Idillio esalta la generosità della natura: «O misero colui che le dolcezze / dei campi ignora, e cosa indegna estima / di cittadino abitator la terra / bella d’erbe feconda e opimi còlti!». Di Sammarco letterato ricordiamo: Mulini a vento (un centinaio di servizi apparsi sulla Gazzetta sotto lo pseudonimo Vice-Tristam Shandy); articoli politici, economici, letterari pubblicati nell’Ora di Palermo, nel Giornale d’Italia, in Calabria vera e in altre rassegne. Per comprendere la grandezza di Sammarco basta leggere le affermazioni di Nicola Giunta: «La sovranità della mente, la forza del carattere, l’indipendenza del giudizio avevano fatto di lui, più che un insegnante, per quanto riguardava la tecnica, un 110 pagina n.110 360605_LAVORATO.pdf educatore, un formatore di coscienze, un Maestro, per cui egli era qui qualche cosa come la eretta sovrastante colonna, la più alta e vivida fiamma, il maestro fra i maestri, il primus inter pares». Numerose iniziative furono promosse nel tempo per ricordare il nome di Sammarco. Così, nel primo anniversario della morte, a cura del Comitato reggino dei giornalisti, venne inaugurato presso la Biblioteca Comunale del capoluogo calabrese un mezzo busto del nostro personaggio, opera del prof. Giovanni Calafiore. Per l’occasione, In memoria di Raffaele Sammarco, fu pubblicato anche un libro (1932) che raccoglie - fra l’altro - i giudizi della stampa e delle personalità del mondo politico, letterario e scientifico sul nostro poeta, letterato e maestro; tre alte doti che, permeate da una sentita umanità, da una grande bontà e da una profonda umiltà, lo resero un “grande” nel vero senso della parola. A tal proposito, come lo definì il prof. G. Ferrari dell’Università di Bologna, Sammarco «fu un’alta intelligenza e soprattutto un gran cuore. Il suo cuore fu sempre vicino agli umili, ed egli fu umile nel senso evangelico della parola. Onestà fu la sua umiltà, vivo senso del dovere, desiderio di perfezionarsi e di donarsi». Bibliografia essenziale: 1 - Raffaele Sammarco, Poesie (con prefaz. di N. Giunta) - Edizioni Febea, RC - 1956. 2 - Antonino De Masi, Varapodio ieri e oggi - (Fatti, personaggi e costumi) - Amm. Comunale di Varapodio (RC), 1990. 3 - Dagli appunti gentilmente offertimi (con foto) dal nipote Roberto Sammarco. 111 pagina n.111 360605_LAVORATO.pdf Fortunato Seminara Per comprendere un personaggio occorre studiare, in primo luogo, le sue origini e l'ambiente che lo vide crescere. A presentarci il paese natio di Fortunato Seminara, oggi piccola e attiva oasi della Piana sotto l'aspetto amministrativo e sociale, è stato lo scrittore conterraneo Antonio Piromalli: «Questa nostra è la storia di un feudo di campagna isolato su un dosso di collina, in territorio già magnogreco e bizantino, uno spaccato italiano di storia di dominatori e dominati: gloria di vendite, profitti e usurpazioni appartengono ai Caracciolo, Ruffo, Paravagna e Avati… Ma non esiste una storia soltanto negativa e nel corso delle indagini abbiamo visto che dalla popolazione sfruttata si sono sprigionati, oltre la dura fatica quotidiana dei rurali e contadini, scintille di umanità in laici e religiosi, patrioti e antifascisti, scrittori di opposizione i quali hanno contribuito a modificare l'antico assetto sociale feudale perdurato fino a pochi anni or sono». (Dalla prefazione a Maropati, Ed. Brenner - CS, 1978). 112 pagina n.112 360605_LAVORATO.pdf Non una scintilla, ma una grande fiammata si è sprigionata dallo scrittore Fortunato Seminara - nato a Maropati (Reggio Cal.) il 12 agosto 1903 da Michele e da Pasqualina Nasso, agricoltori benestanti. Dopo aver completato le scuole elementari al suo paese, seguì gli studi superiori in diverse località: nel Seminario di Mileto, a Palmi, a Reggio Calabria, a Napoli per concluderli con successo a Pisa. Nella città toscana sostenne e superò da privatista gli esami di licenza liceale. Per diciotto mesi, quindi, prestò il servizio militare di leva a Siena e a Roma. Si iscrisse e frequentò il primo anno alla facoltà di giurisprudenza dell'università della capitale. Trasferitosi - in seguito - a Napoli conobbe quella che sarebbe stata presto la propria moglie, prima di laurearsi nel 1927. Dal legame matrimoniale, che si rivelò di breve durata, nacquero due figli. Nel 1930, prima di passare in Francia, emigrò in Svizzera dove esercitò l'attività giornalistica aderendo al Partito Socialista e scrivendo contro il fascismo. Due anni dopo, tornato a Maropati, si isolava nella sua campagna di Pescano per evitare rappresaglie politiche e dedicarsi agli studi letterari. Richiamato alle armi nel secondo conflitto mondiale, si congedò nel dicembre 1942. Alla caduta della dittatura tentò di avvicinarsi alla vita politica, ma presto se ne allontanò. E' rimasto significativo l'episodio verificatosi mentre copriva la carica di Sindaco a Galatro. Per aver denunciato di illecito un Maresciallo dei Carabinieri fu prima 113 pagina n.113 360605_LAVORATO.pdf arrestato e poi fatto liberare a furore di popolo. La sua nomina del luglio 1944 a primo cittadino - in sostituzione dell'allora podestà - era stata effettuata dal Comitato di Liberazione provinciale di Reggio Calabria. Sempre nella tenuta di Pescano scrisse i suoi romanzi e quando, nella notte di Natale del 1975 la sua casetta che custodiva un prezioso materiale affettivo e culturale venne incendiata da vili criminali, grande fu il suo rammarico. Pure la salute cagionevole di Seminara subì conseguenze e il 1° maggio 1984 lo scrittore si spense a Grosseto presso il figlio Oliviero. Le sue spoglie riposano nel cimitero dell'amato paese di Calabria. Ne Le Baracche, che rappresenta un rione di Maropati, il primo romanzo - scritto nel 1934 e pubblicato nel 1942 perché avversato dal fascismo, vi è tutta l'amara realtà del Sud. «C'è un tono corale carico di fatalità e di ineluttabilità», come ha sostenuto Antonio Piromalli, «l'atmosfera lirica dei vinti della vita, il sentimento della vita come scacco delle illusioni e della bontà nei confronti della realtà fatta di miseria, ignoranza, invidia, arretratezza spirituale e materiale, istintività irrazionale». Dieci anni più tardi, ne La Masseria - si assiste ad un momento consapevole della lotta dei contadini contro l'ingiustizia. Lo stesso Seminara, come ha ribadito Piromalli, in altre pagine ha spiegato il proprio legame con il mondo dei contadini e «con la loro vita penosa e i loro dolori»: «Ho dato una voce alla secolare e oscura 114 pagina n.114 360605_LAVORATO.pdf sofferenza delle masse contadine che sono la cosa più seria, positiva e reale nella disgregata società meridionale…Un frammento di villaggio calabrese ha una carica atomica. E' una temperatura a cui pochi resistono. Se lacrime e sangue si trovano nelle mie opere, è perché costa lacrime e sangue vivere qui». La trilogia del 1963 - che raccoglie le opere pubblicate in precedenza: Il vento nell'oliveto, Disgrazia in casa Amato e Il diario di Laura - rispecchia tutto l'ambiente veristico calabrese. Nella lotta contro il vecchio mondo baronale del primo romanzo, i