UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZEFACOLTÀ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA AZIENDALE LAUREA IN ECONOMIA E GESTIONE DELLE IMPRESE II Relatore Prof. Vincenzo Zampi Candidato Lorenzo Paccosi A.A. 2011/2012 2 INDICE INTRODUZIONE CAPITOLO I Teoria e pratica della Corporate social responsibility I.1 La Corporate social responsibility nella teoria I.1.1 Premessa I.1.2 L'evoluzione del concetto di “responsabilità sociale” di un’impresa nella storia del pensiero economico I.1.2.1 L'era pre-globale I.1.2.2 L'era della globalizzazione I.1.3 Il contesto normativo I.1.4 La definizione I.1.5 Lo Stakeholder based approach I.1.6 Differenze interpretative sulla Csr: da modello di business a cuore dell'identità di un'azienda I.2 Strumenti per la messa in atto della Csr I.2.1 Il codice etico I.2.2 Welfare aziendale I.2.2.1 Panoramica I.2.2.2 Uno sguardo ravvicinato I.2.3 Le certificazioni e gli standard I.2.3.1 Panoramica I.2.3.2 ISO, OHSAS e SA I.2.3.3 Certificazioni tra confrontabilità e omologazione I.2.4 Il Corporate giving I.2.4.1 Panoramica I.2.4.2 Cause related marketing e simili I.2.4.3 Filantropia aziendale I.2.5 Sostenibilità ambientale I.2.5.1 L'avvento di un problema I.2.5.2 Le soluzioni adottate I.2.6 Il bilancio sociale I.2.6.1 La Triple bottom line I.2.6.2 Il rapporto tra Csr e rendicontazione sociale I.2.6.3 Finalità del bilancio sociale I.2.6.4 I modelli di riferimento CAPITOLO II Responsabilità della Olivetti Spa dell'ingegner Adriano II.1 Introduzione II.1.1 Storia della Olivetti Spa e biografia di Adriano Olivetti in breve II.1.1.1 Gli inizi 9 14 15 15 16 16 18 20 21 22 24 26 26 29 29 30 33 33 35 37 39 39 40 43 44 44 47 50 50 52 53 54 60 61 61 61 3 II.1.1.2 L'ascesa di Adriano Olivetti II.1.1.3 La fine di un'era II.1.2 La persona e le idee di Adriano Olivetti II.1.2.1 L'uomo II.1.2.2 La finalità del mezzo economico secondo Adriano II.2 Principi e pratiche dell’etica Olivetti II.2.1 Essere un olivettiano II.2.2 I principi guida II.2.2.1 Introduzione II.2.2.2 Lavoratori in quanto uomini II.2.2.3 L'estetica II.2.2.4 Il valore delle comunità locali II.3 Le opere II.3.1 Una panoramica sui servizi II.3.1.1 Introduzione II.3.1.2 I destinatari II.3.1.3 La qualità II.3.1.4 Il Consiglio di Gestione II.3.1.5 Le scienze sociali II.3.1.6 Uffici e figure professionali al servizio della responsabilità aziendale II.3.2 Le iniziative concrete II.3.2.1 Sanità II.3.2.2 Maternità II.3.2.3 Infanzia II.3.2.4 Formazione professionale II.3.2.5 Mensa II.3.2.6 Trasporti II.3.2.7 Architettura e politica edilizia II.3.2.8 Le iniziative artistico-culturali CAPITOLO III Confronto e conclusioni III.1 Comparazione III.1.1 Il codice etico III.1.2 Welfare aziendale III.1.3 Le certificazioni e gli standard III.1.4 Il Corporate giving III.1.5 Sostenibilità ambientale III.1.6 Il bilancio sociale III.1.7 Osservazioni finali III.1.8 Conclusione Bibliografia e sitografia 62 65 69 69 73 80 80 85 85 87 95 101 110 110 110 111 112 113 115 117 121 121 122 123 128 134 135 136 142 150 151 151 155 157 161 163 165 169 172 175 4 5 Secondo me si potrebbe, essere tanti, ma tanti, diciamo che ci sono stati degli sbagli, la prima volta, si sa, che non ne ha colpa nessuno, è andata così, e ricominciare tutto da capo. Raffaello Baldini, IL MONDO, Ad Nòta 6 7 ADRIANO OLIVETTI: UN PRECURSORE DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY? 8 9 INTRODUZIONE «Il mondo degli affari è diventato l'istituzione più potente del pianeta. L'istituzione dominante in qualsiasi società necessita di prendersi la responsabilità per il tutto [for the whole]. Ma il mondo degli affari non ha una tradizione del genere. Questo è un nuovo ruolo, non ben compreso o accettato. Costruita fin da principio sul concetto di capitalismo e libera iniziativa, era la convinzione che le azioni di molte unità di imprese individuali, rispondendo alle forze del mercato e guidate dalla "mano invisibile" di Adam Smith, avrebbero in qualche modo condotto a esiti desiderabili. Ma nell'ultima decade del ventesimo secolo, è diventato chiaro che la "mano invisibile" è tremante. Ciò è dipeso da un consenso verso significati e valori fuorvianti, non più presente. Dunque il mondo degli affari deve adottare una tradizio ne che non ha mai avuto nell'intera storia del capitalismo: condividere la responsabilità per il tutto. Ogni decisione che si prende, ogni azione che si compie, deve essere vista alla luce di quella responsabilità». Willis Harman, cofondatore della World Business Academy. Ecco, a me, nel leggere un brano del genere, la prima cosa che vien da pensare, è che Willis Harman ha ragione. In effetti, non c’è dubbio che le multinazionali o le grandi imprese multibusiness, tramite le scelte operate dal management e le linee guida prescritte per indirizzare i comportamenti dei suoi dipendenti, contribuiscano a plasmare non solo i mercati, ma anche i valori dominanti della società, le condizioni di lavoro, l’equilibrio ecologico, i rapporti di ric chezza tra le nazioni. È quindi ovvio che esse abbiano un peso non indifferente nel dare un volto alla civiltà umana. Avere la responsabilità di come quel volto appare in un dato periodo storico, è la naturale conseguenza del loro potere di influenzare e imprimere un cambiamen to sul cotesto dove operano. Ma le vicende del passato, come ribadisce il professor Harman, ci insegnano che, tra avere una responsabilità ed essere responsabili, c’è una bella differenza. Perché la responsabilità è una cosa presente sempre e comunque, indifferentemente dal fatto che se ne abbia o meno coscienza e dal fatto che si contribuisca a trasformare il contesto in meglio o in peggio o a lasciarlo immutato. Mentre invece essere responsabili significa un costante impegno nella direzione del miglioramento. Quindi, mentre è scontato dire che una grande impresa abbia responsabilità non indifferenti, non lo è per niente dire che allo stesso tempo essa sia responsabile, perché il primo aspetto non comporta necessariamente il secondo. È evidente allora che l’essere responsabili possa derivare soltanto da una personale forza di volontà, una tensione morale che trascini i comportamenti verso un positivo cambiamento e contrasti la tendenza all’irresponsabilità. Per questo «ogni decisione che si prende, ogni azione che si compie, deve essere vista alla luce di quella responsabilità». 10 Inoltre, ripensando al percorso di studi che ho compiuto durante questa laurea triennale, beh, se dovessi basarmi solo su quello, non potrei far altro che ammettere anch’io che una tradizione del genere, nel mondo degli affari, non ci sia mai stata. È soltanto verso la fine degli anni Novanta che le imprese, in particolare multinazionali, (spinte da nascenti problematiche di notevole entità come i disastri ambientali e gli scompensi dovuti alla globalizzazione) sembrano aver seriamente accettato di allargare il loro ambito di responsabilità. Hanno rico nosciuto di esercitare un profondo influsso non solo sul contesto economico, ma anche su quello civile. A una tale presa di coscienza sono poi seguite le azioni, e da queste è nata la Corporate social responsibility. Grazie alla Csr le imprese socialmente responsabili non costituiscono più un’eccezione alla regola, sono finalmente una realtà diffusa, e stanno diventan do esse stesse la norma. Con la Csr la responsabilità sociale d’impresa è stata definitivamente riconosciuta come un modo di fare affari valido quanto tutti gli altri e resa applicabile ad ogni azienda. Ma le pratiche di Csr sono storia recente, rappresentano “una risposta ai segni dei tempi”, non fanno parte della tradizione del mondo degli affari. La teoria economica inve ce, quella sì che sono decine di anni che riflette sulla questione. Ad esempio, tra i primissimi contributi si ricorda Can Business Afford to Ignore Social Responsibilities? di K. Davis. Era il 1960. Ma l’articolo di Davis apparso sul Californian Management Review, è soltanto uno dei primi vagiti di una nuova presa di coscienza destinata a spaccare in due il pensiero economi co. Rappresentano quel momento storico, fondamentale, in cui si cominciò a dubitare, ci si iniziò a chiedere se fosse possibile che il mondo degli affari ignorasse le responsabilità sociali. A cinquant’anni di distanza da quella prima domanda, il pensiero economico sembrerebbe giunto a una risposta univoca, ed è una risposta negativa: no, non le può più ignorare. Però, a questo punto mi sorge un dubbio. Ma è mai possibile che nella storia della tradizio ne imprenditoriale, mai un’impresa abbia osato rispondere “no” in modo autonomo a una do manda del genere, senza aspettare la definitiva presa di posizione degli economisti? Ecco che quando leggo quel brano del professor Harman, mentre penso che abbia ragione, allo stesso tempo mi vien da pensare che, probabilmente, ha anche un po’ torto. Ha torto quando dice che il mondo degli affari non ha mai avuto “una tradizione del genere”, quella di prendersi “la responsabilità per il tutto”. Ed io, in questi 24 anni di vita, forse almeno un esempio che contraddica il professor Harman, mi è capitato di trovarlo. L’esempio di un’impresa che è rimasto sotto gli occhi di tutti per cinquant’anni e passa; coinciso con l’esempio dato dal suo proprietario e manager. Un esempio tutto italiano ma esportato in 19 nazioni. Un esempio tangibile per almeno 47000 persone in tutto il mondo (a tanto ammontavano i dipendenti nel ‘61). Un esempio che però, per quanto troppo evidente da ignorare, sembrerebbe non essere 11 riuscito a cambiare i paradigmi del sistema economico in cui agiva, a rivoluzionare il mondo degli affari. Proprio da questo, al contrario, sembrerebbe essere stato spazzato via e condannato all’oblio. Adriano Olivetti morì proprio nel 1960. Alla sua morte, nella sua azienda, quella volontà di assumersi la “responsabilità per il tutto” era una realtà, e lo era già da decine di anni. Quello dell’Olivetti di Adriano è l’esempio di una grande impresa multinazionale, guidata da un uomo che quella “necessita di prendersi la responsabilità per il tutto” la sentiva dentro di sé e che in 59 anni di vita cercò di farsene degnamente carico e di esserne all’altezza. Ma, ap punto, un esempio che non ha fatto “tradizione”, non ha cambiato la storia dell’economia. Per quale motivo? Uno che lo conosceva bene, Luciano Gallino, ha suggerito che i motivi sarebbe ro da individuarsi ne «i tempi, la sproporzione delle forze in campo, la stessa crudele brevità della sua vita». Ma può anche darsi che sia semplicemente successa quella cosa che Winston Churchill sovente notava, ovvero che «A volte l'uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi si rialzerà e continuerà per la sua strada». L’esempio dell’esperienza imprenditoriale di Adriano è sopravvissuto alla sua assenza e, ancora a distanza di tanti anni, continua ad apparire come qualcosa di lapalissiano, inoppugnabile. Nonostante si tratti di un esempio ormai appartenente alla storia, ho cercato comunque di renderlo il più possibile un qualcosa di tangibile riportando le numerose testimonianze, i ricordi di una vita di coloro che vissero quell’esperienza in prima persona e videro l’agire di Adriano con i propri occhi. Oggetto di questa tesi non è esprimere un giudizio di merito. Né sulla Csr, né sull’opera di Adriano. Qui nessuna delle due verrà elevata a parametro ideale oppure messa in discussione. Perché oggetto della trattazione non è determinare quale sia meglio o peggio. Ma entram be verranno messe a confronto, saranno l’una metro dell’altra, per misurare la distanza che le separa e individuarne le affinità. Per scoprire, infine, se davvero l’homo oeconomicus, a un certo punto della sua storia, sia inciampato nella verità e abbia perso una grande occasione. L’occasione di prendere, con due generazioni di anticipo, una via, quella dell’essere responsa bilità, sulla quale, ad oggi, volente o nolente, sembrerebbe essersi avviato. L’attualità, nei con fronti della moderna Corporate social responsibility, del pensiero e dell’agire imprenditoriale di Adriano Olivetti è l’oggetto di questa tesi, per vedere se davvero possa rientrare nel novero di quelle «opere che – come diceva Calvino – non finiscono mai di dirci quello che hanno da dire». 12 13 CAPITOLO I TEORIA E PRATICA DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY 14 I.1 La Corporate social responsibility nella teoria I.1.1 Premessa La Csr è una dottrina economica, intesa come un complesso di principi, nozioni e criteri acquisiti tramite lo studio approfondito di un fenomeno economico. Nel nostro caso, si tratta di un fenomeno relativamente nuovo, di una serie di comportamenti imprenditoriali affini, innovativi rispetto a quella che in passato era considerata la norma, i quali si sono diffusi a tal punto da non poter più passare per casi isolati, eccezioni. Questi comportamenti sono stati quindi studiati come un insieme omogeneo a cui è stato dato un nome. È l'insieme delle politiche imprenditoriali di responsabilità sociale. Le imprese hanno cominciato ad essere defini te sostenibili, ambientalmente e socialmente sostenibili. Ma di che tipo di azioni stiamo par lando. Si tratta di comportamenti che apportano un beneficio o, più spesso, semplicemente riducono gli effetti negativi dell'attività d'impresa nei confronti della società, di una comunità o dell'ambiente. Insomma per dirla in "economichese" soddisfano o semplicemente non com promettono gli interessi di un ventaglio allargato di stakeholder che nutrono delle aspettative verso l'ente economico privato. Col tempo, lentamente, nelle imprese si è cominciata a diffondere, in modo più o meno volontario, l'abitudine, nel prendere decisioni relative ai loro affari, di non decidere più solo in base a quello che sarebbe stato meglio per gli affari e per gli azio nisti e per i finanziatori, ma di tenere conto anche di altri interessi, interessi di gruppi che non hanno potere decisionale, cioè il potere di influire direttamente sulle scelte imprenditoriali, ma da queste sono comunque direttamente influenzati nel bene e nel male. La Csr è considerata quasi unanimemente un modello di business, e, in quanto tale, non formula un giudizio di merito su questo tipo di scelte, ma si limita a fornire una serie di criteri, affinché in teoria chiunque possa rendere etica la propria impresa. La Csr si occupa di definire che tipo di scelte manageriali siano necessarie ai fini della trasformazione, di indicare i valori a cui devono ispirarsi e gli obiettivi a cui tendere, i processi e strumenti per l’implementazione delle scelte effettuate, gli effetti che possono avere sugli affari, i sistemi necessari per controllare e comunicare il tutto. La Csr è uno strumento di descrizione, delimitazione, catalogazione di un fenomeno, e come tale indaga i principi che accomunano un certo tipo di scelte imprendi - 15 toriali, lasciando la questione del perché di tali scelte all'acceso dibattito degli studiosi di economia. Così, negli anni, una gran quantità di letteratura economica è stata prodotta chieden dosi se le imprese abbiano o meno il dovere di essere socialmente responsabili e per quale motivo. Il continuo evolversi degli eventi ha però portato a uno spontaneo superamento della questione in senso affermativo, in conseguenza non solo della sempre maggior diffusione spontanea di comportamenti etici, ma anche alla contemporanea introduzione, e accettazione, di normative, carte di diritti, certificazioni, protocolli e raccomandazioni di organismi nazionali e sovranazionali che premono in quella direzione. Oggi, che le pratiche socialmente responsabili stanno piano piano diventando la norma, l'attenzione del mondo degli affari si è per forza di cose spostata dal perché farlo al come farlo. I.1.2 L'evoluzione del concetto di “responsabilità sociale” di un’impresa nella storia del pensiero economico I.1.2.1 L’era pre-globale Storicamente, le radici del dibattito ideologico da cui è poi scaturita la moderna Csr, sono vecchie quanto il capitalismo stesso. L'economia e il diritto «classici» si basano sulla netta divisione di due poli opposti, fra l'«interesse individuale» e l'«interesse sociale», fra la proprie tà/impresa privata e lo Stato. Secondo detta teoria, in breve, il massimo perseguimento dell'interesse privato avrebbe automaticamente condotto al massimo benessere collettivo. Sicché compito dello Stato sarebbe semplicemente quello di stabilire le «leggi generali», come Smith ha scritto, vale a dire le norme volte a fissare le condizioni generali per assicurare la libera concorrenza fra le imprese private e il buon funzionamento del mercato. La storia ci dimo stra che tutto il secolo ventesimo può essere interpretato come un processo di graduale erosione di questi due poli, un ammorbidimento del loro esasperato estremismo che ha portato alla nascita di un nuovo scenario economico e giuridico. Volendo indicare con maggior precisione un punto di partenza della problematica qui esaminata, possiamo identificarlo con la nascita della moderna società per azioni. L'introduzione della logica assembleare (con la for- 16 mazione di maggioranza e minoranze) produce sia una differenziazione di interessi e di posi zioni tra gli azionisti-proprietari, sia una separazione fra la "proprietà" e il "controllo" della impresa privata. L'accertamento dell'esistenza di tali processi risale agli inizi del XIX secolo ed è opera principalmente di Karl Marx, che con la sua profonda disamina, in pratica ha gettato i semi di ogni altra futura analisi, anche se svolta al di fuori, o addirittura in polemica, con la sua teoria politica. Dopo aver constatato che, nelle grandi imprese capitalistiche, il «controllo» dei manager diventa autonomo rispetto alla proprietà, tanto che «va per conto suo» e non di rado finisce «per depredare gli azionisti» e arricchire gli stessi manager, Marx sottolineava che il potere dei manager, separato dalla proprietà azionaria, che pur lo legitti ma, era ormai divenuto una «funzione sociale», nel senso che operava in una relazione costante con diverse figure sociali