contadini stretti attorno alla bandiera rossa non bussano più alla porta del padrone. Diversi sono i soggetti sociali che si presentano in Disgrazia in casa Amato, dove il maestro sfregiato - anziché vendicarsi - denuncia il violento capraio ai carabinieri. Nel terzo romanzo, Laura si narra da sé. Quando la donna non può più unirsi al suo forestiero, si toglie la vita. E' la sconfitta anche della Calabria. Passerà - infatti - ancora del tempo prima che il gentil sesso possa vantare pari dignità dell'uomo. Grazie alla Fondazione F. Seminara, istituita dal Comune di Maropati dopo la scomparsa dello scrittore, la grande eredità artistica e culturale da lui lasciata non andrà perduta. Ha affermato Pantaleone Sergi nel supplemento La Repubblica del 16 dicembre 1997: «Era irascibile Fortunato Seminara negli ultimi anni: Le sue opere non trovavano editori. Il romanzo d'impegno sociale, gli dicevano, non va più. Ne 115 pagina n.115 360605_LAVORATO.pdf soffriva, inveiva, era sempre più ombroso. Ma continuava a scrivere. Morì povero, lasciò carte, inediti e diritti al proprio paese. Ora, a 13 anni dalla morte, torna a parlare ai suoi lettori. Grazie alla Fondazione che porta il suo nome, l'editore Pellegrini di Cosenza pubblica il romanzo inedito L'Arca». Al romanzo hanno fatto seguito le altre opere postume nonché quelle edite introvabili. Interessanti iniziative si sono verificate anche all'Estero, in Francia. Ma non è tutto: siamo certi che la Fondazione promuoverà la pubblicazione di ogni altro materiale utile e continuerà a fare conoscere al mondo l'uomo e lo scrittore che più di ogni altro ha difeso e amato la classe operaia e la nostra Terra. Ha scritto Seminara: «Sentire decantare le bellezze naturali della Calabria fino a qualche anno addietro, oltre che cagionarci un senso di fastidio, ci faceva uno strano effetto: eravamo nella condizione di chi, avendo bisogno di far valere una sua buona qualità, mettiamo l'ingegno, non trova alcuno disposto ad apprezzarla e invece da molti ne vengono apprezzate altre, mettiamo la bellezza fisica e la gentilezza, di cui lui quasi non si accorge e che ad ogni modo non gli servono. Aveva per noi, quasi sapore di beffa e ci amareggiava. Avevamo bisogno di strade, di ospedali, di scuole, di ferrovie, di porti, d'industrie e di tante altre cose indispensabili al progresso delle nostra regione e al benessere del nostro popolo; le reclamavamo da quasi un secolo senza riuscire a farci ascoltare». E concludeva: «Poi è accaduto un fatto nuovo: nelle 116 pagina n.116 360605_LAVORATO.pdf regioni pletoriche d'industrie e fornite di strade, di ferrovie, di porti e di tutto il resto, nelle città popolose e ricche, che noi invidiavamo come privilegiate, si è levato il grido affannoso dell'aria fumosa e carica di sostanze nocive, delle acque inquinate, del cemento che avanzava compatto come una frana, della distruzione della natura… Allora noi che abbiamo aria tersa e pura, acque pulite e molto verde e una natura intatta, ci siamo accorti di possedere dei beni inestimabili e di doverci considerare, proprio noi, privilegiati. Un privilegio amaro, perché tali beni sono inutili, se il loro possesso rimane sterile e infruttuoso. La popolazione della regione non vive di aria limpida, di acqua pura e di verde: le delizie del regno della natura sono favole dell'idillio pastorale, o invenzione di qualche stravagante religione orientale». Sono parole e sentimenti che hanno lasciato il segno e che tutti condividiamo perché rispecchiano ancora una triste realtà! (Da: Calabria pianeta sconosciuto, Effesette - CS, 1991. 117 pagina n.117 360605_LAVORATO.pdf Domenico Antonio Tripodi E' bello e doveroso ripercorrere il faticoso ed entusiasmante cammino che Tripodi ha compiuto per onorare la Calabria nel mondo e assaporare, come in una fiaba a lieto fine, le ineffabili soddisfazioni dello spirito. Nato nel 1930 a S. Eufemia, ridente cittadina alle falde dell'Aspromonte, sesto su otto fratelli di una famiglia dove pittura - scultura e musica sono pane quotidiano, Domenico Antonio ben presto lasciò la bottega del padre Carmelo per trasferirsi in Toscana. Come ha scritto più tardi, i ricordi dell'infanzia l'accompagnano dovunque: «Nello specchio della mia anima s'inquadra la visione dello Stretto di Messina e del Sant'Elia, al tramonto. Là, ove ha fine il curvo volo degli astri, nel silenzio solenne che invade e acquieta ogni cosa, la grande fiamma divampa in un diluvio di porpora che tramuta in oro». Dopo Livorno, Certaldo, Firenze e Siena passò a Torino. Nella primavera del '55 a Milano trovò lavoro nel campo del restauro e studiò pittura alla Scuola 118 pagina n.118 360605_LAVORATO.pdf Superiore d'Arte del Castello Sforzesco e in altri Istituti lombardi. Si dedicò, quindi, all'insegnamento e collaborò con valenti Maestri. Dal '95 si è stabilito a Roma per continuare l'opera prestigiosa che si può ammirare in molte città italiane e all'Estero. La pittura di Tripodi si presenta varia nei temi e complessa nella tecnica. Un aspetto particolare riguarda il problema ecologico per la sensibilizzazione dell'uomo sulla natura nell'ambiente mediterraneo. «…Tripodi sembra che canti inni alla bellezza della natura mostrando i suoi meravigliosi animali come se fosse un incitamento a difenderli dalla estinzione…», sostiene il critico nordamericano Neal Rear. «Tripodi dipinge volentieri nature morte…», afferma Rossana Bossaglia; per lui «l'animale rappresenta se stesso, la propria sofferenza e la propria morte. Egli getta lo sguardo su queste esistenze a noi silenziosamente affiancate, di cui noi sentiamo in qualche modo l'affratellamento e il mistero. La loro rappresentazione è anche metafora della vita umana…». E' una verità inconfutabile: «Non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte. Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscire da questo labirinto, il lume insomma deve venirci di là…». (Pirandello). Mi piace rilevare come opere di Tripodi, raffiguranti animali feriti o sacrificati, parlanti anche dopo la morte, siano divenute oggetto di studio e dibattito ecologico in diverse scuole italiane. 119 pagina n.119 360605_LAVORATO.pdf Da qualche tempo l'artista cerca la luce e la potenza del suo linguaggio espressivo studiando i grandi narratori del passato: Omero, Virgilio, Seneca, Gioacchino da Fiore, Milton. La sua attenzione, però, è rivolta a Dante, il divino poeta che con il suo capolavoro conduce alle supreme altezze e alla scoperta di noi stessi. Nella premessa del suo catalogo, Tripodi stesso ammette: «Cercando più intensamente nella mia anima il senso del nascere e del morire, e del risorgere, al fine di preparare bene e per tempo il mio più importante viaggio, ho guardato con più viva attenzione alle esperienze degli uomini saggi e sapienti d'ogni tempo. Con maggiore intensità ho guardato a Dante, creatura straordinaria, al quale il buon Dio, con un atto di provvidenziale benevolenza, ha voluto fare, cospicuo e fragrante, il dono della parola e della poesia. La parola è già un miracolo; la poesia è il sublimato della parola perché le dona verità e bellezza. Il genio di Dante è così grande che quasi mortifica chi tenta di avvicinarlo». Come sarebbe diverso il futuro del mondo se non si arrecasse tristezza al Creatore e alle Anime beate con azioni malvagie dirette al prossimo: Quanto dolore allor nei grandi e puri Spiriti eletti tra fulgente luce al veder che gli umani, in terra, duri sono nell'alma e, al mal che li seduce, pronti all'abbraccio, ed alla vile intesa! 120 pagina n.120 360605_LAVORATO.pdf (Dal poema medianico dantesco: Dalla Terra al Cielo - XI, 67-71). Scrive la dott. Anna Iozzino: «Per Tripodi cercare Dante significa viaggiare dentro di sé e rappresentare in maniera nuova per concezione ed impostazione non luoghi fisici, ma come ha precisato anche Giovanni Paolo II, stati dello spirito dopo la morte, evocando con grande padronanza dei mezzi tecnici i processi formativi della materia-colore in una gamma cromatica sommessa e sapiente, capaci di rendere visibili metafore ed archetipi in bilico tra la coscienza individuale e l'inconscio collettivo». L'opera pittorica Tripodi cerca Dante ovvero Il colore nella Divina Commedia (circa 130 quadri), esposta in molte città del mondo, continua a riscuotere un successo strepitoso e l'unanime consenso di critici e studiosi. Ne Il Corriere di Roma del 15 aprile 2001 si sottolinea: «C'è un filo diretto che lega Dante e Tripodi. Qualcosa di mistico, talmente elevato da sfiorare l'incomprensibile. Il pittore è modesto, schivo, gentile. Non ha precisa idea di quanto giganteggi la sua arte. Di quanto i tanti illustratori della Divina Commedia debbano cedere il passo all'interprete che trasferisce sulla tela versi sublimi dando loro apparenza, colore, spiegandone il significato». Fra le affermazioni all'Estero di Tripodi, ricordiamo il Premio Mundial Salvador Dalì del 1989 di Figueras, in terra di Spagna; il Premio Internazionale Van Gogh, mostra itinerante, collettiva del 1990 (Amsterdam, 121 pagina n.121 360605_LAVORATO.pdf Nuenen, Otterloo, Auvers sur Oise); il Premio Internazionale Cristobál Colón di Siviglia del 1992. Numerosi risultano i riconoscimenti in Italia. Opere famose di Tripodi sono conservate in collezioni pubbliche e private. L'opera Il filosofo è inclusa nella Storia della filosofia e delle religioni (Enciclopedia Ed. SAIE - Paoline); l' Ulisse che contempla la città di Troia in fiamme si trova esposta nella Sala del Trono di Innocenzo XII - Palazzo Pignatelli (Roma); Scilla la mytique è inserita nella collana di carte postali Les artistes et maîtres du XX siècle (Paris); l'opera Gesù palestinese è esposta nella Archidiocesi di NewYork; La Madonna dei Miracoli - (dipinto su tavola) - è in Vaticano. Ed ancora: Angeli oranti in volo abbellisce la Chiesa del S. Cuore a Briatico; L'uccello blu, Scilla magica, Figura antica e altre immagini pittoriche ornano copertine e volumi d'arte, di poesia e di letteratura. «Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se avesse tutti gli altri beni». (Aristotele). Non posso concludere la mia modesta esposizione senza fare riferimento alla profonda stima che lega Tripodi agli amici. Sono lieto, pertanto, di far parte di tanta fortunata compagnia. 122 pagina n.122 360605_LAVORATO.pdf Carmelo Tripodi In ogni tempo la nostra Terra è stata patria di uomini capaci e volenterosi che hanno saputo cogliere gli aspetti migliori della vita e i sentimenti più eletti per trasmetterli ai posteri con letizia e generosità. I primi ad usufruire del privilegio sono stati - naturalmente - i diretti discendenti che hanno costituito, come nel caso dei Tripodi, una vera dinastia d’arte. Sulle orme paterne i figli Giuseppe, Graziadei e Domenico Antonio si sono distinti, il primo nel campo musicale e gli altri in quello artistico. Pertanto, dopo l’Aspromontano, ho ritenuto opportuno risalire alle origini e trattare la vita e l’opera del capostipite della famiglia, Carmelo Tripodi. Nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte (R.C.) il 28 aprile 1874 da Giuseppe e da Teresa Filardi (da Melicuccà), ebbe come prima guida il valido pittore del luogo Giosué Versace, nella bottega del quale eseguì alcune opere come S. Rocco e gli appestati (Chiesa del Suffragio di S. Eufemia) che - pur nella sua maniera seicentesca - denota libertà di forma e di luce nonché ricchezza di stimoli. Desideroso di apprendere, si iscrisse e frequentò l’Accademia di Belle Arti di Messina dov’era in auge l’indirizzo verista e la poetica di fine Ottocento dei grandi maestri Francesco Paolo Michetti e Domenico Morelli. Tornato al paese natale aprì uno studio di pittura e perfezionò un forte e originale stile proprio che si rileva specialmente nei ritratti e nei paesaggi. Nel 1906 eseguì il suo capolavoro Galileo Galilei (olio 123 pagina n.123 360605_LAVORATO.pdf su tela) e, unitamente al Sant’Antonio abate, lo presentò alla Mostra Campionaria Internazionale di Palermo conseguendo un meritato successo che l’impose nel mondo ufficiale dell’arte. Fu l’inizio della sua ascesa artistica: alla vittoria seguirono, infatti, le più alte onorificenze e quattro prestigiosi premi. Nel 1912 venne eletto membro della giuria d’onore all’Esposizione Internazionale di Parigi, ove per la sua genialità gli venne conferita una medaglia d’oro. Afferma Renato Civello: «Carmelo Tripodi riassunse in chiave moderna, ma nel segno di una edificante continuità e persistenza, i caratteri dell’umanesimo integrale: rinacque in lui, contro la sterilità del naturalismo accademizzante e la pretestuosa neofilia d’improbabili equazioni, il Quidam mortalis deus di Giannozzo Manetti e del Rinascimento in genere». Il terremoto del 1908 distrusse molte opere del Tripodi, compromettendo anche l’altare monumentale della Chiesa di S. Maria delle Grazie del luogo (scomparso negli anni ’70 con l’erezione del nuovo tempio), ma fortunatamente di tale periodo ci rimane una sua eccezionale documentazione fotografica. «Le immagini che hanno fissato nello spazio e nel tempo, per sempre, la immane tragedia... sono memoria dolorosa della nostra storia, da conservare gelosamente in un museo come lascito prezioso alle future generazioni», ha sostenuto il figlio D. Antonio, «spiccando le stesse come pietre miliari». Di un’eccezionale potenza espressiva risultano pure i ritratti che Tripodi ha trasposto sovente in disegno o in pittura, consentendogli fra l’altro di portare avanti la 124 pagina n.124 360605_LAVORATO.pdf numerosa famiglia di ben otto figli. A titolo d’esempio ricordo l’olio su tela del padre, in cui si rileva «il vigore del segno, la perfetta conoscenza dell’anatomia facciale, e il precipuo e gioioso gioco del rosa e gli azzurri». In altri pregevoli dipinti (come si nota dagli autorevoli giudizi) la dolcezza espressa nel volto rende eterea e affascinante l’immagine di Gesù sulle acque; la serenità che emana dal Monaco in meditazione fa dell’opera un canto lirico; nella Testa di Gesù, dipinta come su una roccia, gli occhi, il naso e la bocca, in assonanza, esprimono un sentimento di vigile e affettuosa protezione; gli stenti della vita nel Suonatore