oltre a quella degli azionisti (banchieri, creditori, fornitori, ecc.) entro un contesto di attività e di responsabilità nel quale l'azionista-proprietario «scom pare [...] come personaggio superfluo». L'impatto dell'analisi marxiana sulla cultura formatasi a cavallo dei secoli XIX-XX è stato così forte che qualche decennio dopo, all'indomani del «grande crollo» del 1929, quando il fenomeno della separazione fra «proprietà» e «controllo» è emerso con l'evidenza di una corposa e incontestabile massa di dati, la preoccupazione maggiore dei sostenitori del sistema capitalistico (lo ha sottolineato più di trent'anni dopo Adolf A. Berle) era quella di dimostrare che non fosse necessario far fronte alla «socializzazione» della responsabilità dei manager privati con la soppressione del capitalismo e della impresa privata, ma appariva sufficiente, al fine di «governare» il fenomeno, prevedere adeguati controlli esterni da parte dello Stato sulla gestione delle imprese private. È sulla base di questa analisi, corroborata dalle teorie di politica economica di John M. Key nes, che ha preso avvio il ciclo dell' economia mista. Iniziato in Europa già verso la fine del XIX secolo, esso ha avuto la sua consacrazione mondiale con il New Deal rooseveltiano, ed è dura to fino agli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Nel successivo ventennio, infatti, anche il sistema misto è giunto al termine del suo ciclo storico attraverso un apparente ritorno alla più pura teoria «classica», al «liberismo» sulle ali del progressivo inasprimento della dicotomia capitalismo-comunismo. In realtà, nei paesi industrialmente più evoluti era già emersa una teoria dell'impresa privata che sottolineava nettamente il lato della «responsabilità socia le» del management. Essa è stata delineata già, nei primi decenni del secolo XX da Walther Rathenau in Germania e da Merrick Dodd in America, i quali sono giunti in quegli anni alle stes - 17 se conclusioni cui era giunto Marx qualche decennio prima osservando l'economia inglese. Sia Rathenau sia Dodd, infatti, hanno sostenuto che, l'impresa privata, o meglio la grande società per azioni, era divenuta ormai una istituzione, ossia un insieme organizzato di relazioni sociali, né più né meno «dello Stato, della Chiesa o dei Municipi»; un'istituzione di cui i mana ger, resi autonomi dalla proprietà azionaria, erano l'elemento direttivo, ma che tuttavia interagiva con una molteplicità di altre «componenti sociali», quali gli stessi azionisti di maggioranza, gli azionisti di minoranza, i dipendenti, i fornitori, i consumatori e la comunità locale. Quale punto di riferimento di un complesso di relazioni sociali, l'impresa privata era concepita essenzialmente come un attore sociale che, pertanto, si muoveva in un ambito sociale e ri spondeva della sua azione alla società. E ovviamente, nei confronti di quest'ultima, risponde va non già dei ricavi o dei guadagni ottenuti, ma della «correttezza» della propria azione e, come ha ammesso lo stesso Berle (negli anni Cinquanta), persino della «onestà», ossia dell'eti cità dei comportamenti tenuti. Tirando le somme del pluridecennale dibattito sulla responsa bilità sociale dell'impresa privata nell'epoca pre-globale, occorre notare che, oltre ad apparire di carattere essenzialmente teorico e privo di ricadute pratiche, esso non è riuscito ad aprire orizzonti realmente nuovi. I.1.2.2 L'era della globalizzazione L'avvento della globalizzazione (con i profondi mutamenti che ha provocato nella vita socia le e, quindi, agli ordinamenti politici, economici e giuridici) ha innovato profondamente il contesto entro il quale era stato sempre posto il problema della responsabilità sociale dell'impresa privata e, in un certo senso, ha agevolato l'uscita del dibattito dalle secche dei principi astratti, favorendo un approccio molto più pragmatico. Si può dire, anzi, che le condizioni create dalla globalizzazione hanno costituito, ora in positivo, ora in negativo, un potente incentivo per le imprese private a “prendere sul serio” il problema della responsabilità sociale e a dare ad esso soluzioni concrete. L'irreversibile processo di globalizzazione, se da un lato apre grandi opportunità per la creazione di nuova ricchezza, dall'altro suscita il motivato timore di allargare il divario esi stente tra aree ricche e povere del mondo. Di qui la necessità di un attento governo del feno meno, nel quale le imprese, soprattutto le multinazionali di grandi dimensioni, sono chiama- 18 te a un ruolo primario in virtù del crescente potere assunto. Nell'epoca globale si crea una situazione grazie alla quale il campo della responsabilità sociale dell'impresa tende a perdere ogni riferimento locale e finisce per estendersi all'intera societas hominum, a un'umanità cosmopolita, privata dei suoi caratteri distintivi e di qualsiasi ancoraggio spaziale e temporale. Dato un tale contesto, la Csr viene a connotarsi principalmente come responsabilità etica, ossia come rispondenza dei comportamenti imprenditoriali a principi di umanità e di onestà a carattere universale, la cui eventuale violazione produce effetti potenzialmente ricadenti su tutti. È dall'esperienza aziendale di questi ultimi decenni, più che dal dibattito teorico, che sono venute le novità più interessanti che hanno aperto originali prospettive al tema qui discusso. Certo, a conferire concretezza alla “scoperta” che nelle grandi imprese l'attività manageriale si configura essenzialmente come «funzione sociale» ha contribuito non poco il dissolvimen to del fantasma del socialismo/comunismo, che, come ha lasciato intendere la testimonianza di Berle degli anni Sessanta, ha frenato per lungo tempo l'evoluzione della tematica. Tuttavia, molto più importante perché strutturale, è stato il ruolo giocato dalla globalizzazione, non solo per il mutamento dello scenario reale, ma anche per l'apertura di un nuovo orizzonte culturale, il quale non è più delineato dall'antitesi impresa privata/Stato come sinonimo dell'antitesi fra libertà (anche egoistica e distruttiva) e controllo a fini etico-sociali. Oggi, ambe due queste valenze, quella della libertà e quella della responsabilità, sono attive a livello delle condizioni che fanno funzionare correttamente il mercato (un livello accettabile di legalità, di sicurezza, di, fiducia reciproca, di professionalità, di certezza ecc.) e entrambe trovano un punto d'incontro a livello delle imprese nella Corporate social responsibility. 19 I.1.3 Il contesto normativo In tutto il mondo i tentativi di standardizzazione dei modelli di responsabilità sociale si sono moltiplicati negli ultimi anni. Essi, comunque, trovano in alcuni chiari principi di fondo enunciati in patti, dichiarazioni, carte di orientamento emanati da istituzioni sovranazionali, una cornice normativa molto valida come minimo comune denominatore e fonte di ispirazio ne. Questo tipo di documenti contiene enunciazioni di portata più o meno generale, ispirate a convenzioni di valenza universale come la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1984, la Dichiarazione sui principi e diritti fondamentali nel lavoro del 1998, la Dichiarazione di Rio sull'ambiente e lo sviluppo del 1992 e la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1959. A livello internazionale assumono particolare importanza: gli assunti dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) di luglio del 2000: il patto globale (Global Compat) per gli obiettivi di sviluppo del millennio; le linee guida destinate alle imprese multinazionali dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e la dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Calandosi nel contesto europeo, si osserva come lo sviluppo sostenibile sia da tempo un obiettivo chiave della politica europea sancito in primis nel 1993, con il Libro Bianco della Commissione europea e, più recentemente, riconfermato dalla Dichiarazione sui principi direttori delle sviluppo sostenibile del giugno 2005. Ma le principali iniziative che a livello europeo hanno incoraggiato il dibattito e stimolato la riflessione sul concetto di Csr sono: la cosiddetta Strategia di Lisbona definita durante il Consiglio europeo straordinario tenutosi nel marzo del 2000 e l'Alleanza europea per la Csr del giugno 2006 tra la Commissione europea e i rappresentanti del mondo delle imprese; l'emanazione nel 2001, sempre da parte della Commissione europea, di un documento, il Libro verde, intitolato Promuovere un quadro per la responsabilità sociale delle imprese; 20 l'istituzione dell'European Multi-Stakeholder Forum on Corporate social responsibility , volto a promuovere la trasparenza e la convergenza delle prassi e degli strumenti socialmente responsabili. I.1.4 La definizione Per comprendere appieno di cosa si parla quando incontriamo l'acronimo Csr o, talvolta, Rsi, è bene partire dalla più importante tra le numerose definizioni elaborate nel tempo da economisti, imprenditori e istituzioni: quella che la Commissione Europea ha fornito nel Libro Verde del 2001, definendola come "l'integrazione, su base volontaria, da parte delle imprese delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate mette in risalto tre aspetti della Csr. Il primo consiste nel fatto che non si tratti di una pratica obbligatoria. Non ci sono leggi che impongono alle imprese di adottare un certo tipo di comportamenti eticamente virtuosi perché il diritto, come ha scritto tempo fa George Jellinek, non stabilisce altro che un «minimo etico». Anzi la Csr esiste proprio per il fatto che un'impresa può liberamente scegliere di andare oltre gli obblighi legislativi, rendendosi in questo modo compartecipe del miglioramento sociale. Il secondo assunto risiede nella considerazione che la beneficenza disinteressata sia un'azione che esula dal campo della Corporate social responsibility. La Csr, infatti, dovrebbe coin volgere l'impresa nel profondo, mutarne l'essenza. Di conseguenza una sua corretta applicazione non può non manifestarsi proprio nello svolgimento delle attività caratteristiche di ogni organizzazione economica (vendita o fornitura di beni o servizi). È solo nello svolgimento degli affari che il fine economico e il fine etico possono e devono trovare un punto d'incontro, un mutuo sostegno e un'equa soddisfazione. Proprio il raggiungimento di tale punto, in una prospettiva di lungo termine, è il fine ultimo che dà un senso alle iniziative socialmente responsabili. Il terzo, e più importante, riguarda la centralità delle parti interessate. Il più importante in quanto, se l'impresa è determinata a ottenere un consenso diffuso all'interno dell'ambiente gli stakeholder". Questa breve ma esaustiva definizione 21 che la circonda, se si propone di essere sensibile alle istanze provenienti da soggetti che non rientrano nella cerchia ristretta proprietà-management-finanziatori, non può prescindere dall'instaurazione di un dialogo con chi è portatore di tali istanze, con chi in pratica dovrebbe porgerle quel consenso. Per passare alla fase concreta di contribuzione alla soluzione di problemi sociali e ambientali, è necessario che prima ne prenda coscienza e li analizzi. E que sto sarà possibile unicamente mettendo chi è toccato da tali problemi, al centro dell'attenzione durante lo svolgimento dei processi decisionali. I.1.5 Lo Stakeholder based approach Il concetto di stakeholder è stato teorizzato per la prima volta nel 1963 dallo Stanford Re search Institute e originariamente facevano parte di questa categoria solo i soggetti aventi un interesse diretto nella vita dell'impresa: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori. Tuttavia nel corso degli anni il concetto si ampliò notevolmente con la definizione fornita da Edward Free man nel suo saggio del 1984 Strategic Management: a stakeholder approach, secondo la quale stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dal l'attività dell'organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In base a questa definizione, anche lobby, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, as sociazioni imprenditoriali e non, concorrenti, sindacati e la stampa sono tutti da considerarsi stakeholders. Traducendo alla lettera, Freeman individua gli stakeholder in quei «soggetti senza il cui supporto l'impresa non è in grado di sopravvivere», rendendo bene l'idea della loro fondamentale rilevanza. Se un'impresa in genere non può prescindere dal dar loro ascol to, tanto meno può farlo un'impresa socialmente responsabile. Da questa logica nasce lo Stakeholder based approach, un efficace modello per affrontare il problema di integrazione della Csr nella corporate strategy, rendendo sistematico l'orienta mento all'etica della propria impresa. Per capire meglio questo modello bisogna adottare una particolare chiave di lettura dell'azienda, un approccio di tipo teleologico: la visione per soggetti. Il sistema impresa, come qualsiasi altro nucleo sociale, può essere rappresentato quale manifestazione concreta dell'interazione tra gli scopi (finalità, interessi) dei suoi stakeholders (insieme dei soggetti interessati all'attività d'impresa). L'importanza di questa visione "sog - 22 gettiva" è del resto facilmente intuibile riflettendo sul peso che tali soggetti assumono nella nascita e nel fisiologico funzionamento del sistema aziendale all'interno del tessuto socioeconomico in cui tale sistema è inserito. Condizione essenziale per la nascita e la sopravvivenza dell'impresa è infatti l'esistenza di una domanda, e quindi di una clientela alla quale destinare il prodotto o il servizio attivando un rapporto di scambio, e di un'offerta, cioè di fornitori di risorse, tangibili e intangibili, necessarie per la creazione e la strutturazione del sistema operativo, nonché per la sua crescita e per la sua corrente alimentazione, anche in questo caso il tutto tramite rapporti di scambio. A questi due gruppi di interlocutori si affian cano altre categorie di soggetti che, seppur con diverse finalità, attivano fisiologicamente rapporti diretti con l'impresa. Lo Stato, ad esempio, che da un lato procede alla riscossione di imposte e dall'altro dovrebbe garantire la presenza di infrastrutture e servizi strumentali all'esercizio dell'attività d'impresa. Ma anche gli organismi sovranazionali che codificano stan dard qualitativi di processo e di prodotto; gli istituti di credito che forniscono le risorse energetiche finanziarie necessarie; i concorrenti attuali e potenziali; le agenzie di rating; i gruppi di pressione esterni (si pensi a fenomeni quali il consumierismo, l'ambientalismo, ecc.) o interni (sindacati), tutti portatori di certe esigenze sociali e politiche che possono creare vincoli e/o imporre orientamenti più o meno espliciti, direttamente e indirettamente, all'attività dell'impresa. È facile intuire come l'attività imprenditoriale di strutturazione e di guida dell'impresa debba necessariamente essere effettuata tenendo ben presenti le problematiche scatu renti dalla gestione simultanea di tutti i rapporti tra il sistema impresa e i soggetti esterni. È questa l'esigenza alla base dell'approccio teleologico all'impresa. Messa in questa prospettiva, l'azienda si può considerare come il centro su cui gravitano tutta una serie di interessi, scopi e aspettative del più vario genere cui sono portatori una pluralità di soggetti (interni ed esterni all'impresa) che vedono nei risultati dell'attività aziendale un mezzo di appagamento; centro la cui sopravvivenza dipende proprio dalla capacità che ha di soddisfarli. Riassumendo possiamo dire che la possibilità dell'impresa di sopravvivere nel tempo è strettamente connessa alla sua capacità di attirare intorno alla sua attività più consensi che dissensi, o, ancora meglio, di fare in modo che la forza di coloro che hanno interesse a far sì che l'impresa continui ad esistere sia superiore rispetto a quella di coloro che invece perseguono l'interesse opposto. 23 I.1.6 Differenze interpretative sulla Csr: da modello di business a cuore dell'identità di un'azienda Porre l'accento sulla questione degli stakeholder e dei loro interessi, fondamento di una se ria Csr, implica una riflessione che arriva a toccare la stessa ragion d'essere di un'impresa. Se per un verso ha ragione Milton Friedman a dire che l'unico fattore di legittimazione dell'im presa privata è il profitto, per altro verso è evidente che quest'ultimo non può essere ottenuto senza il "consenso" ad agire dell'ambiente in cui opera. Nella società ci sono operatori economici che indirizzano le loro scelte fondamentali sulla base dei motivi della più diversa na tura, la cui determinazione dipende in gran parte dall'ambiente culturale, dagli stili di vita, dalle convinzioni più profonde. E, se l'ambiente circostante dà valore all'eticità delle scelte imprenditoriali, queste ultime, ove non vogliano essere delegittimate, non hanno altra via che adeguarvisi. L'unica condizione che in tal caso debbono osservare è il rispetto del vincolo economico (profitto o creazione di ricchezza). Ma che dire allora delle numerose imprese che si sono date come obiettivo quello della creazione di valore per gli azionisti? sono esse costituzionalmente disallineate rispetto alla logica della responsabilità sociale e farebbero dunque bene a tenersene alla larga, salvo un ripensa mento radicale della loro impostazione? La risposta è “dipende. Dipende da come esse di fat to interpretano l'obiettivo di creazione di valore per gli azionisti. Se questo obiettivo viene assolutizzato e perseguito a tutti i costi con dissennate strategie di crescita o con una esaspera ta ricerca dell'efficienza, sacrificando le esigenze di uno sviluppo duraturo e i valori di integrità e di rispetto per le persone e per l'ambiente che sono il fondamento su cui si costruisco no relazioni di fiducia con tutti gli interlocutori, è chiaro che si è in presenza di orientamenti strategici inconciliabili con le logiche soggiacenti ad una seria e feconda responsabilizzazione sociale e che proprio da tali orientamenti di fondo bisogna ripartire. Dall'etica degli affari agli affari dell'etica, il passo è davvero breve e il rischio è che tutto venga letto come un'occasione per le imprese per fare opportunisticamente “vetrina” dei risultati conseguiti in campo socioambientale. La Csr, infatti, non è semplicemente una pratica manageriale molto in voga a cui conformarsi per non perdere terreno rispetto alla concorrenza. Si tratta invece di una vera e propria nuova filosofia di gestione delle aziende, quasi un movimento culturale che non è di destra, di sinistra o di centro, che non è né global né anti global, ma semplicemente di buon senso e al passo coi tempi. La Csr ha veramente senso solo quando le imprese perseguono l'o - 24 biettivo di una creazione di valore di lungo periodo tramite una lungimirante strategia di svi luppo, nella quale sia conciliata l'apparente conflittualità tra responsabilità socio-ambientali e responsabilità economiche, in modo che si integrino generando delle sinergie necessarie al loro simultaneo conseguimento. 