sulla neve sono tutti condensati nello sguardo di quel barbone che, avvolto nel pastrano, va a guadagnarsi da vivere. La maggiore produzione del poliedrico artista si conserva nei luoghi sacri e nei palazzi nobili della nostra Regione e della Sicilia. Così, nella Chiesa di Acquaro di Cosoleto troviamo tre tele del 1910 (la quarta raffigurante l’Ultima cena andò distrutta da un incendio): Il battesimo di Gesù, Abramo sacrifica Isacco e Giuditta e Oloferne. A Gioiosa Ionica, nel sacro tempio della Pietà possiamo ammirare i pregevoli dipinti del 1922: Le Pie Donne e Gesù portato al sepolcro. L’opera La Madonna e Giovanni l’Apostolo venne creata nel 1933 dall’instancabile pittore per l’attuale Santuario dell’Addolorata di S. Procopio da collocare, ai lati di un Crocifisso ligneo di circa 2 m., sopra un altare laterale. Su commissione dell’abate Papalia, Tripodi s’impegnò a lungo nel 1937 per una Via Crucis 125 pagina n.125 360605_LAVORATO.pdf (14 pannelli) e poi per una Pala d’altare - raffigurante i miracoli di S. Rita - da sistemare nella Chiesa del Soccorso di Palmi. Parecchie furono le opere eseguite in vari periodi per la sua città, come i progetti per gli stucchi e le decorazioni interne delle chiese del Suffragio (dove c’è anche una Deposizione) e del SS. Rosario (1926/1929); le decorazioni delle Sale del Podestà e della Segreteria del Comune (1927); la Testa del Cristo, modellata su creta e poi tradotta in cartapesta per essere impiantata su una statua del Cuore di Gesù nella Chiesa di Sant’Eufemia vergine e martire (1930); un Cristo alla colonna e un Cristo morto in creta, cartapesta e tela per la medesima Chiesa (1936). Per Carmelo Tripodi, che concluse la sua laboriosa esistenza a Sant’Eufemia il 31 marzo 1950, «l’arte è stata ragione di vita, amore sincero e profondo», ha osservato Alfonso Grassi. Ed ancora: «Il suo naturalismo è nato dall’osservazione diretta del vero... e dallo studio dei giganti della pittura e della scultura... Libero dagli schemi accademici si è sempre rinnovato conservando la sua originalità e personalità...». Se Carmelo Tripodi, come ha scritto il prof. R. Causa, «al suo innegabile talento ha anteposto la sua smisurata modestia», è giunto il momento di fare conoscere al mondo ed in modo particolare ai calabresi questo grande maestro, che nell’incomparabile fascino della nostra Terra e nelle sembianze del Cristo incarnato improntò la sua nobile arte che i figli hanno saputo coltivare e rendere di viva attualità. 126 pagina n.126 360605_LAVORATO.pdf Padre Catanoso, un Santo del nostro tempo La proclamazione a Santo di Padre Gaetano Catanoso, in un momento così drammatico per la nostra Terra, ha segnato una data indelebile nella millenaria storia della Chiesa reggina. Alla guarigione miracolosa di una Suora Veronica, che il 4 maggio 1997 ha confermato l’eroicità delle virtù del servo di Dio, è seguito l’altro evento scientificamente inspiegabile della signora Anna Pangallo, ristabilitasi dopo essere stata in coma per una rara forma di meningite. Così, dopo la beatificazione operata da Giovanni Paolo II Il Grande, il suo successore Ratzinger ha decretato la canonizzazione di Catanoso. Ritengo superfluo soffermarmi a lungo sull’eccezionale figura del nostro conterraneo, assurto all’onore degli altari a motivo della sua umiltà e della totale dedizione di sé al prossimo, anche se per la prima volta ad un semplice prete diocesano è stato riconosciuto un carisma testimoniato e vissuto fin dalle origini. Gaetano Catanoso nacque a Chorio di S. Lorenzo (RC) il 14 febbraio 1879 e, compiuti gli studi seminaristici, venne ordinato sacerdote agli inizi del 127 pagina n.127 360605_LAVORATO.pdf secolo. Nel giorno della sua prima Messa, il 20 settembre 1902, ha reso noto nel ricordino (anche in mio possesso) - distribuito a parenti e amici chiamati a far parte della festa - il programma che avrebbe osservato per tutta la vita: «O buon Gesù..., la gioia ineffabile, che oggi inonda l’animo mio, non venga mai meno, sì che io resti acceso del tuo divino amore, e mi conservi sempre tuo degno ministro, sino alla morte». Per due anni fu nominato Prefetto d’Ordine in seminario, quindi parroco a Pentidattilo, zona molto disagiata, dove rimase per 17 anni sino al maggio 1921. Qui, come ricorda Mons. Aurelio Sorrentino nel dimostrare la fermezza di carattere del Padre, si verificò un caso di manzoniana memoria. Nella casa canonica si presentò un delinquente per intimargli di non celebrare all’indomani un matrimonio. Ma Catanoso sostenne che avrebbe compiuto il suo dovere ad ogni costo e, incredibile ma vero, la sera dello stesso giorno l’uomo che lo aveva minacciato, vinto dal rimorso, tornò a chiedere perdono. Nel centro della zona ionica il sacerdote intraprese un’intensa missione spirituale ed una lodevole opera di promozione umana e sociale. Visitava e stava vicino alle famiglie, senza pretendere nulla per i matrimoni e le esequie; col catechismo insegnava ai bambini a leggere e scrivere; per i giovani che non potevano frequentare la scuola organizzò quella serale. Là maturarono gli ideali ed i progetti che realizzerà con sacrificio. Nel 1918 venne a conoscenza, tramite il canonico Salvatore De Lorenzo, dell’Arciconfraternita del Volto Santo di Tours in Francia che aveva come 128 pagina n.128 360605_LAVORATO.pdf finalità la riparazione e l’anno successivo - autorizzato dall’Arcivescovo di Reggio - anch’egli istituì canonicamente la Pia Unione (o Confraternita) del Volto Santo con sede a Pentidattilo e trasferita nel 1950 a Reggio Calabria. Le suore che vi fecero parte si chiamarono, appunto, Figlie di S. Veronica - Missionarie del Volto Santo. Le prime vestizioni avvennero il 24 novembre 1939. Il Padre le esortava: «Le figlie del popolo devono educare i figli del popolo, perché solo tra i poveri si possono capire le reciproche necessità». Catanoso volle, infatti, che le suore raggiungessero i luoghi più sperduti per dedicarsi agli asili, al catechismo e al servizio pastorale nelle parrocchie. La vita della Congregazione fu tormentata e si dovettero superare molte difficoltà, anche di carattere economico, prima che si assaporassero i buoni frutti. A cominciare dal 1935 sorsero nei paesi poveri e rurali le prime scuole materne; i laboratori di cucito e ricamo, come incontro della gioventù, svolsero nei paesi di montagna una funzione di risveglio religioso e di progresso civile. Anch’io, durante quegli anni, a S. Martino di Taurianova, in una di quelle scuole materne ho ricevuto dalle Suore Veroniche un’educazione d’ispirazione evangelica. Pertanto oggi, con legittimo orgoglio, ho gioito nell’assistere alla santificazione del Padre che tante volte ho visto, ascoltato e toccato con mano. I legami di Catanoso con il nostro laborioso paese erano molto forti, poiché ben quattro sorelle Galante sono state consacrate Suore del Volto Santo: Melania (deceduta il 29/11/2000), Teresina (trapassata da claustrale il 5/9/1973), Maria Benedetta (deceduta il 129 pagina n.129 360605_LAVORATO.pdf 24/6/2007) e Severina. Un’altra congiunta, Suor Maria Giovanna, fa parte delle claustrali del Monastero della Visitazione a Taurianova, mentre Suor Lucia del SS. Sacramento - dopo la consacrazione ed i voti ottenuti il 1° ottobre 1996 - ha raggiunto il Cielo il 3 febbraio 1997. Gli incontri del Padre a San Martino furono frequenti e talvolta il religioso trascorreva da noi l’intera giornata pernottando in loco. Dalla testimonianza della signorina Angelina Varone ho ricostruito la prima visita di Catanoso a S. Martino. Erano le ore otto del 30 novembre 1939 allorquando, con l’autobus di linea, giunse nel paese il Padre accompagnato dalla Superiora Suor Marianna, da Suor Lucia e da Suor Domenica. Ad attenderli vi erano il rev. Arciprete D. Giulio Celano e la nipote sig.na Vittoria Celano, nonché le signorine Maria Molina e Angelina Varone con la sorella Adele ancora bambina. Catanoso si avviò subito in Chiesa a celebrare una Messa solenne per i fedeli che gremivano già il luogo sacro. Al termine, in compagnia del parroco don Giulio, prese possesso della casa preparata per le sue suore che diedero inizio al una proficua azione missionaria. Dopo qualche tempo vennero aperti anche la scuola materna per i bambini del paese e il laboratorio di ricamo per le signorine. A maggiore sostegno fu mandata da Reggio anche Suor Teresa, dalla quale io ho appreso le prime conoscenze religiose. Di tanto in tanto la Madre Generale, Suor Maria Gabriella, giungeva dal capoluogo calabrese a salutarci con il suo affabile sorriso. Il seme gettato cominciava a dare copiosi frutti e sbocciarono pure le prime vocazioni. 130 pagina n.130 360605_LAVORATO.pdf L’11 gennaio 1941 due postulanti del luogo indossarono l’abito religioso e qualche mese dopo, il 21 marzo, direttamente dalle mani del Padre fra la commozione generale le stesse ricevevano il velo davanti all’altare. La suggestiva cerimonia ha lasciato il segno nella nostra memoria collettiva. Nel 1921 Padre Gaetano venne trasferito alla parrocchia della Purificazione (Candelora) di Reggio dove rimase fino al 1940. Ivi proseguì l’intensa attività di evangelizzazione, prima che l’Arcivescovo Mons. Montalbetti lo nominasse Canonico Penitenziere della Cattedrale. Trascorse gli ultimi anni, sofferente nel fisico ma lieto in spirito, nella stanzetta che si può ammirare presso l’Istituto delle sue suore al Rione Spirito Santo, dove si spense il 4 aprile 1963 dopo aver rivolto le ultime parole di ringraziamento al Signore: «In te, Domine, speravi, Gesù, Maria, Giuseppe». Padre Catanoso, una delle personalità più significative della nostra Regione, si fece dunque sempre carico delle sofferenze altrui, consapevole con S. Gregorio di Nissa che: «L’uomo è il volto umano di Dio». Tale è la verità ripetuta alle migliaia di fedeli convenuti nella splendida Piazza S. Pietro da Giovanni Paolo II il giorno della Beatificazione: «Avete avuto, molti di voi, la fortuna di conoscere un Padre che riempiva dei contenuti più alti questo termine. Quanti lo incontravano sentivano in lui il profumo di Cristo». Solo seguendo le orme della sua coraggiosa testimonianza d’amore possiamo realizzare il nostro riscatto morale e civile. 131 pagina n.131 360605_LAVORATO.pdf Padre Stefano De Fiores Nato a San Luca (R.C.) nel 1933 e battezzato l’anno dopo a Polsi, dove la famiglia si trasferisce temporaneamente per motivi di lavoro del padre, appaltatore edile, Stefano De Fiores consolida in quel Santuario un profondo anelito devozionale. Una mattina del 1946 Padre Vittorio Berton, zelante monfortano, mentre è intento a celebrare la Messa, osserva il ragazzo tutto assorto nella viva atmosfera del sacro rito. Nei giorni successivi ha la conferma degli autentici sentimenti di Stefano, per cui gli propone di diventare missionario della Madonna. La risposta immediata del giovane è quella di volersi fare sacerdote. A questo punto la madre, consapevole della vocazione del figlio, è ben lieta della scelta e, all’età di appena 13 anni, Stefano parte alla volta di Redona di Bergamo dove intraprende gli studi ginnasiali. «... Il cammino da Polsi a Loreto», scrive il Vescovo di Locri - Gerace, «è stato segnato da una devozione intensa alla Vergine Maria. E’ questa devozione che ci dà la misura dell’individuazione di questi due luoghi, il primo come punto di partenza e l’altro come approdo significativo della vita, anche se non definitivo. Polsi è 132 pagina n.132 360605_LAVORATO.pdf per P. Stefano la culla della devozione mariana, il luogo dove Mamma Natalina, come fanno tutte le nostre madri, ha insegnato al piccolo Stefano a scoprire l’eccelsa e universale maternità di Maria e lo ha spinto a legarsi ad essa con un vincolo d’amore, che avrebbe poi dovuto sostituire quello della sua maternità terrena... ».1 Superato lodevolmente ogni esame, Stefano svolge a Castiglione Torinese il suo noviziato. Segue il percorso liceale e teologico nonché la densa e lunga esperienza comunitaria, vissuta all’interno della Compagnia di Maria. Il legame con San Luca, da apostolino, è rappresentato dal ritorno ogni anno nel mese di luglio. «Padre Stefano è orgoglioso della sua Terra, che s’identifica con la prodigiosa Immagine di Maria SS. della Montagna».2 A Loreto, nella Basilica, il 21 febbraio 1959 è ordinato sacerdote, ma decide di celebrare la prima Messa il 2 agosto 1960 nel paese natio. Da allora, l’impegno professionale e culturale del religioso è una continua ascesa: professore di storia dell’Arte, Licenza in teologia presso la Pontificia Università Lateranense, laurea in Teologia Spirituale (1973) alla Gregoriana della capitale. Pubblica, quindi: Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, primo di una lunga serie di libri. Chiamato ad 1 Fondazione C. Alvaro, Da Polsi a Loreto con Maria nel cuore - Dalla presentazione di P. Giuseppe Fiorini Morosini - Arti Grafiche Ediz., Ardore M. (RC), 2009. Dal libro ho tratto le note biografiche di S. De Fiores. 2 Domenico Caruso, Storia e folklore calabrese - Centro Studi “S. Martino” - S. Martino (RC), 1988. 133 pagina n.133 360605_LAVORATO.pdf insegnare Mariologia alla romana Pontificia Facoltà Teologica Marianum, diviene famoso nel settore. Al Vaticano, con Giovanni Paolo II, offre il suo valido contributo nell’elaborare documenti. I numerosi riconoscimenti, l’appartenenza alle più prestigiose accademie mariane, le autorevoli testimonianze dimostrano che Padre Stefano è Maestro di profonda spiritualità. Nella sua nota introduttiva, Antonio Strangio sottolinea: «La vita di P. Stefano [...] ben s’intreccia con quella altrettanto straordinaria dello scrittore Corrado Alvaro, i due figli per eccellenza della nostra comunità, guidati da un filo conduttore che ha portato entrambi a sviluppare la loro straordinaria opera nella città di Roma».3 Uno stesso sentimento familiare lega i due conterranei. Osserva De Fiores: «Il rapporto con la madre è una dimensione costante e ispiratrice dell’opera alvariana. La madre è per Alvaro la prospettiva, meglio il punto di vista o la specola da cui egli scruta la realtà del creato e della storia; per lui infatti la donna è il “fondamento del mondo”. [...] Ma è soprattutto un focolare d’amore, che ispira bontà, tenerezza, pace e speranza».4 Anche la Santa Vergine, per la quale a partire dal XIV secolo si sono codificati i Sette dolori, è coinvolta nell’esultanza della risurrezione al pari dei discepoli. «Se percorriamo i Vangeli», osserva Padre Stefano, «giungiamo alla costatazione che, al di là delle varie 3 Da Polsi a Loreto con Maria..., op. citata. 