25 I.2 Strumenti per la messa in atto della Csr I.2.1 Il codice etico Il codice etico è un documento di cui si dotano le imprese, una carta dei diritti e dei doveri morali che definisce la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante all'organizzazione im prenditoriale. Si tratta di uno strumento che assolve a una duplice funzione. Prima di tutto è un codice di autodisciplina, un corpus di norme proprio dell'azienda, che definisce una serie di standard etici di comportamento a cui i dipendenti devono conformar si, al fine di tenere alta l'integrità morale dell'azienda nella conduzione degli affari. Dando coscienza ai dipendenti delle proprie responsabilità etiche e sociali permette di prevenire com portamenti irresponsabili o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell'azienda. Sotto questo aspetto è quindi rivolto a soggetti interni all'impresa, con lo scopo di diffondere omogeneamente una cultura aziendale forte e precisa, nella quale tutti i dipendenti possano riconoscersi e sentirsi uniti e di creare consapevolezza su quali siano le migliori pratiche da adottare. Il codice etico è, in questo senso, anche fonte di motivazione per il personale al rispetto delle regole di qualità e stimola azioni correttive nell'ottica di un miglioramento dei rapporti con gli interlocutori. Esso è quindi uno strumento basilare per l'integrazione dell'etica nei processi decisionali che si svolgono all'interno dell'azienda. In secondo luogo è anche uno strumento d'informazione rivolto a soggetti esterni, di divul gazione dei principi fondanti che ispirano le operazioni e le negoziazioni compiute e, in genere, i comportamenti posti in essere dai propri dirigenti, quadri, dipendenti e spesso anche fornitori, verso i diversi gruppi di stakeholder. Principi che riguardano sia il rispetto delle leg gi, cosa che evidentemente non può darsi per scontata, sia il rispetto dei valori morali. Diffondendo all'esterno consapevolezza sui valori alla base di ogni azione intrapresa, l'azienda crea un consenso favorevole intorno al suo operato, ottenendo una legittimazione sociale a fare ciò che fa. Legittimazione, va sottolineato, tanto più necessaria quanto più l'impresa ope ra in business con forti implicazioni sia sociali che ambientali. Le imprese proclamandosi responsabili dovrebbero di conseguenza essere ritenute affidabili. 26 Possiamo quindi dire che il codice etico ha tanto una funzione operativa, indirizzando internamente i comportamenti, quanto una funzione di creazione di fiducia, costruendo un'immagine aziendale che possa ricevere il consenso dell'ambiente in cui opera. Numerosi sono i valori di cui sono solite fregiarsi le imprese, alcuni più generici, valori di base per ogni etica aziendale che si rispetti, come la trasparenza, la professionalità, l'onestà, l'osservanza della legge, dei regolamenti e delle disposizioni statutarie, la salvaguardia dei diritti umani, della dignità, della libertà e dell'uguaglianza delle persone, la tutela dell'ecosistema, la proibizione di pratiche di corruzione, collusione e di comportamenti discriminatori e opportunistici. Altri principi sono invece più specifici in relazione all'ambito o agli stakeholder verso cui si applicano. Così nel campo dei rapporti con gli azionisti e col mercato si è soliti porre enfasi sulla completezza, tempestività e trasparenza dei dati diffusi, sulla chiarezza e veridicità dei documenti contabili, sulla conoscibilità da parte del mercato delle decisioni gestionali, sulla corretta gestione di informazioni privilegiate al fine di scongiurare iniziative di market abuse e insider trading. Relativamente ai rapporti con le espressioni organizzate della società civile, quali autorità, istituzioni pubbliche, organizzazioni culturali, enti non profit e comunità locali, le imprese solitamente si impegnano a promuovere il dialogo, l'interazione e la cooperazione, a prendere in considerazione le loro legittime aspettative e a sostenerne, ove possibile, la realizzazione di interessi diffusi inerenti la qualità della vita di queste comunità. Nei confronti di clienti e consumatori le imprese si impegnano ad offrire prodotti e servizi di qualità a condizioni competitive e nel rispetto delle norme poste a tutela della leale con correnza. Prodotti e servizi che soddisfino le loro ragionevoli necessità e aspettative, attenendosi inoltre alla verità nelle comunicazioni pubblicitarie e fornendo accurate ed esaurienti in formazioni, in modo che i clienti possano assumere decisioni consapevoli. Per quanto riguarda i rapporti con fornitori e collaboratori esterni, è importante che questi soggetti siano idonei per professionalità e condivisione dei principi del codice etico azienda le, e che vengano selezionati adottando esclusivamente criteri di valutazione oggettivi secon do modalità dichiarate e trasparenti, senza precludere a alcuno di loro, in possesso dei requisiti richiesti, la possibilità di competere. È inoltre richiesto di mantenere coi fornitori un dialogo franco e aperto, impegnarsi nella costruzione di rapporti duraturi per il progressivo mi glioramento dell'applicazione dei contenuti del codice, ricercando la loro collaborazione per assicurare costantemente il soddisfacimento delle esigenze dei clienti. 27 In materia di lavoro e Risorse Umane le imprese si obbligano a offrire a tutti i lavoratori le medesime opportunità di lavoro, nel pieno rispetto della normativa di legge e contrattuale in materia, facendo in modo che tutti possano godere di un trattamento normativo e retributivo equo basato esclusivamente su criteri di merito e di competenza, senza nessun tipo di discri minazione o favoritismo. Rimarcano inoltre la loro attenzione nello sviluppare le capacità e le competenze di ogni dipendente, così che le loro potenzialità trovino piena espressione per la realizzazione personale tramite adeguate opportunità di carriera. Non meno rilevante è la creazione di un ambiente di lavoro che sia, da un lato sicuro per la salute fisica e psicologica del dipendente, rispettando la normativa vigente, dall'altro sano e fecondo, promuovendo il dialogo, il reciproco rispetto, la collaborazione e una sana competitività. Relativamente all'ambiente sono posti in primo piano obiettivi di sviluppo sostenibile. Le imprese sono quindi disposte a riconoscere e ad assumersi la propria responsabilità nei con fronti dei territori in cui operano, tutelando la ricchezza della biodiversità e la qualità del suolo, delle acque, dell'aria e del paesaggio, prevenendo e limitando il più possibile il loro negativo impatto ambientale con particolare attenzione ai livelli d'inquinamento. Infine, laddove non sia stato possibile evitare un danno ambientale, intervenendo con azioni di ripristino del le condizioni precedenti. Ogni codice etico si conclude con una serie di norme di attuazione che impongono ai dipendenti di conoscere e applicare il codice, di segnalare eventuali violazioni a un comitato etico o a un organo di vigilanza. Quest'ultimo funge da garante dell'applicazione delle norme, ne promuove la diffusione e l'attuazione, comunica agli uffici competenti i risultati delle verifiche per l'adozione di eventuali provvedimenti correttivi e sanzionatori. 28 I.2.2 Welfare aziendale I.2.2.1 Panoramica Sotto la denominazione di Welfare aziendale ricadono innumerevoli prestazioni e servizi molto diversi tra loro, vari sia per ambito di applicazione sia per complessità di attuazione, ma tra loro omogenei sotto il profilo delle finalità e dei destinatari. Così, consideriamo una misura assistenziale d'impresa ogni azione o servizio offerto o semplicemente incentivato dall'impresa al fine di contribuire al benessere dei propri dipendenti migliorandone la qualità della vita o, al limite, facendo sì che l'impiego non la peggiori. Si tratta di politiche per la con ciliazione tra il lavoro e la vita, tra impegni professionali e privati, che talvolta arrivano a es sere vere e proprie iniziative di solidarietà verso i dipendenti e le rispettive famiglie. Renden do compatibile la sfera lavorativa con la sfera familiare e aiutando le tipologie di personale più disagiate, tali politiche forniscono strumenti che consentono a ciascun individuo di vivere al meglio i molteplici ruoli che gioca all'interno di società complesse. In tal modo fungono anche da fattore di innovazione degli attuali modelli sociali, economici e culturali. Dato il notevole dispendio di energie messo in campo dalle imprese, non si può sottacere quanto queste a loro volta ne traggano beneficio. Difatti, risolvere i naturali conflitti vita-lavoro si ripercuote positivamente sul clima generale dell'impresa, che vede i suoi lavoratori prendere parte alla vita aziendale con più serenità e quindi con più motivazione. Ciò, sommato a una migliore gestione del carico di lavoro, genera un aumento della produttività dei singoli con ovvi vantaggi sulla competitività dell'azienda stessa. La soddisfazione del dipendente genera inoltre fidelizzazione verso l'azienda con conseguente abbassamento dei tassi di turn over e assenteismo. Infine, in questo modo, l'azienda riesce ad ottenere un rafforzamento della propria reputazione grazie sia alla comunicazione rivolta al mercato dei risultati raggiunti (tramite ad esempio un bilancio sociale), sia alle iniziative intraprese da vari tipi di or ganizzazioni volte a individuare e premiare (non solo grazie al ritorno d'immagine ma anche economicamente) i "campioni" del Welfare. Una su tutte il Great Place To Work Institute che annualmente stilla per la rivista FORTUNE's la lista 100 Best Companies to Work For e classifica i migliori ambienti di lavoro sia su base nazionale che internazionale selezionando oltre 5500 aziende. 29 Considerato nel contesto sociale, il Welfare aziendale è oggi un “tassello” che integra risor se, prestazioni e servizi che il Welfare state pubblico non può assicurare. Per questo motivo si riscontra un forte supporto alle politiche di Welfare aziendale anche da parte dello Stato, con la diffusione di bandi a livello regionale per l'erogazione di contributi a fondo perduto alle imprese e soggetti assimilati. Tali bandi rappresentano un sostegno fondamentale per lo sviluppo dell'impegno imprenditoriale in specifici ambiti di interesse diffuso a cui lo Stato è particolarmente sensibile come la riduzione della disoccupazione e del precariato, la promo zione del diritto al lavoro dei neogenitori, la protezione del potere d'acquisto delle famiglie. Condizione determinante per un Welfare aziendale di successo è quella di partire dai biso gni individuali dei singoli lavoratori e non da soluzioni preconfezionate e calate dall'alto. Poi ché variabili come l'età, il genere e le condizioni familiari in questo caso fanno davvero la dif ferenza, l'impresa deve essere in grado di conoscere con precisione le loro necessità ed esigenze e di dispiegare le proprie politiche assistenziali in quegli ambiti che, alla luce delle ana lisi condotte, risultano maggiormente critici e urgenti. I.2.2.2 Uno sguardo ravvicinato Data l'ampia varietà delle esigenze di conciliazione dei lavoratori, innumerevoli, come già ho anticipato all'inizio, sono le pratiche messe in atto dalle imprese al fine di soddisfarle. Per questo motivo, andando a elencare quali sono nella pratica le prestazioni di Welfare azienda le maggiormente diffuse, conviene anche procedere a una, seppur semplice, suddivisione in base agli ambiti di applicazione, per inquadrarle meglio. Partendo da quelle rivolte alla salute del dipendente, vanno innanzitutto ricordate le iniziative di assistenza sanitaria con check up e visite mediche gratuite o a condizioni vantaggiose fruibili presso strutture convenzionate con l'azienda o in alcuni casi nell'azienda stessa; seminari di formazione sui rischi per la salute e sul valore della prevenzione; prelievi in azien da; assicurazioni sanitarie e previdenziali integrative per il dipendente e i suoi familiari; servizi di consulenza psicologica on line; contributi economici straordinari a fronte di eventi che incidono sulla capacità lavorativa, causando gravi patologie invalidanti. Per quanto riguarda l'ambito del benessere psico-fisico, le più diffuse comprendono zone relax attrezzate, palestre in cui seguire corsi o svolgere attività fisica assistiti da personal 30 trainer e nutrizionisti, saune e centri massaggio. Quando le dimensioni dell'azienda non per mettono l'integrazione di questi servizi all'interno dell'organizzazione, vengono stipulate convenzioni con strutture indipendenti che permettono di accedere a centri sportivi, ginnici, termali, SPA e simili a condizioni agevolate. Ma le attività rivolte al benessere della persona del dipendente possono essere le più svariate. Così rientrano in questa categoria servizi di time saving quali lavanderia e stireria, l'integrazione in azienda di sportelli ATM, attività di biglietteria e prenotazione viaggi e il cosiddetto "servizio maggiordomo", personale dedicato al disbrigo di pratiche e piccole commissioni per conto dei dipendenti, che consente loro di evitare inutili perdite di tempo presso uffici amministrativi e sportelli vari ad esempio pagan do le bollette, l'abbonamento tv e le multe dell'auto, ma anche prenotando i posti a teatro o per i concerti; servizi inerenti il trasporto, con convenzioni e iniziative per l'agevolazione della mobilità sostenibile, il trasporto dei figli e la riduzione del disagio del pendolarismo; servizi di consulenza professionale online in materia legale e fiscale, realizzati in collaborazione con un network di professionisti per fornire pareri su tematiche specifiche relative alla sfera personale, tipo famiglia e condominio, o ad aspetti fiscali come tasse, tributi e dichiarazione dei redditi; servizi di organizzazione e promozione di eventi culturali e di intrattenimento quali ad esempio mostre, concerti, cinema e spettacoli teatrali o agevolazioni alla loro parte cipazione. Una posizione di notevole rilievo è occupata dalle prestazioni rivolte alla famiglia. Tra que ste la maggior parte è rivolta ai dipendenti con figli: assistenza pediatrica; asili nido aziendali o convenzionati; servizi di baby sitting; ludoteche pomeridiane e centri ricreativi aperti nei periodi di chiusura delle scuole; campus estivi e invernali per ragazzi; supporto all'istruzione con rimborsi per l'acquisto di libri e materiale didattico e l'erogazione di borse di studio universitarie; accesso gratuito a uno o più corsi online come corsi di lingue straniere, patente informatica europea ECDL, patente automobilistica e patentino per ciclomotori. Sempre a favore delle famiglie sono le azioni a sostegno del risparmio e del loro potere di acquisto. Tra queste si annoverano i finanziamenti e i mutui sulla prima casa a tasso agevolato, l'offerta di una spesa di tot valore in generi alimentari o l'opportunità di acquisto di beni e servizi a con dizioni particolarmente vantaggiose attraverso un network di partner ed esercizi convenzionati distribuiti sul territorio. Infine rientrano in questa categoria facilitazioni legate alla maternità come corsi di reinserimento, sportelli di supporto psicologico, parcheggi dedicati, 31 flessibilità e riduzione dell'orario, telelavoro e tutto ciò che può agevolare dopo una lunga pausa dai ritmi lavorativi. Al fine di conciliare gli impegni professionali con le esigenze personali e familiari, aumenta costantemente l'utilizzo di contratti che prevedono flessibilità sia sugli orari che sulle retribuzioni. Partendo dai primi, gli interventi più blandi riguardano la previsione contrattuale di permessi e orari elastici per accompagnare i bambini a scuola o per assistere parenti anziani o invalidi. Un gradino sopra troviamo chi offre una più o meno ampia gamma di orari di lavoro diversi tra cui il dipendente può scegliere; oppure chi destina una linea di produzione ad avere un orario differenziato rispetto alle altre, ad esempio privo di turni, creata appositamente e con accesso limitato a chi ne ha necessità. Ci sono poi aziende che arrivano a smette re di registrare l'entrata e l'uscita dall'ufficio del loro personale, il quale viene valutato solo in base agli obiettivi raggiunti. Altre offrono la possibilità di lavorare in remoto, tramite una connessione di rete, replicando a casa del lavoratore la postazione presente in ufficio. Si trat ta del cosiddetto telelavoro, grazie al quale il dipendente può svolgere le sue mansioni gestendo autonomamente le proprie necessità durante la giornata ed evitando sprechi di tempo come, ad esempio, quello necessario a raggiungere l'ufficio. Riguardo l'elasticità delle retribu zioni troviamo i flexible benefits. Con la previsione contrattuale di flexible benefits, una parte variabile dello stipendio può essere "spesa" in servizi offerti al dipendente, che normalmente egli dovrebbe comprati all'esterno e che invece, in questo modo, gli vengono offerti attraverso l'azienda. Grazie a questa tecnica, il costo del lavoro per l'azienda diminuisce e il potere d'acquisto del dipendente aumenta perché la parte accessoria dello stipendio non è soggetta a tassazione. Nelle organizzazioni più evolute ogni dipendente può accedere online a un'area riservata del portale aziendale per confezionare la componente del proprio pacchetto retributivo variabile, scegliendo tra i benefit disponibili negli ambiti più svariati. 