4 Stefano De Fiores, Itinerario culturale di Corrado Alvaro - Rubbettino Ed., Soveria Mannelli (CZ) - 2006. 134 pagina n.134 360605_LAVORATO.pdf enumerazioni dei dolori di Maria, l’esistenza di Maria è segnata dalla sofferenza e dalle difficoltà proprie della condizione umana. Tuttavia, come per Gesù, anche per Maria dobbiamo evitare la generalizzazione che dipinge tutta la loro vita come croce e martirio. Essi hanno conosciuto periodi o momenti di serenità e di gioia intensa».5 La scelta religiosa di Stefano, orfano del genitore a 5 anni, rappresenta un sollievo morale e spirituale per la madre. Gli interessi specie nel campo artistico e letterario, raggiunto l’eccellente traguardo degli studi teologici, risultano molteplici. In breve diviene una delle figure più rappresentative nella sua Congregazione, conseguendo prestigiosi e meritati riconoscimenti. Per quanto riguarda l’eccezionale rettitudine, si apprende dalla testimonianza di Giuseppe Strangio che: «Qualcuno del popolo, analogamente a quanto avveniva per Corrado Alvaro, sostiene che è vero che Padre Stefano è famoso in tutto il mondo e che ha scritto tanti libri, ma, in concreto, per il suo Paese ha realizzato poco o nulla. Gli viene (impropriamente) rimproverato che pur essendo un autorevole studioso, che conta a Roma, non si è adoperato per sistemare giovani laureati di San Luca in posti pubblici, non ha trovato qualche collocazione per giovani disoccupati, non ha portato finanziamenti per il paese».6 Ma il prestigio che il 5 AA.VV., Il mistero della Croce e Maria - Atti del 4° Colloquio internazionale di mariologia, tenutosi a Polsi - S. Luca nel settembre 1999 - Ediz. Monfortane - Roma, 2001. 6 Da Polsi a Loreto..., op. citata. 135 pagina n.135 360605_LAVORATO.pdf Padre ha dato alla Comunità sanluchese vale molto più di un favore temporaneo: ben lo sanno coloro che hanno a cuore il senso della giustizia. Fra la ricca produzione teologica del Padre mi limito a segnalare qualche grande opera: De Fiores - Goffi (edd.), Nuovo dizionario di spiritualità - Ediz. Paoline - Roma, 1999; De Fiores - Meo (edd.), Nuovo dizionario di mariologia - Ediz. Paoline - Cinisello B., 1996; Maria. Nuovissimo dizionario - Ediz. Dehoniane - Bologna, 2008. Ed ancora, fra la produzione culturale, non indicata nelle note: S. Luca. Memorie storiche a 400 anni dalla fondazione (1592) - Ediz. Monfortane - Roma, 1989; Il beato Camillo Costanzo di Bovalino. Con 17 lettere inedite dal Giappone e dalla Cina - Ed. Qualecultura/Jaca Book - Vibo Valentia, 2000. Come Francesco, fedele sposo di donna Povertà e che i suoi seguaci affascina, anche Stefano realizza la sua mistica unione con Madre Chiesa fino a festeggiarne nel 2009 le nozze d’oro. Avrebbe detto il divino poeta: «Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace!» (Pd XI, 82) «... dietro allo sposo, sì la sposa piace» (Pd XI, 84). Ma, “Sic transit gloria mundi”, afferma l’Imitazione di Cristo: il 14 aprile 2012 Padre Stefano è tornato alla Dimora Celeste. Grande è stata la commozione di quanti l’abbiamo conosciuto. In segno di gratitudine ho dedicato all’Amico sincero la composizione che segue: 136 pagina n.136 360605_LAVORATO.pdf Don Stefano, devoto di Maria, l’ancella prediletta del Signore, seguìto avendo voi la sua scia, pace imploriamo per vostro favore. Le vostre care mamme in armonia gelose furon del vostro candore e dalla Terra vi portaron via per abbracciarvi fortemente al cuore. Padre De Fiores, nostro orgoglio e vanto, v’è grata Polsi con la gran Montagna cui per il mondo diffondeste il rito. Fateci scudo col divino manto della Madonna e nostra fede magna compenso avrà ad ogni giusto invito. 137 pagina n.137 360605_LAVORATO.pdf Ricordo di Gerhard Rohlfs Sono trascorsi 23 anni dal giorno in cui a Tubinga, in Germania, concludeva la sua laboriosa esistenza l’illustre studioso che, più di ogni altro, amò la nostra Terra: Gerhard Rohlfs. Era il 12 settembre 1986 ed in tutto il mondo si parlò della scomparsa del grande maestro di grecanico, che dal 1921 non tralasciò d’interessarsi del nostro glorioso passato. Lo conferma la dedica apposta dallo stesso nel Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria - (Longo Editore - Ravenna, 1977), che riporto: A VOI FIERI CALABRESI CHE ACCOGLIESTE OSPITALI ME STRANIERO NELLE RICERCHE E INDAGINI INFATICABILMENTE COOPERANDO ALLA RACCOLTA DI QUESTI MATERIALI DEDICO QUESTO LIBRO CHE CHIUDE NELLE PAGINE IL TESORO DI VITA DEL VOSTRO NOBILE LINGUAGGIO. 138 pagina n.138 360605_LAVORATO.pdf Tutti gli anni, ad eccezione della parentesi bellica, Rohlfs raggiungeva i nostri paesi per approfondire la conoscenza delle nostre tradizioni. Fu così che l’8 aprile 1979, presso la Biblioteca Comunale di Polistena, avvenne il mio primo incontro. D’allora gli amichevoli rapporti epistolari col celebre glottologo, che aveva già incluso il mio nome nel suo Dizionario, non vennero mai meno. Diverse volte lo scrittore m’interpellò nei riguardi dei suoi studi sul dialetto della nostra zona e per ogni opera pubblicata mi fece dono in anteprima delle pregevoli bozze di stampa. Ma ecco qualche cenno biografico. Nato il 14 luglio 1892 a Berlino, giorno della festa nazionale francese, Rohlfs interpretò questa data come una predestinazione fatidica “per una futura carriera romanistica”. Dal genitore, che possedeva uno dei più vasti vivai di Berlino, Gerhard apprese la vocazione per le piante prima che per le lingue straniere, avvenuta verso i 17 anni. Il corso di studi medi a Coburgo fino a detta età non era stato esemplare. L’improvviso e rapido mutamento fu una vera fortuna per i popoli di lingua neolatina: ormai primus omnium, compiva splendidamente la sua formazione universitaria. Dal 1914 ebbero inizio i grandi viaggi di studio e furono cinquanta le giornate che il ricercatore allora consumò nel visitare 170 paesi fra Svizzera e Puglia: «Viaggiando per tre quarti a piedi, con lo zaino sulle spalle, frequentando le strade battute dall’umile gente, soffermandosi e familiarizzando nelle osterie e nelle trattorie di piccoli paesi interni, dormendo in 139 pagina n.139 360605_LAVORATO.pdf piccoli alberghi, sempre interessato alle parlate locali di tutta l’Italia visitata». Nascevano le sue prime scoperte e si formavano i suoi primi convincimenti. Come lo stesso Gerhard ebbe ad annotare: «Conversando con i contadini, fui sorpreso dall’incredibile varietà dei dialetti italiani». Nei suoi viaggi in Calabria, avvenuti a distanza di tempo, Rohlfs individuò come motivo essenziale «la necessità che la Regione venisse redenta attraverso la riconquistata dignità di popolo a seguito della riscoperta dei valori culturali regionali da parte dei suoi abitanti. E lui, Gerhard Rohlfs, era felice di sentirsi il corifeo di una tale rinascita». Sono in molti, specialmente fra gli anziani, a ricordare i giorni in cui il professore tedesco a dorso di mulo raggiungeva i centri sperduti calabresi - come Roghudi e Bova - per non fare disperdere le antiche usanze e la parlata di quella gente. Rohlfs difese sempre il prestigio della nostra Regione. Nel 1921, ad esempio, dopo essere giunto nei pressi di Cosenza, avendo potuto constatare il contrasto tra la pessima fama e la reale situazione del vivere civile dei calabresi, così scrisse in un articolo apparso in Germania: «Calabria! Quali foschi e raccapriccianti ricordi non si destano in Germania al pronunziare del nome di questo estremo ed inaccessibile nido del brigantaggio! Quale ripugnanza ed orrore non persistono tuttavia, anche a Milano e a Roma, per questa terra famosa, dolorante e malnata; così miseramente ed ingiustamente dallo Stato negletta… In questa Terra infiltrata della cultura di parecchi secoli, e 140 pagina n.140 360605_LAVORATO.pdf in cui tante nazioni si avvicendarono l’una dopo l’altra, ogni fiume, ogni pietra, ogni paesello annidato su di una rupe rappresenta qualche cosa piena di memorie storiche; e da tutta la superficie sua spira come un soffio di antico e venerabile tempo». La generosità di Rohlfs non ha mai avuto limiti; prima di morire - infatti - aveva così pregato il dott. Salvatore Gemelli di Anoia Sup.: «Mi saluti l’Italia. Mi saluti gli amici della Calabria. Addio!». E l’affezionato dottore, scomparso a Locri qualche anno dopo il professore, ha voluto ricordare l’amico con un’opera organica e carica di umanità. Bibliografia: Salvatore Gemelli, Gerhard Rohlfs - Una vita per l’Italia dei dialetti - Gangemi Ed., 1990. 141 pagina n.141 360605_LAVORATO.pdf Giovanni Paolo II e la Calabria Sarebbe superfluo aggiungere altro al fiume di commenti e all’emozione universale che la scomparsa di Giovanni Paolo II ha suscitato. Tuttavia, sento la necessità di rendere una personale testimonianza ed esprimere un modesto pensiero di riconoscenza a Il Grande che con la sua presenza nel 1984 ha onorato anche la Calabria. Ancor prima di visitare la Regione, egli aveva manifestato il suo legame con Paola, patria del Santo Fraticello che a somiglianza del Redentore amò il prossimo più di se stesso. Nella pubblicazione Storia e folklore calabrese del luglio 1988 avevo dedicato cinque pagine all’autentico Apostolo delle Genti che, dopo la sua venuta a Reggio, ci aveva convocati a Roma. Successivamente, il 12 giugno 1988 - concludendo il XXI Congresso Eucaristico Nazionale nel nostro capoluogo di provincia, si era interessato ancora una volta dei gravi ed annosi problemi meridionali. Nel discorso del 1° giugno 1985 il Pontefice aveva affermato: «Voglio sperare, che voi non mancherete di rileggere la storia religiosa della vostra Regione, che ha accolto il messaggio cristiano fin dal primo secolo, alla 142 pagina n.142 360605_LAVORATO.pdf luce splendente dei Santi calabresi che hanno forgiato generazioni di cristiani secondo lo spirito del Vangelo e della Croce di Gesù Cristo. Come non rievocare alcune figure emblematiche che ebbi occasione di venerare nel corso della mia visita: S. Nilo e S. Bartolomeo, illustri rappresentanti del Monachesimo Cenobitico; S. Bruno, che diede impulso in Calabria al Monachesimo Certosino, fondando quella splendida Certosa, che ancora porto davanti al mio sguardo; S. Francesco di Paola, il Santo dell’umiltà e della carità, sempre vicino al cuore della gente! Gli alti esempi di questi Santi luminosi e sempre attuali devono costituire uno stimolo costante per quella animazione cristiana e sociale della Calabria, oggi non meno dei tempi passati, bisognosa di uomini e donne che sappiano testimoniare con coraggio l’impegno per una rinascita spirituale». Ed ancora, così ribadiva il concetto: «Ma, i Santi calabresi, soprattutto San Francesco di Paola, non hanno disatteso l’impegno sociale, anzi non hanno lasciato occasione per porsi a servizio e a sollievo dei poveri, dei deboli, dei malati. Oggi il problema sociale, che tocca la Calabria, va sotto il nome più vasto di questione meridionale. Si tratta dei problemi riguardanti le differenti condizioni di vita delle popolazioni meridionali e quelle più specificamente calabresi, gli aspetti relativi alla vita morale e religiosa, ed alla coerenza nei comportamenti privati e pubblici, le preoccupazioni sociali relative alla disoccupazione, specialmente quella giovanile e intellettuale, ed il problema di fondo di un più vasto ed omogeneo 143 pagina n.143 360605_LAVORATO.pdf sviluppo economico, che riguarda non solo la Calabria ma tutte le Regioni del Mezzogiorno d’Italia». Seguiva l’analisi degli impegni, che ogni buon cattolico avrebbe dovuto assolvere per la nostra rinascita, e che si sarebbero concretizzati nel pieno rispetto dell’uomo: un chiaro esempio egli l’ha dimostrato con la sua condotta personale. A prescindere da ogni singolare coincidenza e certi che sia stato un premio divino, dobbiamo constatare che Carlo Wojtyla è tornato alla Casa del Padre proprio il 2 aprile, ricorrenza di S. Francesco di Paola! Ad attenderlo in Cielo vi era dunque, fra i tanti Beati, il nostro taumaturgo che durante la sua lunga vita fu al servizio dei poveri e dei lavoratori a quei tempi vittime delle angherie dei baroni locali. (Mi si conceda di aggiungere una nota personale: la devozione per il Santo ha portato anche me a coronare il sogno d’amore, nel 1963, presso il suggestivo Santuario di Paola). Le occasioni d’incontro e le corrispondenze col Grande Papa sono state diverse, ma mi soffermo a due momenti significativi. L’amore filiale verso la Madonna di Giovanni Paolo II (Totus Tuus ego sum) era così profondo da consacrarLe l’anno 1987, al fine di ricondurre al Suo Cuore Immacolato di Madre il mondo inquieto. Anch’io, sensibilizzato dall’eccezionale evento e perché mi sono sempre sentito vicino alla Santa Vergine, (la mia data di nascita, avvenuta a S. Martino - R.C. - in un anno di giubileo straordinario, coincide con il giorno memorabile dell’Incarnazione del Signore), inviai al Sommo Pontefice copia del mio lavoro Maria 144 pagina n.144 360605_LAVORATO.pdf nel Vangelo e nella pietà popolare calabrese. La risposta non si fece attendere. Il 14 marzo 1987, l’Assessore Mons. G. B. Re della Segreteria di Stato del Vaticano mi comunicava: «E’ pervenuta al Santo Padre la cortese lettera che Ella, con delicato pensiero, Gli ha indirizzato in data 2.03.1987, a cui era unita in dono una sua apprezzata pubblicazione. Sua Santità mi incarica di manifestarLe sinceramente riconoscenza per il gentile omaggio e per i sentimenti di filiale venerazione che l’hanno suggerito, mentre di cuore Le imparte la Benedizione Apostolica, propiziatrice della divina assistenza su di Lei e sui familiari». Nell’estremo messaggio ai fedeli del marzo 2005, in cui si ricorda che è l’amore che dona la pace, il Papa ha sottolineato: «La solennità liturgica dell’Annunciazione ci spinge a contemplare con gli occhi