32 I.2.3 Le certificazioni e gli standard I.2.3.1 Panoramica Le certificazioni sono il risultato di una riflessione sull'opportunità di uno strumento che regolamenti e faciliti l'applicazione del poliedrico concetto di Csr alla, altrettanto varia, realtà delle imprese. Una riflessione imposta dalle condizioni in cui si presenta il contesto interna zionale, attualmente destabilizzato da pericolosi fenomeni macro-economici come, tra i principali, durature crisi economiche, elevato indebitamento pubblico, globalizzazione. Proprio conseguentemente agli effetti negativi di simili macro-fenomeni, sono oggi tornati oggetto di dibattito alcuni “difetti” di tipo sistemico, accusati di essere il motivo per cui imprese «fatte per durare come piramidi, sono ora poco più che dei tentativi», come afferma T.H. Harris nel suo The post-capitalist executive: an interview with Peter F. Drucker . I diversi modi di interpretare e di approcciarsi a questo tipo di problema sono sostanzialmente riunibili in due filoni di pensiero contrapposti. Riconosciuta la diffusione di pratiche di Csr come il modo migliore per correggere questa difettosità a livello di sistema agendo di rettamente sui soggetti che più lo influenzano (le imprese), le certificazioni, volte a rendere più agevole l’implementazione di tali pratiche e la loro valutazione, rappresentano una solu zione di compromesso che cerca di contemperare le opposte esigenze su cui pongono l'accento le due correnti di pensiero. Secondo gli assertori della prima, la libera e illimitata circolazione dei beni vanno conside rate la chiave di un diffuso benessere economico. Essi sono convinti, in poche parole, che la creazione di un «villaggio globale» sia in grado di garantire a tutti i membri della società una forma di partecipazione universale, la quale farebbe crescere economicamente i paesi in via di sviluppo, fornendo nuove opportunità occupazionali. È una visione che concorda col modus operandi delle grandi imprese multinazionali. Questo loro modello si ispira, infatti, al classico principio liberista del laissez-faire, il quale, detto in parole povere, basa lo sviluppo economico sulla libera iniziativa e sul libero mercato, limitando l'intervento dello Stato nell'e conomia alla costruzione di adeguate infrastrutture che possano favorire il mercato stesso. In questo contesto l'azione individualistica del singolo nella ricerca del proprio benessere, do- 33 vrebbe creare soddisfazione a lungo termine ed essere sufficiente a garantire la prosperità economica della società nel tempo. Al contrario, dall'altra parte, vi sono le tesi addotte dai detrattori della globalizzazione, le quali, semplificando, ruotano attorno alla convinzione che tale fenomeno costringa molti paesi a concentrarsi soltanto su alcune aree di business e ad abbandonare interi settori di at tività; paesi in cui il patrimonio ambientale verrebbe sistematicamente distrutto e le opportunità di lavoro eliminate, con l'effetto finale di accrescere la disuguaglianza tra bene stanti e disagiati e causare danni irreversibili al pianeta per via dello sfruttamento improprio e disordinato delle risorse naturali. La scissione, nell'opinione pubblica, tra supporters e opposers della globalizzazione è il sin tomo di una frattura nel sistema economico che si è tradotta in una forte crisi tra consumato ri e aziende, imponendo una riflessione da parte degli operatori economici e degli studiosi circa la necessità di intervenire, dal punto di vista normativo, sulla promozione e regolamentazione di comportamenti imprenditoriali socialmente responsabili, considerati il motore dello “sviluppo sostenibile”. La questione, lungi ancora dall'essere affrontata in maniera sistema tica e univoca, ha comunque focalizzato l'attenzione di dottrina e prassi sulle inevitabili con seguenze di ordine sociale e ambientale che, direttamente e indirettamente, sono conseguen za dei comportamenti delle imprese nel contesto economico allargato. Peraltro, occorre ricor dare come la volontarietà dell'adozione di pratiche socialmente responsabili, statuita nella definizione stessa di Csr, sia dovuta anche alla constatazione che, in alcuni ambiti, l'imposi zione di norme è estremamente difficile per svariate ragioni, tra cui soprattutto la consapevo lezza che determinate pratiche sono frutto della lunga maturazione, all'interno di un'impresa, di una cultura aziendale caratteristica, la quale non può essere semplicemente prescritta. Ci si interroga, dunque, sulle opportunità che una normativa ad hoc, a livello internazionale, potrebbe offrire nel prevedere, tra i principi del nuovo management, anche obblighi etici nei confronti della collettività, come elementi fondamentali nell'ordinaria gestione di un'organizzazione. 34 I.2.3.2 ISO, OHSAS e SA Ecco che a metà strada tra la totale assenza di prescrizioni e l'imposizione legislativa, si tro vano le certificazioni. Queste prescrivono, ognuna nel suo ambito specifico, linee guida e prassi standardizzate, a cui facoltativamente un'impresa può conformarsi. Una volta fatto, entra in possesso di una certificazione riconosciuta in tutto il mondo, che le attesta l'uso di validi sistemi per la corretta gestione di quei comportamenti afferenti tematiche particolarmente delicate, come ad esempio l'impatto ambiente o la sicurezza sul luogo di lavoro, che la renderebbero virtuosa sotto quei punti di vista. In questa direzione, ruolo fondamentale è svolto dall'ISO, l'International Organization for Standardization, la più importante organizza zione non governativa per la definizione e l'armonizzazione a livello mondiale di codici di comportamento certificabili e norme tecniche in tutti gli ambiti della vita quotidiana. Fondata il 13 febbraio del 1947, con sede a Ginevra, è costituita dagli organismi nazionali di standardizzazione di 157 paesi del mondo. In Italia, le norme ISO vengono recepite, armonizzate e diffuse dall'UNI, il membro che partecipa in rappresentanza del nostro Paese all'attività nor mativa dell'ISO. Un notevole contribuito alla crescita economica sostenibile si è ad esempio registrato grazie all'approvazione ed implementazione della serie di norme ISO 9000 sulla gestione della qualità e ISO 14000 in materia di tutela ambientale. Recentemente, altri enti preposti alla regolamentazione hanno elaborato norme afferenti al tri ambiti di interesse sociale, complementari ai sistemi ISO. Nel campo della gestione della salute e della sicurezza sul posto di lavoro, il più importante è lo standard internazionale emanato per la prima volta nel 1999 dal BSI, il British Standards Institution, primo ente di normazione al mondo fondato nel 1901 in Inghilterra. Stiamo parlando dell'OHSAS (Occupational Health and Safety Assessment Series), nella recente versione 18001:2007. Un ulteriore e fondamentale standard internazionale di certificazione è la norma SA 8000, dove SA sta per Social Accountability, redatta nel 1997 dal CEPAA, il Council of Economical Priorities Accredi tation Agency, successivamente trasformatosi nell'organizzazione non profit SAI (Social Accountability International). SA 8000 si propone di migliorare le condizioni lavorative a livello mondiale, fornendo garanzie sul rispetto di un insieme molto più esteso di diritti rispetto al l'OHSAS che si intessa solo di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro. L'SA 8000, assicuran do contemporaneamente il rispetto dei diritti dei lavoratori (statuiti nella Convenzioni ILO, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro), dei diritti umani (contenuti nella Dichiarazione 35 Universale dei Diritti Umani), della Convenzione delle Nazioni Unite per eliminare tutte le for me di discriminazione contro le donne e della Convenzione Internazionale sui Diritti dell'In fanzia contro lo sfruttamento dei minori, certifica la condotta etica “a tutto tondo” dell'impresa. Nello specifico, si tratta regole che un datore di lavoro deve rispettare, le quali interes sano nove campi diversi: lavoro infantile; lavoro obbligato; salute e sicurezza (integrandosi con la OHSAS 18001); libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva; discrimi nazione; procedure disciplinari; orario di lavoro e retribuzione; sistemi di gestione e controllo inerenti questi ambiti. Una delle fondamentali innovazioni di SA 8000 è la previsione di una procedura di selezione di fornitori e sub-fornitori basata, tra l'altro, anche sul rispetto delle norme SA 8000 da parte di questi. L'ampliamento della supervisione all'intera catena di fornitura è quanto mai fondamentale, in quanto l'impresa che adotta un simile proto collo influenza la filiera produttiva nella sua interezza al di là del singolo soggetto economi co, ponendo implicitamente le basi per un più ampio miglioramento sociale. ISO 9000, ISO 14000, OHSAS 18001 e SA 8000 formano oggi un insieme di standard che, se correttamente rispettati insieme, permettono la gestione integrata delle politiche aziendali in materia di qualità, ambiente, sicurezza ed etica. Questi quattro ambiti risultano complemen tari tra loro e indispensabili per la completa implementazione della Csr all'interno dell'impresa. Proprio secondo l'ISO, l'uso integrato di tali norme implicherebbe, inevitabilmente, una riflessione sull'opportunità di una convergenza normativa sul tema della responsabilità socia le, potendo sfociare in futuro in un sistema unificato di standard. Ipotizzando un sistema di regole comportamentali vincolanti che coinvolgano ogni aspetto dell'organizzazione, dalla qualità del prodotto o del servizio alla sicurezza sul posto di lavoro, dalla tutela dell’ambiente al benessere della collettività, sarà poi compito della singola organizzazione, attraverso la previsione di un codice etico interno, definire i propri valori nei rapporti con le varie catego rie di stakeholder, interni ed esterni. In questo senso, è allo studio dal 2005 un documento specifico sulla Csr, ISO 26000, con l'obiettivo di realizzare una linea guida più che uno standard certificabile. Per ora, nelle in tenzioni degli autori, tale norma si dovrebbe affiancare, più che sostituire, agli standard esi stenti, perseguendo molteplici finalità generali tra le quali si segnalano le seguenti: assistere le organizzazioni nell'ottemperare alle proprie responsabilità sociali nel rispetto delle differenze culturali, sociali, ambientali, economiche e legali; 36 rendere disponibili linee guida per una traduzione operativa e concreta della respon sabilità sociale; enfatizzare l'attenzione ai risultati e ai miglioramenti; accrescere la fiducia nelle organizzazioni da parte di clienti e altri stakeholder; diffondere una maggiore consapevolezza in merito alla responsabilità sociale. I.2.3.3 Certificazioni tra confrontabilità e omologazione Corollario dell'armonizzazione delle strategie e programmi adottati da imprese diverse in materia di tutela dell'ambiente, valorizzazione del capitale umano, relazioni con fornitori e clienti, è la loro accresciuta comparabilità. Standardizzare una prassi comporta renderla confrontabile. E la confrontabilità è essenziale per il buon funzionamento di una certificazione, perché confrontabilità significa poter valutare come un'impresa implementa quella data prassi mettendola a paragone con un benchmark, poterne stimare l'efficienza e l'efficacia, render la trasparente e giudicabile. I vantaggi pratici sono la crescente concorrenza tra imprese an che sul piano della responsabilità e la più efficace azione di denuncia da parte dei watch dog (e quindi minori possibilità di green, social ed ethical washing ). Tutto ciò contribuisce a generare un clima di fiducia sul funzionamento delle certificazioni, fiducia che automaticamente si estende alle imprese che le applicano correttamente, con un conseguente miglioramento della loro immagine aziendale. Proprio la propagazione a livello mondiale della Csr è stata favorita dalla confrontabilità che le caratterizza gli standard: senza di essa infatti non si sarebbe potuta creare quella positiva esternalità di rete che ha messo le ali alla sua diffusione. In breve, l'esternalità di rete consiste nei vantaggi che le imprese traggono dall'adozione, da parte di altre imprese, dei medesimi protocolli. È un meccanismo semi-spontaneo, basato sul principio secondo il quale l'importanza, soprattutto a livello reputazionale, di un'accreditazione, cresce all'aumentare della sua diffusione. In pratica, più imprese adottano una data certificazione, maggiori sono gli enti di accreditamento che la riconoscono, maggiori sono le aziende che selezionano i for nitori e i consumatori che scelgono i prodotti sulla base di tale requisito, attivando così circoli virtuosi grazie ai quali la Csr si diffonde spontaneamente senza la necessità di imporla per legge. Ad esempio, attualmente, la diffusione della ISO 9001 afferente la qualità è talmente 37 ampia che in Italia e in Europa, per alcuni settori, è diventato un requisito indispensabile per accedere a concorsi pubblici (appalti e bandi). Se i vantaggi della confrontabilità sono innegabili, vi è però anche un rovescio della meda glia. Nelle azioni di Csr standardizzate fin qui viste, risulta preminente la volontà di garantire ai vari soggetti implicati con la vita aziendale un livello di tutela dei diritti più elevato di quello imposto dalle norme vigenti. In tal modo però la Csr si attua solo in “negativo”, nel senso di rappresentare un mero vincolo morale alle decisioni imprenditoriali, un divieto ad operare arrecando un danno diretto o indiretto ai soggetti interni o esterni meno tutelati. Questa omologazione delle pratiche etiche va stretta al concetto di Csr, lo appiattisce e svili sce. La conseguenza è la diffusione di una responsabilità senza passione e senza valore, una respon sabilità globalizzata e spersonalizzata. Ma la Csr può spingersi al di là degli obblighi di non fare. Dovrebbe, anzi, essere sostenuta da una creatività socio-competitiva, dovrebbe cioè concentrare i suoi sforzi nella ricerca di soluzioni innovative atte a soddisfare in misura sempre maggiore le attese di uno o più gruppi di portatori di interessi, creando valore condi viso. Un simile modus operandi è stato definito Creating Shared Value (CSV) dal Michael E. Porter in alcuni articoli apparsi sulla Harvard Business Review, in particolare quello di gennaio 2011 intitolato Creating Shared Value: Redefining Capitalism and the Role of the Corporation in Society. Negli esempi che Porter cita, troviamo imprese che, operando in settori molto diversi, interpretano la Csr con progettualità originali, la contestualizzano, la adattano in modo creativo alle particolari esigenze del proprio business. Ciò che le accomuna è soltanto la valorizzazione del know-how dell'impresa e la riconfigurazione delle relazioni lungo la catena del valore con il sostegno all'imprenditorialità e allo sviluppo economico locale. Confrontabilità e contestualizzazione sembrerebbero all'apparenza due strade opposte per il perseguimento dell'eticità ma, in realtà, sono tra loro conciliabili, in quanto rappresentano esigenze complementari e da soddisfare in contemporanea per garantire il successo di una strategia di Corporate social responsibility. Sembrerebbe quindi che l'unica strada praticabile sia pensare una Csr “a due velocità”, per tenere assieme innovazione e confrontabilità. La prima velocità, Csr Risk Mitigation, è quella che tramite forme di certificazione volontaria deve assicurare la riduzione e il controllo dei rischi: violazione delle leggi, offesa della dignità del le persone, disinformazione per i consumatori, etc. È una Csr minimale ma fondamentale, che richiede presidi organizzativi e processi tipici delle funzioni di controllo. La seconda velocità, Csr Shared Value, è quella che crea occasioni di sviluppo per l'impresa e i suoi stakeholder, 38 che permette di aumentare tanto la sensibilità nei loro confronti, quanto la competitività e la velocità dei processi di innovazione. È una Csr più creativa, che coinvolge le funzioni di stra tegia e sviluppo, opera per macro progetti e richiede risorse dedicate e originalità. I.2.4 Il Corporate giving I.2.4.1 Panoramica Il Corporate giving, che in italiano suona come “elargizioni d'impresa”, è un sistema di strumenti socialmente responsabili che consistono nelle più svariate forme di liberalità e donazione attivabili da un'impresa, tramite le quali sono raccolti ed erogati fondi a favore di orga nizzazioni e iniziative a favore di una causa sociale o ambientale. Il termine Corporate giving è talvolta utilizzato in letteratura anche come sinonimo di C orporate philanthropy. In questa sede, per maggiore chiarezza, riteniamo opportuno utilizzarlo come concetto comprendente tutte le forme di donazione aziendale, facendo riferimento a quanto espresso da D. Burlinga me, direttore esecutivo del Center on Philanthropy dell'Università dell'Indiana, nell'editoriale della rivista International Journal of Nonprofit and Voluntary Sector Marketing : «This new paradigm of corporate giving recognizes multiple forms of giving by companies as vehicles for both business goals and social goals». Le iniziative di Corporate giving sono state accolte con estremo favore da parte delle ONLUS, le quali possono ricavarne numerosi vantaggi quali: possibilità di attivare programmi di raccolta fondi caratterizzati da costi di realizzazione ridotti; possibilità di sfruttare nuovi canali di comunicazione; per quanto riguarda le organizzazioni non profit poco note, le iniziative di co-marketing con le aziende consentono di incrementare la brand awarness e promuovere la propria causa sociale; relativamente invece alle organizzazioni non profit che godono di un ampia notorietà, si presenta il vantaggio di creare partnership attraverso iniziative di licensing, ot tenendo un contributo per la concessione del logo; 39 consente di incrementare il database dei donatori e dei potenziali donatori; consente di raggiungere nuovi target (soggetti normalmente meno sensibili alle tematiche sociali e meno propensi ad effettuare donazioni); possibilità di utilizzare le competenze manageriali di gestione del settore profit ed acquisirne le metodologie. I primi programmi di “marketing sociale” furono realizzati negli Stati Uniti negli anni Cinquanta. Da allora si è assistito ad un'evoluzione continua di tale concetto, riguardo tanto alle modalità di intervento a sostegno di una causa sociale, quanto alle motivazioni all'origine di tali azioni. Oggigiorno esistono numerosi sistemi con cui un'azienda può contribuire ad una causa sociale, e il Corporate giving ha assunto molteplici sfumature al fine di consentire sem pre l'efficace integrazione tra obiettivi etici e imprenditoriali. Di seguito sono descritte brevemente le principali espressioni di Corporate giving. I.2.4.2 Cause related marketing e simili Il Cause related marketing, o Crm, è un sistema di attività a sfondo etico imperniato sulla funzione marketing, atto alla realizzazione di campagne promozionali facendo leva sul parallelo sostegno a una causa di interesse collettivo. La maggior parte della letteratura internazionale lo definisce come quell'attività imprenditoriale etica in cui la donazione, da parte dell'azienda verso un ente non profit, è subordinata all'acquisto di un prodotto o servizio da parte del consumatore. È inoltre necessario che la causa sociale prescelta sia coerente con le finali tà di tipo etico-socio-ambientale di cui l'impresa si fa carico, essendo, il Crm, uno strumento pensato come parte integrante di un piano strategico atto al loro perseguimento. Bisogna fare attenzione a tenerlo ben distinto dal cosiddetto social marketing che, come definito da Philip Kotler, l'inventore di tale espressione, consiste nell'impiego dei principi e degli strumenti del marketing al servizio di cambiamenti sociali che migliorino la qualità della vita, diffondendo e promuovendo idee e soluzioni per problematiche collettive. Il contributo alla causa può avvenire secondo modalità differenti, riconducibili a due approcci fondamentali: il sostegno fornito a uno o più enti non profit, la cui missione abbia valenza sociale, o un'azione volta a intervenire direttamente in merito a determinati 40 problemi/bisogni, mobilitando risorse di varia natura (più spesso somme di denaro, ma anche prodotti/servizi, conoscenze, tempo dei propri collaboratori, ecc.). Data la virtuosità dei suoi scopi e valori fondanti, il Crm rientra di diritto nel novero degli strumenti di impegno etico a disposizione di un'impresa per implementare una moderna Corporate social responsibility e, tra questi, si rivela quello di gran lunga più utilizzato. Due sono i motivi che più di tutti hanno favorito la sua elevata diffusione. Innanzitutto è lo strumento di Csr a cui i benefici che ne trae l'impresa in termini di redditività dell'investimento, sono maggiormente correlati, prevedibili e misurabili, essendo direttamente deducibili dalle previsioni di vendita del servizio o prodotto oggetto di Crm. Secondo fattore che gioca a favore di questa pratica è la diffusione del cosiddetto consumo responsabile. L'accresciuta sensibilità delle persone verso questioni etiche, la maggiore consapevolezza nei consumatori del peso che le loro scelte d'ac quisto hanno sulla società e sull'ambiente, li spinge a orientare le loro scelte d'acquisto in base all'impegno sociale e ambientale dell'azienda produttrice. Esempi emblematici delle con seguenze di tale fenomeno sono l'incremento dei casi di boicottaggio nei confronti di imprese accusate di comportamenti lesivi nei confronti di un qualche tema sociale o ecologico e la diffusione del commercio equo e solidale. Se, da una parte, questo nuovo atteggiamento comune a un numero crescente di persone funge da incentivo naturale all'adozione di comportamenti imprenditoriali più corretti, dall'altra però si insinua il sospetto gli utenti siano affetti da una tendenza al facile coinvolgimento, con conseguente eccessiva manipolabilità nei comportamenti di acquisto. I consumatori appaiono propensi a premiare ogni impresa che sviluppi una qualsiasi campagna di Crm, senza avere la capacità di distinguere tra quelle che le adottano in quanto strumento strategico di supporto al serio perseguimento di finalità etiche, e quelle che usano il Crm in modo blando e opportunistico, rendendolo un espediente di facciata atto al quasi esclusivo perseguimento di obiettivi di natura commerciale. Così sovente assistiamo ad un abuso di campagne promozionali a sfondo sociale a causa di imprese che le impiegano come mere operazione di marketing di breve periodo non integrate in una più ampia strategia imprenditoriale con obiettivi etici. Quando usato in questo modo tattico e strumentale, il Crm ne risulta banalizzato e svilito, esponendo la Csr stessa alle facili critiche di chi la osteg gia considerandola un comportamento "alla moda", superficiale e ipocrita, ben lontano dall'essere un efficace strumento per un positivo cambiamento sociale. In una valida campagna di Crm dovrebbero infatti essere compresenti ed equivalersi sia uno o più obiettivi di natura commerciale (ad esempio il miglioramento della reputazione azien- 41 dale, il posizionamento della marca, l'incremento della quota di mercato e lo sviluppo delle vendite), sia l'obiettivo di fornire un serio contributo e sincero aiuto a una causa di interesse collettivo. Per questo, volendo inquadrare in un contesto più ampio la natura, l'essenza del Crm, possiamo affermare che si tratta di uno strumento posizionato a metà strada tra due pratiche diametralmente opposte tra loro: la filantropia aziendale da una parte, dove i benefi ci sono del tutto sbilanciati a vantaggio di chi riceve la donazione, e la normale attività di promozione delle vendite dall'altra, dove il valore creato è esclusivo appannaggio dell'impresa. Il Crm rappresenta quindi una sorta di ibridazione tra questi due modelli. La logica di fondo di una campagna di Crm consiste, in pratica, nell'approccio win-win, per cui tutte le parti coinvolte nell'iniziativa godono equamente di un muto beneficio in termini di pari valore creato a loro favore. Della stessa famiglia del Crm sono altri tre tipi di iniziative di Corporate giving: il licensing, la joint promotion e il joint fund raising . Il licensing, o concessione del logo, consiste nel permesso accordato dall'organizzazione non profit per l'utilizzazione del proprio marchio in cambio di un corrispettivo. In questo caso, la donazione non è connessa al volume delle ven dite, così come avviene nelle iniziative di Crm. In genere, prevede un accordo tra le parti in cui si stabilisce l'importo della donazione e le conseguenti modalità di utilizzo del logo. La joint promotion è, invece, un'operazione che si incentra sull'utilizzo del prodotto come mez zo per la trasmissione del messaggio o della causa sostenuta dall'ente non profit. In questo tipo di partnership, dunque, l'azienda non sostiene la causa attraverso un contributo econo mico diretto, ma offre la sua disponibilità a veicolare il messaggio per la raccolta fondi. L'azienda può scegliere se contribuire esclusivamente con la diffusione del messaggio o parteci pare anche ai costi di produzione del materiale necessario (stampa pieghevoli, pubblicità ecc.). Infine, mancante di una correlazione col volume delle vendite è anche il joint fund rai sing, mediante il quale l'azienda sostiene la raccolta fondi per la causa dell'organizzazione non profit ponendosi come intermediario tra i propri utenti e l'ente. Questa tipologia di attività è realizzata principalmente da aziende fornitrici di servizi, come ad esempio gli istituti di credito, che per loro natura di intermediatori finanziari si prestano alla raccolta di fondi. 42 I.2.4.3 Filantropia aziendale La Filantropia aziendale è la forma più semplice di Corporate giving, non necessitando di un previo accordo tra le parti. Inizialmente, per Filantropia d'impresa si intendeva "una donazione di pura beneficenza da parte di un'azienda, generalmente a favore di un'organizzazione non profit, eseguita senza alcun tornaconto per l'impresa" (Ireland & Johnson, 1970). In passato, infatti, soprattutto nella realtà economica degli Stati Uniti, molte aziende contribuivano in modo significativo al benessere della loro comunità supportando e finanziando pro getti di organizzazioni senza scopo di lucro, prescindendo da fini imprenditoriali. Oggi, invece, la donazione effettuata da un'azienda è, nella maggior parte dei casi, parte integrante di una più ampia strategia imprenditoriale e l'obiettivo dell'azienda è quello di bilanciare offerte altruistiche e donazioni strategiche. Per identificare questa nuova forma di Filantropia aziendale, sono stati introdotti termini come Strategic corporate philanthropy o Global corporate philanthropy (Collins, 1993). Con tali espressioni ci si riferisce al supporto offerto da parte di un'azienda ad una causa sociale o ad un ente non profit attraverso un puro contributo mone tario diretto, perseguendo, in parallelo, un obiettivo economico come l'accreditamento della propria eticità e il miglioramento della propria reputazione verso gli stakeholders e il merca to. Sovente, alcune aziende, soprattutto multinazionali, che raggiungono elevati livelli di Cor porate social responsibility, piuttosto che sostenere organizzazioni non profit indipendenti, preferiscono istituire una propria fondazione, a cui trasferire sia risorse finanziarie che l'eventuale know-how acquisito in materia. Tali enti nascono, quindi, quando l'impresa decide di “esternalizzare” il proprio agire filantropico attraverso la creazione di quelle che vengono chiamate fondazioni di origine imprenditoriale , o, con termine anglofilo, corporate foundations. La funzione primaria di questo tipo di enti è quello di effettuare una ridistribuzione sociale di una parte del valore economico-finanziario prodotto dall'impresa che le fonda, assol vendo così a quello che è il compito principale e fine ultimo della Csr quale mezzo per ridefi nire il ruolo dell'impresa, da soggetto creatore di profitto a soggetto creatore, in senso allargato, di ricchezza. 43 I.2.5 Sostenibilità ambientale I.2.5.1 L'avvento di un problema La Commissione Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo, all'interno de Il futuro di noi tutti, ha definito lo sviluppo sostenibile come «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri». La tematica ambientale, per quanto siano evidenti fin da ora gli effetti disastrosi dovuti all'averla trascurata, è quella dove la preoccupazione per l'evoluzione futura delle attuali circostanze occupa un posto predominante. Ipotizzando di poter separare del tutto la questione sociale da quella ambientale e di poterle paragonare, emerge tra loro una differenza sostanziale: mentre la prima è vecchia quanto la civiltà umana, la seconda è storia recente. Questo perché differente è il loro modo di evolversi nel corso della storia. La società civile è un fenomeno umano che, fin dagli albori, pre senta enormi problemi congeniti, difetti sistemici e innati; ma al contempo, osservando la sua evoluzione cronologica, sembrerebbe presentare anche una, seppur molto debole, tendenza al miglioramento. Essendo quindi la nostra civiltà storicamente e fisiologicamente problematica (passibile anche di peggiorare indeterminatamente), il comportamento etico ottimo nei confronti della società umana è quello che si batte per il suo miglioramento continuo, in vista del raggiungimento di uno stato di armonia e benessere superiore a quello immediatamente precedente. Al contrario, gli ecosistemi di tutto il mondo, che in aggregato formano l'ecosistema terrestre, cioè la biosfera, hanno sempre funzionato e mutato nel tempo senza correre il rischio di autodistruggersi; attraversando sì periodi di sconquasso, ma riuscendo volta a ritrovare un funzionale equilibrio sia tra loro che al loro interno, un equilibrio né meglio né peggio di quello del periodo che l'ha preceduto. Quindi, l'attuale degrado ambientale non è qualcosa di intrinseco alla natura ma si tratta di una situazione artificiale, prodotta dall'uomo, in particolare dall'avvento dell'era industriale in poi. Per questo motivo le azioni responsabili in campo ambientale si contraddistinguono non per il loro mettere in moto un miglioramento costante, ma per il loro mirare al ripristino di una situazione che, di per sé, non era problematica, puntando al raggiungimento nel futuro 44 dell'equilibrio andato perso. Esse rappresentando perciò l'esempio più calzante del termine sostenibile. Termine costantemente affiancato dalle espressioni a impatto zero e rinnovabile. In questo senso la cosa più virtuosa che un'impresa possa fare, ecologicamente parlando, è non lasciare sul mondo nessuna traccia del suo passaggio. Anche se si tratta di un proposito utopistico, le imprese oggi hanno comunque validi strumenti per incidere positivamente in materia ecologica. La storia della questione ecologica con i suoi protagonisti, la complessità degli ambiti in cui si articola (cambiamenti climatici, inquinamento e salute, biodiversità, distruzione delle risorse naturali), sono temi troppo vasti per poter essere adeguatamente argomentati in questa sede e una rappresentazione schematica comunque non renderebbe giustizia alla loro ricchezza. D'altronde, ai fini della presente trattazione, non preme tanto addentrarsi tra le varie sfaccettature del problema ambientale quanto concentrarsi su: la dinamica sociale del suo affioramento; gli strumenti che un'impresa ha a disposizione per arginarlo. Riguardo al primo punto è utile cominciare rimarcando l'immane rilevanza che il problema ha assunto oggigiorno. Per rendersene conto basti pensare quanto l'attenzione (ormai quasi maniacale) all'impatto ambientale influenzi le nostre scelte in ogni ambito della vita quotidiana fin nelle sue manifestazioni più elementari. Tanto più ne è pervasa, per le pesanti conse guenze che comportano le loro azioni, la vita delle istituzioni, e delle imprese, quest'ultime sovente additate dall'opinione pubblica e da chi la fomenta come le uniche responsabili del degrado. Per quanto sia deprecabile l'abitudine a usarle come capro espiatorio di tutti i mali del mondo, non si può negare quanto esse svolgano un ruolo predominante nel contribuire al progressivo inasprimento delle problematiche ambientale. Gli enti economici, infatti, quando non pongono deliberatamente in atto azioni che, in modo più o meno diretto, provocano un danno ecologico, rimangono comunque fautori e rappresentanti simbolici dell'attuale sistema economico dominante; e quest'ultimo è ritenuto colpevole di aver strutturato l'odierna società civile sull'imperativo di una crescita continua il cui motore è una cultura produttivistica e consumistica (che concepita in modo fondamentalista si rivela deleteria per l'uomo e la natura), rinunciando alla quale però, ormai la nostra stessa civiltà entrerebbe in crisi collassando su di sé. Tale sistema ha basato il funzionamento della società tutta sul classico ciclo produttivo (estrazione delle materie prime – loro trasformazione per la realizzazione del bene – distribuzione – consumo – smaltimento) ipotizzandolo come un modello replicabile all'infinito e con intensità sempre crescente. La storia recente dimostra come tale modello nel lungo pe - 45 riodo tenda invece a entrare in cortocircuito se usato in modo sregolato. Ciò è dovuto a vari motivi tra cui i più rilevanti, in tema di ambiente, sono la scarsità delle materie prime e delle fonti energetiche tradizionali (petrolio, gas, carbone); l'incapacità del mondo, in quanto sistema finito, di assorbire all'infinito le tipiche esternalità negative dei processi produttivi come i vari tipi di inquinamento; l'insostenibilità di una illimitata accumulazione dei residui dei beni consumati, cioè i rifiuti, per loro natura né stoccabili, né del tutto eliminabili senza che si producano danni non indifferenti a noi e all'ambiente, né completamente reimmettibili nel ciclo produttivo sotto forma di materia prima riciclata. Il sistema economico-civile, lungi comunque dall'essere a rischio di un imminente collasso, una volta presa coscienza della propria insostenibilità sistemica nel lungo termine, volente o nolente ha dovuto cercare di rimediare, ripensando i paradigmi di riferimento della cultura economica e ideando soluzioni per invertire la tendenza e non soccombere a se stesso. Dato un simile contesto, i movimenti ecologisti cominciarono a diffondersi dopo il '68, sten tando tuttavia a raccogliere il consenso di massa dell'opinione pubblica e non riuscendo a ot tenere una rappresentanza politica autonoma. A livello mondiale è solo negli anni Settanta che il problema dell'inquinamento prodotto dallo sviluppo industriale assunse una notevole rilevanza politica e sociale. Contribuì notevolmente a richiamare l'attenzione su questo tema il Rapporto sui limiti dello sviluppo , pubblicato dal Club di Roma nel 1972 e accolto dovunque con grande interesse. Nello stesso anno vide la luce in Australia il primo "partito verde", il cui esempio sarà seguito l'anno dopo da un partito britannico e quindi da altri partiti nel Nord Europa (in Italia il primo partito verde è del 1985). Così, a partire dagli anni Settanta, man mano che i problemi ecologici riconducibili all'agire economico hanno cominciato a manifestarsi in tutta la loro drammaticità, la tutela dell'ambiente è diventata un tema ricorrente del dibattito politico ed economico anche a livello par lamentare. Al contempo abbiamo assistito all'incontrollato aumento della pressione mediatica sul tema e al proliferare di lobby, associazioni dei consumatori, organizzazioni non gover native, enti pubblici, consigli e organi sovranazionali, tutti intenti a sviscerare il problema e a legiferare, cercando di creare una regolamentazione per la sua corretta gestione. Il mondo dell'economia, sull'onda