di Maria l’immenso mistero di questo amore misericordioso che scaturisce dal Cuore di Cristo. Aiutati da Lei possiamo comprendere il senso vero della gioia pasquale, che si fonda su questa certezza: Colui che la Vergine ha portato nel suo grembo, che ha patito ed è morto per noi, è veramente risorto. Alleluia!». E sulla sua semplice bara di cipresso l’8 aprile 2005 è stata impressa la sigla mariana. La presenza del Papa - nel 1990 - fra le miserie e le ingiustizie partenopee, nonché la sua coraggiosa denuncia della carenza di strutture e di servizi pubblici, aveva stimolato i miei alunni a svolgere spontaneamente un proficuo lavoro di gruppo. Al termine scrissero al Vicario di Cristo: «Santo Padre, 145 pagina n.145 360605_LAVORATO.pdf siamo gli alunni di 5^ A della scuola elementare di S. Martino, in provincia di Reggio Calabria, e desideriamo esprimere la nostra riconoscenza per la Vostra nuova visita nel Meridione. I problemi di Napoli sono gli stessi nostri problemi, frutto di un secolare abbandono, di contrasti, ipocrisia ed incomprensione. La loro soluzione si presenta molto difficile poiché è compito essenziale dello Stato modificare il sistema di operare nel rispetto dei diritti di ogni cittadino. Diversamente pure chi compie il proprio dovere finirà con l’essere umiliato e sfruttato. Noi crediamo nella grande autorità della Vostra parola che potrà scuotere gli animi tiepidi e l’indifferenza generale, invitando tutti a collaborare alla rinascita della nostra tormentata società. Le marce per la pace e le strette di mano senza un perdono sincero ed un’autentica testimonianza di fede, si riducono a pure formalità. I nostri giovani migliori sono costretti ad abbandonare la Terra d’origine, anche dopo una vita dedicata agli studi, per le ingiustizie sociali e le raccomandazioni che favoriscono chi s’impone con la violenza e chi è legato ai carri politici. Soltanto il pieno rispetto dell’uomo e un’effettiva e onesta occupazione potranno riscattarci dai soprusi e dalla barbarie. Noi non vogliamo alcuna forma di assistenzialismo, ma chiediamo la valorizzazione della tenace laboriosità della nostra gente. Gradiremmo che fedeli e religiosi diffondessero meglio 146 pagina n.146 360605_LAVORATO.pdf l’esempio sublime dei Santi calabresi, come S. Francesco di Paola e i Servi di Dio don Francesco Mottola e Padre Gaetano Catanoso, nonché di quanti hanno sacrificato la loro esistenza per l’amore del prossimo. Certi che il buon seme da Voi generosamente sparso troverà un terreno pronto ad accoglierlo e che produrrà quindi copiosi frutti, chiediamo l’Apostolica Benedizione». La lettera è stata anche pubblicata dal mensile del Consiglio Regionale: Calabria (Anno XVIII - N.S. - Dicembre 1990). Il 29 novembre 1990 l’Assessore Mons. C. Sepe della Segreteria di Stato del Vaticano rispondeva: «Cari alunni, il Santo Padre ha accolto con sincero gradimento la lettera che Gli avete indirizzato il 16 novembre corrente, per esprimergli sentimenti di devoto affetto. Nel manifestarvi la Sua riconoscenza per tale attestato di ossequio, Egli augura a ciascuno di voi prosperità e gioia nel quotidiano esercizio dell’amore verso Dio e verso il prossimo, e di cuore vi imparte la Benedizione Apostolica, che volentieri estende ai vostri familiari, all’insegnante ed a tutte le persone che vi sono care. Anch’io vi invio il mio saluto, auspicando ogni bene nel Signore». Appare evidente come i problemi del passato siano ancora di viva attualità! Se - dunque - anche noi calabresi ci siamo mobilitati per rendere omaggio alla salma del Papa, ciò ha rappresentato un atto di doveroso omaggio da tutti ammirato e condiviso 147 pagina n.147 360605_LAVORATO.pdf Cenni biografici di Domenico Caruso Nato nel 1933 a S. Martino di Taurianova (Reggio Calabria), dove risiede, per oltre quaranta anni ha insegnato, dedicandosi al tempo stesso alla letteratura e allo studio della sua Terra. Ricoprì anche incarichi di prestigio nella società. E’ autore di testi per canzoni, del sito www.brutium.info (Storia e folklore calabrese), di libri e servizi vari, ottenendo diversi premi nonché il consenso di critica e di pubblico. Collabora a riviste culturali della Regione, a siti Internet, a Wikipedia. Per “Il mio libro” ha scritto: 1) “Il dolore, la morte e la speranza” (Il trittico dell’uomo) che alla 2^ edizione riporta “Il processo di Gesù” e “I Grandi Temi della vita”; 2) “Usi, tradizioni e costumi di Calabria”; “Calabria da scoprire” - (Città della Piana di Gioia Tauro). 148 pagina n.148 360605_LAVORATO.pdf Doverose precisazioni Non è stato semplice effettuare, fra la gran mole di servizi sparsi in centinaia di giornali e riviste, una prima scelta di personaggi. Così pure, non è stato possibile rivedere le notizie che a volte, avendo superato il mezzo secolo dalla pubblicazione, avrebbero bisogno di aggiornamenti. Con il trascorrere del tempo anche la lingua subisce cambiamenti. Nel libro ho incluso il celebre filologo Rohlfs e Giovanni Paolo II perché hanno contribuito, in modo eccezionale, al progresso della nostra Regione. In una seconda edizione darò spazio ai tanti altri personaggi meritevoli di imperitura memoria. Le illustrazioni, ricavate dagli originali in mio possesso o da altre fonti (come Internet o riviste, in tal caso di ridotte dimensioni) hanno soltanto uno scopo estetico e didattico. Chi ritiene di avere il diritto di proprietà può comunicarmelo (troverà l’indirizzo nel mio sito www.brutium.info) e provvederò a renderlo presente su Facebook e nel mio blog. Sono sempre disponibile ad ogni proficua collaborazione per il decollo socio-culturale della Calabria. 149 pagina n.149 360605_LAVORATO.pdf Indice Francesco Sofia Alessio pag. 3 Corrado Alvaro “ 8 Ugo Arcuri “ 14 Antonino Basile “ 20 Lorenzo Calogero “ 25 Alberto Cavaliere “ 30 Don Giulio Celano “ 37 Giovanni Conia “ 41 Pasquale Creazzo “ 47 Vincenzo De Cristo “ 53 Giuseppe Fantino “ 58 Salvatore Giovinazzo “ 64 Francesco Jerace “ 72 Diomede Marvasi “ 78 Il Generale Vito Nunziante “ 84 Il prof. Francesco Pentimalli “ 86 Il Sott. Livio Pentimalli “ 89 Il Generale Natale Pentimalli “ 92 Il Generale Riccardo Pentimalli “ 95 Leonida Rèpaci “ 98 Pasquale Rombolà “ 103 Raffaele Sammarco “ 107 Fortunato Seminara “ 112 Domenico Antonio Tripodi “ 118 Carmelo Tripodi “ 123 Catanoso, Santo del ns. tempo “ 127 Padre Stefano De Fiores “ 132 Ricordo di Gerhard Rohlfs “ 138 Giovanni Paolo II e la Calabria “ 142 150 pagina n.150 360605_LAVORATO.pdf Cenni biografici di D. Caruso pag.148 Doverose precisazioni “ 149 Indice “ 150 Fonti iconografiche “ 151 Fonti iconografiche Sono state riprodotte dagli originali in possesso dell’autore le foto di: Francesco Jerace, prof. Francesco Pentimalli, Sott. Livio Pentimalli, Gen. Natale Pentimalli, Gen. Riccardo Pentimalli, Raffaele Sammarco, Domenico Antonio Tripodi, Padre Stefano De Fiores. Il Bassorilievo di Salvatore Giovinazzo è dello scultore Giuseppe Loprevite. Per le altre fonti leggere le “doverose precisazioni”. 151 pagina n.151 360605_LAVORATO.pdf
Report "Domenico Caruso Uomini illustri di Calabria"