di questi cambiamenti, non ha potuto far altro che adeguarsi, riuscendo talvolta, come nel caso delle imprese che attuano la Csr, a farsi egli stesso promotore della sostenibilità ambientale e a non essere più solamente follower, arrivando fino al punto 46 di trovare il modo di fare affari con l'ambientalismo tramite la creazione di un nuovo busi ness (la cosiddetta green economy). I.2.5.2 Le soluzioni adottate La Corporate social responsibility applicata all'ambiente implica un vero e proprio percorso dell'impresa attraverso l'eco-consapevolezza e verso l'eco-compatibilità . In sintesi, il processo di autoregolamentazione che un'impresa deve seguire se vuole definirsi “verde”, parte dal controllo e dal monitoraggio del proprio impatto ambientale; prosegue con l'attuazione di soluzioni di compatibilità ecologica; si chiude, e si autoalimenta, con la valutazione dei traguardi ecologici raggiunti e la loro valorizzazione nei confronti del pubblico. Ecco, dal punto di vi sta operativo, tramite quali strumenti un'azienda può definirsi ecologicamente sostenibile: l’audit ambientale, l’EMAS, il bilancio ambientale, il rapporto ambientale, i marchi di qualità e gli accordi ambientali. Per un'azienda che voglia conoscere e controllare le implicazioni di tipo ambientale legate alla propria attività, l'audit ambientale costituisce uno degli strumenti più efficaci per individuare in modo puntale le criticità esistenti e per stimare la tipologia degli interventi migliora tivi da realizzare. Il processo di verifica, sistematica e documentata, implicito nell'attività di auditing, ha difatti lo scopo di valutare, attraverso la raccolta di dati oggettivi, se le attività imprenditoriali siano conformi a predeterminati requisiti, fissati a monte del processo. L'audit ambientale non è soltanto lo strumento principale per verificare il funzionamento e l'adeguatezza dei sistemi di gestione ambientale dell'impresa, potendo difatti rivelarsi utile anche per applicazioni più generali come la valutazione del livello di applicazione da parte di un'a zienda della normativa vigente (compliance audit); per la richiesta di coperture assicurative (audit di rischio); per la valutazione dell'affidabilità di fornitori o partner strategici (audit dei fornitori). L'audit ambientale trova nella norma ISO 14001 un ottimo modello standard di riferimento e un mezzo di attestazione della sua qualità. L'EMAS (Eco Management and Audit Scheme), istituito con regolamento della Comunità Europea, è un'iniziativa ad adesione volontaria mirante a migliorare la performance ambientale delle imprese chiedendo loro di andare oltre i requisiti minimi legali in un'ottica di costante ottimizzazione. Più precisamente, il sistema EMAS si propone di stimolare il miglioramento 47 delle prestazioni ambientali delle imprese tramite la diffusione al pubblico di informazioni sulla loro eco-sostenibilità e sulla valutazione periodica dell'efficacia dei loro sistemi di ge stione ambientale. La comunicazione funge sia da meccanismo incentivante, premiando chi si dimostra virtuoso su quel fronte, nonché da mezzo di dialogo con gli stakeholder e di partecipazione attiva dei dipendenti. È proprio la pubblicazione volontaria dell'informativa ecologica, denominata Dichiarazione ambientale, che dà ad EMAS ed alle imprese che partecipano credibilità e reputazione sul mercato. Il bilancio ambientale, o ecobalance, è uno strumento di rendicontazione sociale. Solitamente è la parte di bilancio sociale incaricata di rappresentare, in maniera organica, le interrela zioni tra l'impresa e l'ambiente, attraverso una rappresentazione quantitativa e qualitativa dell'impatto ambientale, delle sue attività caratteristiche e dello sforzo economico sostenuto per la sua gestione e riduzione. L'ecobalance è uno strumento fondamentale per la gestione della responsabilità sociale di un'impresa, perché mette in luce in materia organica il suo grado di attenzione ecologica. Ciò vale in particolare per le cosiddette passività ambientali “oc culte” che possono così emergere sul piano formale, rendendo effettiva e trasparente la situazione dell'impresa e l'eventuale responsabilità degli amministratori. Il rapporto ambientale, da non confondere col bilancio, è un altro strumento volontario di estremo rilievo ai fini di una seria attuazione della Csr. Si tratta, in sostanza, di una comuni cazione, libera nella forma e nel contenuto, con cui l'impresa decide di trasmettere all'esterno le proprie politiche ambientali. Il rapporto ambientale rappresenta la testimonianza concreta dell'impegno dell'impresa e offre l'opportunità di comunicare a tutti gli stakeholder di riferimento i valori che ispirano i suo agire ecologico, i progressi e i risultati raggiunti, e le pro spettive future dell'impegno ambientale della singola impresa. L'informazione ai consumatori sui risvolti ecologici dei processi produttivi costituisce non solo uno strumento di Csr, ma anche, e soprattutto, un diritto degli utenti che trova fondamento negli articoli del Trattato CE (artt. 3, comma 1, lettera f, e 153 del Trattato). La disciplina del sistema comunitario di assegnazione di un marchio di qualità ecologica è dettata, in particolare, dal regolamento 1980/2000/CE e dal regolamento del Consiglio (CEE) n. 1836/93, riguardante il sistema comunitario di ecogestione ed audit EMAS. Esemplare è l'iniziativa Ecolabel, il primo strumento informativo predisposto dalla Comunità Europea per influenzare il comportamento dei consumatori e dei produttori. Si tratta di un marchio di qualità eco- 48 logica, assegnato ai prodotti migliori dal punto di vista della compatibilità ambientale, trasparente e credibile, in quanto verificato in maniera indipendente. Appare d'altro canto evidente la differenza tra la certificazione EMAS o ISO ed i marchi di qualità ecologica. Mentre la certificazione ambientale ha l'obiettivo immediato di migliorare la gestione delle imprese, il marchio ecologico, pur basandosi sulla premessa che la produzione sia perfettamente coerente alle norme ambientali, ha lo scopo principale di incidere direttamente sui comportamenti dei consumatori e sulla consapevolezza di quest'ultimi. L'accordo ambientale rappresenta un contratto stipulato tra un soggetto economico e uno o più soggetti pubblici istituzionali (Commissione Europea, Ministeri dell'Ambiente o dell'Industria, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio, Università, ecc.), al fine di tutelare l'ambiente. Integra la normativa vigente fissando obiettivi più ambiziosi legati alle particolari condizioni di un'impresa ed è, per questo, uno strumento innovativo di politica ambientale. Gli accordi ambientali, oggetto della specifica comunicazione della Commissione Europea del 17 luglio 2002 Gli accordi ambientali a livello di Comunità nel quadro del piano d'azione "Semplificare e migliorare la regolamentazione", sono pratiche di autoregolazione di carattere sussidiario, non vincolanti. Solitamente l'iniziativa dell'accordo è lasciata alle parti stesse. La Commissione europea, nella propria comunicazione, è chiara nell'affermare che gli accordi volontari devono offrire un effettivo valore aggiunto circa il livello di tutela dell'ambiente. L'accordo volontario in materia ambientale è quindi una pratica di Csr di stampo creativo. Ol tre ai benefici ecologici, numerosi sono anche i vantaggi che l'utilizzo degli accordi volontari può comportare per le imprese: la possibilità di evitare o ritardare una regolamentazione coercitiva; l'opportunità di influenzare lo sviluppo della regolamentazione; il miglioramento dell'immagine e della posizione competitiva; l'individuazione di soluzione tecnologiche innovative; la motivazione del personale. 49 I.2.6 Il bilancio sociale I.2.6.1 La Triple bottom line Mario Viviani, nel suo libro Specchio magico del 1996 offre una definizione di bilancio sociale tanto suggestiva quanto azzeccata, presentandolo «come lo specchio che riflette una si tuazione e fa riflettere sulla stessa». Tecnicamente, il bilancio di responsabilità sociale è un documento, frutto sempre di una scelta volontaria, contenente informazioni quali-quantitative sulle operazioni svolte dall'organizzazione. Documento che aziende ed enti decidono di pubblicare a beneficio di tutti i propri stakeholder per renderli consapevoli dell'impatto che l'azienda e le sue iniziative hanno sul piano ambientale e sociale. Il bilancio sociale si ispira infatti al criterio detto Triple bottom line, secondo il quale al classico bilancio d'esercizio che fornisce una rappresentazione dell'impresa limitatamente alla sua sostenibilità finanziaria ed economica (capacità di adempiere agli obblighi finanziari, di generare fatturato, profitto e lavoro), è necessario affiancarne uno che renda conto delle azioni dell'ente in materia di sostenibilità sociale (capacità di garantire condizioni di benessere e di crescita equamente distribuite nel rispetto dei diritti umani e dei lavoratori) e di sostenibilità ambientale (capacità di salvaguardare le risorse naturali e di minimizzare gli impatti sull'ecosistema). Dietro a questa elementare definizione, si nasconde però una realtà assai composita e complessa, che rivela quanto il bilancio sociale sia molto di più di un semplice strumento contabi le. In questo senso, a ben vedere, le due stesse parole, "bilancio" da una parte e "sociale" dal l'altra, esprimono due concetti che in teoria non potrebbero stare insieme. La prima parola è figlia della quantità, del razionalismo, della ragioneria; la seconda, invece, è figlia della qualità, dei sentimenti, della creatività. L'accostamento stesso dei due termini dà vita come a un impulso, a un'immagine astratta fonte di slancio culturale. Solo in un secondo momento assume anche una valenza tecnica. Molto spesso, purtroppo, è presente solo il secondo elemento senza che in parallelo sia realizzato anche quel salto culturale necessario. Il bilancio sociale, infatti, se osservato in una prospettiva dinamica, si può definire anche come un processo, o, più precisamente, come l'ultimo atto di un processo non solo di rendicontazione dove, passo dopo passo, si costruiscono gli strumenti di rilevazione e si innescano i cambiamenti orga- 50 nizzativi necessari alla costruzione di una dialettica continua con gli stakeholder interni ed esterni. Andiamo ora ad analizzare meglio questo concetto. Le aziende, davanti al Codice Civile, ai principi contabili di rendicontazione e ai modelli standard di bilancio, appaiono tutte formalmente uguali. Ma ciò che le davvero le differenzia è nella la sostanza di quelle imprese, sono cioè i valori che le ispirano, la cultura aziendale che hanno accumulato, i risultati ottenuti, quest'ultimi letti non solo con il "pallottoliere" dell'azionista, ma con la contabilità della felicità, della sicurezza, della fiducia dei tanti attori di versi che sono parte integrante del tessuto sociale ed economico cui le aziende stesse appartengono: clienti, fornitori, dipendenti, comunità locali, sindacati, ONLUS, enti pubblici. Tutte rispettano, o almeno si spera, le leggi, tutte pubblicano i bilanci fatti secondo gli stessi princi pi, tutte ricevono dalla società e contribuiscono alla società in cui operano, ma tutte contabilizzano di fatto la sola quantità. E la qualità, i sentimenti, l'etica? La maggior parte delle imprese, e non solo le aziende di know-how, dichiarano che il patrimonio più grande di cui dispongono è il personale, i dipendenti e i manager con le rispettive competenze, le attitudini, l'attaccamento e la partecipazione, la creatività, le capacità e le conoscenze; ma stranamente continuano a contabilizzarlo in conto economico come si contabilizza la cancelleria o l'ener gia elettrica: come materiale di consumo, ovvero un semplice costo e non come un reale inve stimento. Nell'attivo delle imprese esiste un asset indispensabile e intangibile senza il quale l'impresa non può operare: la fiducia creata, che aumenta e diminuisce di anno in anno, di giorno in giorno, ma della quale si legge l'effetto solo alla fine dell'esercizio, nell'ultima linea del conto economico, ovvero la bottom line. Il manager di un'azienda si dimette e la quotazione del titolo in borsa scende; un nuovo manager arriva in azienda e il titolo, contabi lizzando la fiducia e le aspettative, sale; uno scandalo coinvolge un prodotto e il titolo dell'azienda che lo produce crolla. Reazioni isteriche e nervose dei mercati oppure è l'effetto di un calcolo ra zionale degli operatori? È, più semplicemente, il frutto della contabilizzazione che avviene "fuori dall'impresa", la contabilizzazione della responsabilità sociale che, nel caso in cui non venga realizzata e gestita all'interno dell'organizzazione e, successivamente, proposta e comunicata all'esterno, finisce per essere solo subita dall'azienda in un drammatico ef fetto leva. 51 I.2.6.2 Il rapporto tra Csr e rendicontazione sociale Quella di avviarsi sulla strada di una rendicontazione aggiuntiva e integrativa dei consueti bilanci di esercizio, focalizzata su responsabilità diverse da quella del presidio degli equilibri economico-finanziari della gestione, non è tuttavia decisione da prendersi alla leggera sulla spinta di mode o dell'ansia di colmare un deficit di consenso sociale. Ciò che viene chiamato in causa, infatti, è nientemeno che il ruolo (o missione) che la singola organizzazione econo mica è chiamata a svolgere responsabilmente nella sfera di autonomia sua propria. Il problema della definizione puntuale di tale ruolo o missione e, ancor più, quello della sua traduzione in decisioni e comportamenti coerenti da parte dei vertici aziendali e di tutti i componenti dell'organizzazione, è tutt'altro che banale, implicando una presa di coscienza profonda delle finalità costituenti la ragione d'essere dell'impresa, del suo posizionamento (attuale e desiderato) nel sistema economico-sociale, dei valori etici ed economici cui esso vuole essere e rimanere saldamente ancorato, dei modelli e politiche atti ad indirizzare i comportamenti concreti in coerenza con strategie e valori prescelti in vista di una piena realizzazione delle finalità. Poiché molte delle aziende che si sono orientate alla responsabilità sociale pubblicano un bilancio sociale, molte altre sono indotte a pensare che sia sufficiente il bilancio sociale per essere socialmente responsabili. Di conseguenza, l'errore che spesso si commette è quello di ac quistare lo strumento credendo di "acquistare" anche la responsabilità sociale, elemento questo che invece non si può comprare, ma che si crea e si interiorizza attraverso un processo che va al di là della semplice funzione di rendicontazione. Senza precise e convinte scelte di campo nella direzione di un orientamento strategico aperto ad una creazione di valore per tutti gli stakeholder, ad una assunzione di responsabilità al di là di quanto le leggi prescrivono, ad una piena comprensione del mandato sociale che fa delle imprese (capaci di soddisfare le attese sia economiche che umaniste che ad esse si rivolgono) dei beni quanto mai preziosi per la società tutta e non per i soli azionisti, senza tutto ciò non avrebbe molto senso intra prendere volontariamente la strada di una rendicontazione sociale. Questa, infatti, priva di un ancoraggio forte a strategie lungimiranti, perseguite con determinazione, ben difficilmente sfuggirebbe ai rischi di una comunicazione frammentaria e, come tale, scarsamente utile e, quel che è peggio, anche tendenziosa e manipolativa, indirizzata ad accreditare un'immagine aziendale che non trova pieno riscontro nei comportamenti reali. 52 Comincia quindi a delinearsi la vera natura della rendicontazione sociale. Essa infatti può costituire un'importante occasione non solo per «divulgare» all'interno e all'esterno la pro pria responsabilità di impresa, ma per gestire le relazioni con gli stakeholders con importanti benefici in termini di definizione e implementazione delle strategie, di ri-allineamento tra va lori aziendali e valori etico-sociali e di correzione della miopia dei tradizionali strumenti di ri levazione aziendale. Solo se usato in questo modo, il bilancio sociale può entrare a pieno tito lo nel novero degli strumenti di Corporate social responsibility. I.2.6.3 Finalità del bilancio sociale Concettualmente il tema della rendicontazione sociale può essere collocato all'interno del più ampio e complesso problema dell' accountability, termine traducibile alla lettera come rendicontabilità, indicante quell'insieme di azioni che svolgono la funzione sociale di “dar conto” (giving accounts) da parte di un individuo o organizzazione a un altro/a. Il termine ac countability quindi richiama almeno due accezioni fondamentali: da un lato, il dovere di dar conto all'esterno e in particolare al complesso degli stakeholders, in modo esaustivo e com prensibile, del corretto utilizzo delle risorse e della produzione di risultati in linea con gli scopi istituzionali (accountability esterna); dall'altro, l'esigenza di introdurre logiche e meccanismi di maggiore responsabilizzazione interna alle aziende e alle reti di aziende relativamente all'impiego di tali risorse e alla produzione dei correlati risultati (accountability interna). Inserito in questo contesto, anche il bilancio sociale è dunque chiamato ad assurgere a due funzioni di base. Internamente all'impresa ha come scopo quello di supportare le decisioni di allocazione e impiego delle risorse con riferimento alle scelte strategiche in ambito so cio-ecologico, di favorire l'apprendimento organizzativo e lo sviluppo di sistemi informativi integrati, di individuare e definire spazi di autonomia dei soggetti e di loro responsabilizzazione sui risultati. Esternamente invece ha come scopo quello di garantire la trasparenza dei risultati, supportare il controllo "sociale" della collettività sulle decisioni di allocazione e impiego delle risorse, sul livello dei risultati economici e non raggiunti, sulla coerenza di questi elementi rispetto alla missione aziendale, migliorando sistematicamente il dialogo con le par ti interessate e la loro opinione nei confronti dell'impresa. 53 I.2.6.4 I modelli di riferimento Non esistono, a differenza di quando si può affermare per il bilancio d'esercizio, dei model li giuridicamente sanciti ed universalmente riconosciuti per la rendicontazione sociale. Allo stato attuale, lo sforzo sia delle istituzioni pubbliche che delle organizzazioni a matrice privata, come associazioni di imprese o consumatori, si incentra sulla possibilità di elaborare degli standard rendicontativi condivisi e come tali applicabili a livello internazionale. Infatti, quanto più il documento segue delle logiche di redazione formalizzate ed uniformi, tanto maggiore è la possibilità di replicare lo strumento nel corso degli anni, sottoporlo a validazioni esterne da parte di organismi certificatori, effettuare confronti nel tempo e nello spazio, esprimere pareri sul livello di informativa e sulle performance sociali illustrate. Il processo di standardizzazione non è però esente da rischi. Il principale è quello che l'applicazione dello standard diventi un'operazione meccanicistica con l'effetto di allontanare la rappresentazione offerta dal bilancio sociale rispetto alla realtà che per suo mezzo si intende evidenziare. In altri termini con un uso nozionistico degli standard, il documento assume una rigidità che con il tempo si trasforma nella freddezza di un rito di cui si perde la motivazione e il significato originario del processo di rendicontazione. Un ulteriore rischio è che col tempo si giunga a una sorta di deresponsabilizzazione, essendo l'utilizzo di uno standard generalmente accettato come una sorta di garanzia ostentabile di obiettività anche se poi nella sostanza ci si è allontanati dalla rappresentazione della realtà aziendale. L'obiettivo e l'impostazione degli standard differisce notevolmente a seconda dell'organizzazione che li ha elaborati, del contesto in cui sono maturati e delle finalità per le quali sono stati emanati. Alcuni di essi si concentrano sulla standardizzazione del processo di redazio ne, altri, invece, anche sulla standardizzazione del documento. In particolare l'obiettivo di questi ultimi non è solo quello di rendere comparabili i bilanci riferiti a periodi differenti e ad aziende diverse, ma soprattutto quello di garantire attendibilità, trasparenza e pubblicità, per consentire a chi legge di comprenderli e di maturare fondati giudizi. Al fine di offrire una panoramica dei vari modelli censiti a livello nazionale e internaziona le, la seguente tabella descrive brevemente gli standard nazionali e internazionali più diffusi. 54 Standard di rendicontazione Breve descrizione Presentati a Roma nel maggio 2001 da un gruppo interdisciplinare composto da esponenti del mondo accademico, professionale e consulenziale, il Gruppo di studio per il bilancio sociale (GBS). Il Gruppo di studio ha individuato una serie di principi di redazione da rispettare nella formazione del bilancio sociale: responsabilità; identificazione; trasparenza; inclusione; coerenza; neutralità; competen- Principi di redazione del bilancio sociale (GBS) za di periodo; prudenza; comparabilità; comprensibilità, chiarezza e intelligibilità; periodicità e ricorrenza; omogeneità; utilità; significatività e rilevanza; verificabilità dell'informazione; attendibilità e fedele rappresentazione; autonomia delle terze parti. I principi GBS si caratterizzano come uno standard che sintetizza modelli ed esperienze nazionali e internazionali. Lo standard di bilancio sociale proposto dal GBS prevede che il documento di rendicontazione sia articolato in tre parti fondamentali: identità distintiva dell'ente; rendiconto (determinazione e distribuzione del valore aggiunto); relazione sociale. Proposto nel 1988 dall'Istituto europeo per il bilancio sociale (IBS), lo standard di bilancio sociale IBS ha ispirato lo standard del GBS e ha subito nel corso degli anni subito numerose evoluzioni e integrazioni. Ad oggi l'attuale schema prevede che il documento di rendicontazione sia articolato nei seguenti punti: 1. Introduzione metodologica Identità Rendiconto di valore Relazione sociale Sistema di rilevazione Proposta di miglioramento Attestazione di conformità procedurale Standard IBS 2. 3. 4. 5. 6. 7. 55 Standard di rendicontazione Breve descrizione Il modello di bilancio sociale di Comunità e Impresa pone al centro di tutta l'a nalisi gli aspetti che riguardano i flussi di risorse e prestazioni scambiati tra impresa e stakeholders. Lo standard prevede che il documento di rendicontazione sia articolato in cinque sezioni: 1. La prima sezione si compone dell'analisi del tessuto economico e sociale in cui si colloca l'impresa e dei valori di fondo che ne guidano la missione. 2. La seconda sezione comprende il prospetto di raccordo tra bilancio civilistico e bilancio sociale. 3. La terza sezione è la principale di tutto il bilancio sociale: si tratta di una dettagliata analisi di tutti gli stakeholders. 4. La quarta sezione riguarda il budget sociale, un documento di previsione in cui si delineano gli impegni e gli investimenti che l'impresa intende attuare in ambito sociale. 5. La quinta sezione contiene l'autovalutazione della qualità sociale dell'impresa, attraverso degli indici di sintesi. Standard di redazione del bilancio sociale di Comunità e Impresa Pubblicate nel 2000 dalla Global Reporting Initiative (GRI), le linee guida sono rivolte ad aziende private e pubbliche e contengono i principi alla base del bilancio e il contenuto specifico per guidarne la preparazione. Per quanto riguarda i Sustainability Reporting Guidelines (GRI) contenuti del documento di rendicontazione sociale, lo standard del GRI individua cinque sezioni: 1. 2. 3. 4. 5. Visione e strategia Profilo dell'organizzazione Governance e sistema di gestione Indice dei contenuti GRI Indicatori di performance 56 Standard di rendicontazione Breve descrizione Elaborato nel 1999 dall'International Council of the Institute of Social and Ethical Accountability (ISSA) e aggiornato nel 2002, lo standard AA 1000 opera una standardizzazione del processo di rendicontazione, definendo i principi e le caratteristiche del sistema di rendicontazione sociale. Alla base di tutto il sistema c'è il principio di inclusione che prevede di considerare le aspirazioni e le necessi- Accountabì1ity 1000 tà degli stakeholders, in tutti i livelli del sistema di rendicontazione, controllo e reporting sociale. Lo standard AA 1000 prevede le seguenti fasi: 1. 2. 3. 4. 5. Pianificazione Rendicontazione Controllo e reporting Integrazione Coinvolgimento degli stakeholders Presentato per la prima volta nel 1999 al "Building Stakeholder Relations – The Third International Conferente on Social and Ethical Accounting, Auditing and Reporting" costituisce un tentativo particolarmente risuscito di standardizzare il processo per la costruzione di una solida relazione con gli stakeholders e un processo di rendicontazione sociale. La Copenhagen Charter si articola in otto fasi distinte: Copenhagen Charter 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. Decisione dell'Alta Direzione di creare una relazione con gli stakeholders Identificazione degli stakeholders chiave Costruzione di un dialogo permanente Individuazione degli indicatori Monitoraggio Identificazione di azioni di miglioramento Predisposizione, verifica e pubblicazione del resoconto Consultazione degli stakeholders 57 Una volta scelto lo standard a cui attenersi e identificati tutti gli stakeholder in gioco, nella rappresentazione dei risultati raggiunti assume particolare rilievo l'individuazione di oppor tuni indicatori di efficacia necessari alla corretta misurazione degli impatti delle attività da ri proporre in chiave sociale. Nello specifico, la valutazione dell'efficacia avviene prendendo in esame sia i risultati dell'attività quantificati attraverso l'osservazione diretta degli esiti prodotti (output), sia gli impatti generati dalle decisioni dell'organizzazione nel contesto sociale ed ambientale di riferimento (outcome). Secondo questa impostazione, gli outcome, principa le oggetto di attenzione in questa sede, rappresentano dunque trend misurabili solo nel medio-lungo periodo, che sono rilevati avvalendosi dell'osservazione degli esiti indirettamente prodotti su variabili anche eterodipendenti (quali il tasso di disoccupazione, il tasso di inquinamento, il tasso di natalità, ecc.). Dato che talvolta gli argomenti trattati mal si prestano ad essere quantificati, sono stati elaborati anche molteplici indicatori di natura qualitativa e, spesso, descrittiva. Spetta insomma a ciascuna organizzazione il difficile compito di individuare il set di indicatori in grado di rappresentare al meglio i risultati ottenuti e gli impatti sociali e ambientali prodotti in ciascuna delle macro-aree di intervento oggetto di rendicontazione, al fine di attenersi al percorso di standardizzazione del modello di misurazione pre scelto nel rispetto delle peculiarità insite in ogni realtà imprenditoriale. 58 59 CAPITOLO II RESPONSABILITÀ DELLA OLIVETTI DELL’INGEGNER ADRIANO 60 II.1 Introduzione II.1.1 Storia della Olivetti Spa e biografia di Adriano Olivetti in breve II.1.1.1 Gli inizi Nel 1868, il 13 agosto nasce a Ivrea Camillo Olivetti. Laureatosi in ingegneria elettronica, dopo due viaggi studio negli Stati Uniti, torna in Italia e fonda a Ivrea una piccola ditta deno minata “C.G.S.” (Centimetro, Grammo, Secondo), per la costruzione di strumenti elettrici di misurazione, che in parte lui stesso disegna e brevetta; anche la fabbrica in mattoni rossi co struita per ospitare l'officina è frutto di un suo progetto. L'11 aprile del 1901 viene alla luce, sempre a Ivrea, Adriano Olivetti. Il 29 ottobre 1908 Camillo, utilizzando la piccola fabbrica in mattoni rossi, fonda a Ivrea la "Ing. C. Olivetti & C.". Dopo quasi tre anni di studi e progetti, presenta il primo modello di macchina da scrivere, la M1, all'Esposizione Universale di Torino del 1911. Inizia così la grande avventura della prima fabbrica nazionale di macchine per scri vere. Camillo Olivetti affronta il mercato aprendo filiali (le prime, nel 1913, a Milano, Genova, Roma e Napoli) e affidando la grafica pubblicitaria ad artisti affermati. Dopo un rallentamento negli anni della Guerra del ‘15-‘18 (in cui l'Olivetti produce anche materiale bellico sofisticato), si propongono nuovi modelli di macchine per scrivere e crescono anche le esporta zioni. Finita la guerra, Adriano frequenta il Politecnico di Torino laureandosi in chimica indu striale. Nel 1924 inizia un breve apprendistato nella ditta paterna come operaio. L'anno se guente, accompagnato dal Direttore Tecnico dell’azienda, l’ex operaio Domenico Burzio, compie un viaggio di studi negli Stati Uniti, dove conosce la letteratura economica statuni tense e visita numerose fabbriche. Al ritorno, propone un vasto programma di interventi per modernizzare l'attività della Olivetti: organizzazione decentrata, direzione per funzio ni, razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in Italia e all'estero e più tardi, nel 1931, creazione di un Servizio Pubblicità, che fin dagli inizi 61 si avvale del contributo di importanti artisti e designer. La nuova organizzazione contribuisce ad aumentare in modo significativo la produttività della fabbrica e le vendite dei prodotti. Adriano Olivetti avvia anche il progetto della prima macchina per scrivere portatile che esce nel 1932 con il nome di MP1. Alla fine di quell’anno (lo stesso in cui la Olivetti diventa società anonima) è nominato Direttore Generale e nel 1938 diventa Presidente, subentrando al padre Camillo. Gli anni trenta vedono l'estensione delle filiali in Italia e l'internaziona lizzazione dell'impresa, che crea fabbriche e sedi commerciali in Europa, America Latina, Medio Oriente, Africa: alla fine del decennio, un terzo del fatturato è realizzato all'estero. II.1.1.2 L’ascesa di Adriano Olivetti L'azienda regge bene alle traversie della seconda guerra mondiale, durante la quale muore il suo fondatore il 4 dicembre del 1943. Nello stesso anno Adriano, dopo essere stato a luglio arrestato a Roma per via di contatti avuti con i servizi segreti americani circa la prospettiva di una pace separata con gli Alleati, viene scarcerato l’8 settembre ma è costretto all'esilio svizzero mentre l'azienda è guidata da Gino Martinoli, Giuseppe Pero e Giovanni Enriques. Nel dopoguerra compaiono prodotti di grande successo che sostengono l'espansione. L'Ufficio Progetti e Studi, avviato già nel 1929, nel 1945 diviene il Centro Studi ed Esperienze e nel 1966 il Gruppo Ricerca & Sviluppo. Riguardo al Centro Studi ed Esperienze, merita ricordare l'impulso che a questo dà l'ingegner Adriano: la forza lavoro salirà fino a 1500 persone, ossia a più del 10% dei 14200 dipendenti italiani dell'azienda (nel 1958 ammontano a 24200, 10000 dei quali nelle 17 consociate estere). Tra il 1945 e il 1959 si progettano 21 modelli di macchine per scrivere e da calcolo. Si collabora attivamente con centri di ricerca avanzata, in particolare statunitensi. Se nel 1933 i prodotti Olivetti sono già presenti nei mercati di Egitto, Tunisia, Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Ecuador, Siria, Grecia, Albania, Austria, Belgio, Cecoslovacchia, Danimar ca, Francia, Jugoslavia, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Turchia e Ungheria, Spagna, con il 1946 viene stabilita una prima base commerciale a New York, dove nel 1950 si costituisce la Olivetti Corporation of America, la quale aprirà, nel 1954 a New York, il presti gioso negozio della Fifth Avenue. L'edificazione di stabilimenti italiani si estende. Si ricostruisce lo stabili- 62 mento di Massa Carrara distrutto dalla guerra. Nel 1950 si edifica a Ivrea la fabbrica a pareti di vetro, disegnata da Figini e Pollini, alla quale si congiungerà l'estensione del 1957. Nel 1955 s'inaugurano lo stabilimento di Pozzuoli, disegnato da Luigi Cosenza, il Palazzo Olivetti di via Clerici a Milano, il Centro Studi a Ivrea, e si am plia lo stabilimento di Aglié. A Ivrea nel 1956 si apre lo stabilimento di San Bernardo e l'anno successivo quello di San Lorenzo. L’incremento di produttività subisce un arresto nel 1953, quando il mercato diminuisce la velocità di assorbimento dei prodotti e si genera una crisi di sovrapproduzione. All’ingegner Adriano un direttore generale suggerisce di licenziare 500 operai ma lui fa una scelta lungi mirante e controcorrente e, in questo modo, la crisi si rivela come un’opportunità, essendo l’occasione giusta per penetrare maggiormente il mercato. La validità dei prodotti consente di rispondere alla crisi di sovrapproduzione con l’espansione. Infatti, nel decennio 1950-60 le macchine per ufficio Olivetti non hanno concorrenti alla loro altezza in Europa. Non solamen te sono le più tecnologicamente avanzate. Sono anche esteticamente senza paragoni. Inoltre, ai clienti attentamente seguiti in un mercato conosciuto in modo capillare, si vende non solo un prodotto ma un vero e proprio servizio. Un contratto di assistenza e permuta del prodotto assicura al cliente le prestazioni del Servizio Tecnico Assistenza Clienti (STAC), nato nel 1922. Negli anni Ottanta poi, all'assistenza postvendita si sommerà la vendita di servizi, affi data a Oliservice, che offre manutenzione anche per i prodotti della concorrenza. Adriano Olivetti dunque non chiude le fabbriche come tutti si sarebbero aspettati ma, al contrario, li cenzia il direttore che aveva proposto i licenziamenti e fa crescere la struttura commerciale: costituisce nuove consociate estere e raddoppia la forza di vendita in Italia con l’assunzione di 700 venditori, puntando in modo particolare sulla loro formazione. Cogliendo l'importanza strategica di queste figure professionali fino ad allora dequalificate, nel 1955 dedica alla loro formazione una meravigliosa villa nei pressi di Firenze per ospitare il neonato CISV, Centro Istruzione e Specializzazione Vendite. Così nel 1958, su una forza lavoro di più di 14000 persone, in totale gli addetti all'organizzazione commerciale raggiungono quota 3150, oltre il 20%. Un rapporto osservabile in pochissime aziende dell'epoca, anche nelle maggiori aziende straniere del medesimo comparto. Va aggiunto inoltre che sul totale degli addetti italiani gli impiegati erano ben 4700, cioè il 30%. Un'azienda manifatturiera che avesse il 30% di impiegati allora non esisteva. In Italia, in tredici anni (1946-58) gli addetti vengono quasi triplicati, la produttività in unità equiparate sale del 580%, la produzione aumenta addirittura del 1300%, ossia sale di 13 volte, 63 fino a che, nel settembre del 1958, la produzione italiana, attraverso le fabbriche di Ivrea, Agliè, Torino, Massa e Pozzuoli, ed estera, grazie agli stabilimenti di Barcellona, Glasgow, Buenos Aires, San Paolo e Johannesburg, raggiunge il traguardo di 6,2 unità al minuto. L’Olivetti arriva a conquistare il 27% del mercato mondiale delle macchine per scrivere e il 33% di quello delle macchine da calcolo. Tra il 1947 e il 1949 il capitale sociale passa da 120 milioni a 1 miliardo e 200 milioni di lire: nel 1953 viene raddoppiato, nel 1955 portato a 5 miliardi e 400 milioni, nel 1956 a 7 miliardi e 800 milioni e nel 1957 a 10 miliardi e 800 milioni di lire. Un'azienda che cresce crea i mezzi per investire in ricerca e sviluppo. Adriano Olivetti riuscì a costruire un simile circolo virtuoso: impresse alla sua azienda un fortissimo tasso di cresci ta, e più questa cresceva, più poteva investire in tale settore vitale. Nel 1955 inizia la sua atti vità a Pisa, in collaborazione con l’Università, il gruppo di ricerca chiamato Laboratorio Ricerche Elettroniche, affidato all'ingegner Mario Tchou per lo sviluppo di un calcolatore elettronico con applicazioni commerciali. In seguito verrà trasferito a Borgo Lombardo, dove nel 1959 comincia la produzione di calcolatori elettronici. Nello stesso anno, ad Agrate Brianza è attiva la fabbrica della Società Generale Semiconduttori, nata con l'intento previdente di disporre dei componenti avanzati, cuore della competenza elettronica e dell'hardware dei prodotti e componente massima del costo di questi. Mentre gli investimenti nell’elettronica cominciano a portare risultati concreti, Adriano Olivetti nel 1958 conclude un accordo per l'acquisizione della Underwood, storica azienda americana di macchine per scrivere con quasi 11000 dipendenti. Valerio Castronovo commenterà la vicenda riconoscendo che «Mai l’industria italiana era stata in grado di realizzare un’inizia tiva così rilevante a livello internazionale, ossia la scalata a uno dei massimi “santuari” dell’imprenditoria americana, quello stesso che aveva tenuto a battesimo a fine Ottocento [1896] il prototipo della macchina da scrivere e monopolizzato, per tanti decenni, uno dei campi più esclusivi della meccanica di precisione. Qualcosa come la Singer fra le macchine da cucire o come la Ford fra le automobili». Anche se la fabbrica di Hartford non era più quella di una volta, obsoleta e compromessa da una grave situazione finanziaria in parte ignorata prima di concludere l'acquisto, la sua fama e la sua rete commerciale avrebbero potuto agevolare la penetrazione dei prodotti Olivetti soprattutto negli Stati Uniti d'America. Ma, nel mentre fa l’imprenditore, Adriano non manca mai di dedicarsi con pari passione alle sue attività di intellettuale a tutto campo che negli anni lo porteranno ad essere ora urbani sta, ora politico, ora editore e scrittore. Sotto il Regime avvia uno studio preparatorio per un 64 piano regolatore della Val d’Aosta (in quegli anni Ivrea fa parte di questa provincia). Dopo aver aderito fin dal 1938 all'Istituto Nazionale di Urbanistica, nel 1950 ne diventa presidente e nel 1951 assume l’incarico di predisporre il piano regolatore della città di Ivrea. Nel 1949 fa rinascere, finanziandola personalmente, la rivista Urbanistica; collabora attivamente con l’UNRRA Casas e si impegna in vari progetti per la riqualificazione e ricostruzione edilizia in diverse aree del Mezzogiorno, tra cui quella di Matera. Nel 1937 fonda la rivista Tecnica e Organizzazione, dove pubblica numerosi saggi di tecnologia, economia, sociologia industriale. Poco dopo, assieme a un gruppo di giovani intellettuali, crea una casa editrice, la NEI (Nuove Edizioni Ivrea). Nel 1946 fonda la rivista Comunità, che nell’Italia del dopoguerra ben presto diviene uno dei più qualificati luoghi del dibattito culturale, politico e sociale. Tra le riviste da lui fondate si ricordano anche seleArte (1952), una finestra sul mondo dell’arte internazionale, e l’Espresso (1955). La NEI si trasforma di fatto nelle Edizioni di Comunità nel 1946. Con un intenso programma editoriale, pubblica importanti opere mai tradotte prima, afferenti i più vari campi della cultura, dal pensiero politico alla sociologia, dalla filosofia all'organizzazione del lavoro, facendo così conoscere autori d'avanguardia o di grande prestigio all'estero, ma ancora sconosciuti in Italia. Tra le prime opere pubblicate vi è anche L'ordine politico delle comunità (1945), completato da Adriano durante l’esilio in Svizzera. Nel libro sono già espresse le idee alla base del Movimento Comunità, che fonda nel 1947 a Torino, con una se rie di radicali proposte intese a istituire nuovi equilibri politici, sociali, economici tra i poteri centrali e le autonomie locali. Nel 1956 Comunità si presenterà alle elezioni amministrative e Adriano Olivetti verrà eletto sindaco di Ivrea. Presenterà la lista del Movimento Comunità anche alle elezioni politiche del 1958 ma, ottenendo un unico seggio, lui soltanto risulterà eletto senatore. II.1.1.3 La fine di un’era Proprio in un momento di forte espansione dell’azienda, ma anche di profonde rivoluzioni e delicati impegni derivanti dallo sviluppo dell’elettronica e dall’acquisizione della Under wood, Adriano Olivetti muore improvvisamente nei pressi di Aglié in Svizzera per trombosi cere- brale, sul treno diretto da Milano a Losanna : è il 27 febbraio 1960, un sabato. A Ivrea, nel mentre si aprivano le danze per il festeggiamento dello Storico Carnevale cittadino, in un attimo la ricorrenza si trasforma in lutto cittadino. Nel 1961 poi muore anche l'ingegner Mario Tchou, 65 direttore del Laboratorio Ricerche Elettroniche che nel 1962 verrà trasferito da Borgo Lombardo a Pregnana Milanese diventando la Divisione Elettronica dedicata alla realizzazione degli Elea, avanzatissimi calcolatori mainframe. Nel 1964, per fronteggiare la difficile situazione finanziaria (aggravata anche dalla fallimentare campagna elettorale di Adriano), un "Gruppo d'intervento" formato da Fiat, Pirelli, Mediobanca, IMI e la Centrale entra nel capitale Olivetti. Bruno Visentini è nominato presidente e, d’accordo con la nuova compagine azionaria, avvia la cessione della Divisione Elettronica alla General Electric. All’Olivetti è concesso di continuare a operare nell’informatica, limitatamente a campo dei calcolatori “da tavolo”, ancora inesplorato. Lo fa investendo in un progetto tenuto a galla unicamente dalla volontà di Roberto, fi glio di Adriano, che nel 1965 sforna la Programma 101, ideata da Pier Giorgio Perotto, tardivamente riconosciuta come l’antesignana degli attuali personal computer. Le caratteristiche potenzialmente rivoluzionarie della macchina non furono però, per scelta o per miopia, adeguatamente apprezzate dai vertici aziendali, ancora orientati alla promozione della tecnolo gia meccanica. Comunque l'espansione continua per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1963 è inaugurato a Ivrea il Palazzo Uffici e nel 1964 il complesso industriale di Scarmagno. Nel 1965 è attivo lo stabilimento di Città del Messico, nel 1969 quello di Harrisburg in Pennsylvania e si avvia quello di Marcianise. Nel 1970 gli stabilimenti italiani sono 10, quelli all'estero 11. Dal 1966 le azioni ordinarie Olivetti sono quotate in borsa. A metà anni Sessanta, in Italia le filiali sono 72, i concessionari 335. Le consociate estere sono diventate 18. I dipendenti, che nel 1961 erano circa 22.00O in Italia e 25.000 all'estero, nel 1972 sono quasi 74.000, dei quali circa 40.000 all'estero. Nel 1976 le consociate estere diventano 30, le filiali italiane 90. Le macchine con tecnologia meccanica vanno scomparendo sostituite da quelle interamente elettroniche, rendendosi necessario riconvertire la produzione all’elettronica. La riconversione è un successo, in breve tempo operai, capisquadra, capireparto, commerciali e quadri, in vece di essere sostituiti con nuovo personale ad hoc, vengono “aggiornati” con un’imponente attività formativa. Nel 1972, ai prodotti di tecnologia elettronica è dovuto il 50% del fatturato totale del Gruppo, il 68% di quello della capogruppo. Oltre 2.000 persone lavorano in Ricerca & Sviluppo. Dal 1972 al 1976 l'azienda ha investito in ricerca 107 miliardi di lire, anche se, sotto la presidenza Visentini, il capitale sociale ristagna dal 1964 a 60 miliardi di lire. L’elettronica è anche l’occasione per la scomparsa della catena di montaggio, progressivamente sostituita a partire dal 1971, dalle UMI, le Unità di Montaggio Integrate. Ognuna consi - 66 ste in un gruppo di operai (dai 10 ai 30 in genere) che lavora in modo autonomo in un’area definita dello stabilimento, l’“isola di montaggio”. Al loro interno i vari componenti di una macchina vengono realizzati e subito collaudati, poi si montano a formare un gruppo o la macchina stessa (a seconda della complessità) che a sua volta è collaudata e, se possibile, ri parata. All’operaio, diventato responsabile anche per i problemi della qualità, viene quindi assegnato un lavoro di senso compiuto, che gli consente di avere una chiara visione del risultato finale e che lo responsabilizza maggiormente. Dal 1978 l'ingegner Carlo De Benedetti acquisisce il controllo dell'impresa in qualità di amministratore delegato e ne assumerà la presidenza nel 1983. Il capitale sociale viene portato a 100 miliardi e l'anno successivo a 200 miliardi, consentendo d'immettere in produzione e distribuzione, con grande successo, nuovi prodotti elettronici progettati negli anni precedenti. Intanto, mentre si fanno acquisizioni e alleanze strategiche (rilevante quella con la AT&T), l'azienda viene spaccata in unità indipendenti (rompendo l'unità di ricerca e sviluppo dei prodotti). Le aree funzionali sono trasformate in divisioni, passando così da centri di costo a centri di profitto che, talvolta, per l’enfasi posta dalla dirigenza sui risultati di breve periodo, entrano in conflitto tra loro. L’azienda viene ristrutturata più volte, con avvicendamento dei responsabili nei ruoli direttivi, affidati infine a uomini di provenienza esterna. In questo modo lo stile e cultura imprenditoriale dell’Olivetti di Adriano, che era riuscita a sopravvivere alla sua morte tramandandosi tra i capi olivettiani, viene irrimediabilmente spazzata via. Su questa definitiva rottura culturale, in un'intervista concessa a Marco Borsa e apparsa nel Sole 24 Ore del 27 maggio 1984, lo stesso Carlo De Benedetti si pronuncia in questo modo: «Al management erano state date in pasto delle cose alternative rispetto ai valori, a mio parere fondamentali soprattutto per il top management, che sono le responsabilità di far fun zionare quella macchina che ho definito un insieme di uomini e mezzi per produrre ricchezza. Poi magari gli dici che l'azienda esprime una cultura, ma queste sono normalmente delle palle che vengono raccontate per dare un contenuto sostitutivo all'assenza dei messaggi fondamentali. Sia ben chiaro, io ritengo che queste cose sono delle magnifiche cose e che se un'azienda può anche farle, deve farle. Ma è una specie di piacere aggiuntivo che, personalmente, voglio togliermi nei limiti in cui lo posso fare». Nella stessa intervista, afferma di non aver conosciuto Adriano Olivetti ma di pensare che fra di loro «non ci fosse niente in comune». 67 Nel mondo dell’industria informatica l’Olivetti è molto presente, limitandosi però ad adottare una strategia da follower nei confronti dei big come l’IBM. Questa scelta sarà la principale causa che determinerà l’entrata in crisi di quel settore nei primi anni Novanta, portando alla dismissione di diverse attività, chiusura di stabilimenti, drastica riduzione dei dirigenti e massicce espulsioni di dipendenti. Mentre l'Olivetti subisce forti perdite nel mercato informatico, diventa attiva nel mercato della telefonia mobile creando Omnitel (1990), quindi nelle telecomunicazioni e della multimedialità con Telemedia (1994) e nella telecomunicazione su rete fissa con Infostrada (1995). Nel 1996, dopo 18 anni, Carlo De Benedetti lascia la presidenza e Roberto Colaninno diven ta amministratore delegato. La sua finanziaria diventerà maggiore azionista (17,5%) nel 1999. Vengono ceduti i personal computer e la Divisione Sistemi, peculiare e preziosa core competence dell'impresa, uscendo così dall'informatica, mentre si mantengono ancora i prodotti per l'ufficio. Nel 1997 l'Olivetti stipula per le telecomunicazioni un accordo con la Mannesmann, arrivando, nel 1999, a cederle completamente Omnitel e Infostrada. Nel medesimo anno l’Olivetti di Colaninno acquisisce tramite OPAS (offerta pubblica di acquisto e scambio), il controllo di Telecom Italia. Da questo momento l’Olivetti diventa un’appendice del gruppo Telecom e non ha più una storia autonoma. Nel 2001, quando nel giro di un anno la perdita netta d’esercizio passa da 940 a 3090 milioni, l’Olivetti-Telecom viene ceduta a un gruppo di finanzieri guidato da Marco Tronchetti Provera mediante OPA. Il 12 marzo 2003 si conclude il declino dell’azienda, evidente nelle travagliate vicissitudini degli anni precedenti, con la cancellazione del titolo Olivetti dal listino della Borsa italiana. Ad oggi, anche se il nome soprav vive nella Olivetti Tecnost, una società del Gruppo Telecom Italia che produce fax e stampan ti in Val d’Aosta ed è attiva nel settore dei prodotti e servizi per l'Information technology, come affermato da Oddone Camerana, l'Olivetti è ormai una realtà “andata per sempre come una delle tante civiltà scomparse”. L’ascesa dell'impresa di Camillo e Adriano (e Roberto, cui si deve il perseverare nella conversione all'elettronica) e la sua successiva decadenza, sono stati sincroni con lo sviluppo e il dileguamento dell'Italia industriale, ossia della grande impresa, della sua prospettiva strategica e della sua capacità d'innovazione in settori di tecnologia avanzata. 68 II.1.2 La persona e le idee di Adriano Olivetti II.1.2.1 L'uomo Adriano Olivetti è stato sovente descritto come un uomo curioso, goffo e timido, amante dei dolci. Ma chi fu veramente Adriano Olivetti? Per tentare di descriverne la personalità è necessario prima inquadrarla con chiarezza. Ma ecco che appare subito la prima caratteristica della persona di Adriano: non era inquadrabile. Possedeva una personalità troppo eclettica e poliedrica, impossibile da circoscrivere univocamente. Sia perché formatasi sotto le influenze ideologiche più svariate e, per forza di cose, anche contraddittorie tra loro, inconciliabili in apparenza, che hanno reso irrequieta la sua natura, come in perenne evoluzione, inesausto fermento. Sia perché durante la sua vita ebbe interessi e svolse attività in talmente tanti am biti che non si può affermare con certezza quale lo avesse attratto maggiormente. Ovvio che fu, prima di tutto, un imprenditore di grande successo. “Imprenditore suo malgrado” avrebbe detto Davide Cadeddu, docente di materie storiche all’Università degli Studi di Milano. Imprenditore a modo suo questo è sicuro, “eccezionale nella sua solitudine” a detta di De Benedetti, concreto e visionario, un “costruttore di futuro”. Proprio in quanto tale, osava dire «Io non ho passato in me. In me non vi è che futuro». Rendere quel futuro un po' più presente, si può dire che sia stata la missione di tutta la sua vita. L'ingegner Adriano cercava di realizzar lo attraverso una continua e avveduta “distruzione creativa”, secondo la quale “ad ogni op portuna dismissione di attività deve corrispondere l'avvio di iniziative di pari valore, più ade guate alla situazione e all'avvenire”. La sua azienda rinnovava costantemente i prodotti e i processi produttivi, sviluppa competenze tecnologiche d'avanguardia, adoprandosi per capire i cambiamenti del mercato, per influenzarli positivamente o reagirvi tempestivamente. L'Olivetti era proiettata nel mondo. Adriano sapeva che non vi può essere continuità senza cambiamento. Certo la conduzione della fabbrica è quella a cui dedicò la maggior parte dei suoi sforzi. Ma la Ing. Olivetti & Co. di certo non fu mai la sua unica ragione di vita, tendeva anzi ad al lontanarsene, a intraprendere nuove strade, a mettere in campo altri mezzi per realizzare le sue idee. La fabbrica la considerava infatti alla stregua di un semplice mezzo, anche se tra tutti il più importante, lo strumento principe, quello ereditato dal padre, quello che rese pos - 69 sibile il concreto tentativo di dare il suo personale contributo al raggiungimento del fine. Di quale fine stiamo parlando, quale scopo aveva in mente? A questa domanda, tanto quanto a quella iniziale, non c'è una risposta precisa. Rispondere il progresso economico-sociale, op pure di miglioramento delle nostre condizioni di vita è dare sì delle risposte, ma con concetti fumosi, che vogliono dire tutto e nulla. Potremmo addirittura rispondere la felicità di tutti e altrettanto non ci allontaneremmo di molto dal centro del bersaglio, ma altrettanto rimarremmo nel vago. D'altronde lui stesso nel rivolgersi ai suoi lavoratori, cercando di ispirare in loro la consapevolezza dei fini del lavoro che svolgevano, era solito esprimersi in questi termini: «Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzio ne alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo. Parlando di forze spirituali, cerco di essere chiaro con me stesso e di riassumere con una semplice formula le quattro forze essen ziali dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e, soprattutto, Amore!». Lui stesso, anche proprio quando cercava “di essere chiaro”, non poteva non rimanere nell'indefinito. Il fine, sviluppare il genio creativo delle forze spirituali, non può essere un preciso obiettivo da realizzare ma un ideale a cui ispirarsi, una rotta da seguire. D'altronde «L'utopia è come l'orizzonte, fai due passi e si allontana di due passi, ne fai dieci e si allontana di dieci. Ma allora a che cosa serve? A camminare», suggerisce il giornalista Eduardo Galeano. Peraltro bisogna riconoscere quanto quelle stesse quattro forze (Verità, Giustizia, Bellezza e Amore) erano idee che a quei tem pi possedevano ancora un senso, erano capaci di far sognare e ispirare le persone, a differen za dei giorni d'oggi dove tali concetti, non essendo sopravvissuti alle “macerie lessicali del '68”, delle religioni new age, hanno un significato ambiguo, o peggio ci appaiono ormai come parole vacue, talmente abusate da essere prive di ogni carica simbolica ispiratrice. Per tutti questi motivi, personalmente non me la sento di cristallizzare la sua personalità in una definizione. D'altronde non penso che ne esista una in grado di “rendergli giustizia”. Tra i tantissimi appellativi che la lingua italiana mette a disposizione (ingegnere chimico, industriale, intellettuale, urbanista, editore, politico, sindaco, senatore, saggista, eccetera, eccetera) non ce n'è uno che da solo basti a comprenderlo. Tuttavia posso cercare di “renderne l'i dea”. E per farlo ritengo più opportuno cominciare riportando quelle definizioni che nel corso degli anni sono state date di lui e del suo operato. Natalia Ginzburg in Lessico famigliare racconta l'impressione che ne ebbe incontrandolo «a Roma per la strada, un giorno, durante l'occupazione tedesca. [...] Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendic- 70 ante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava». Ferruccio Parri disse di lui che era un “utopista concreto”. “Imprenditore rosso” sono le velenose parole di Angelo Costa, l'allora presidente di Confindustria. Giorgio De Santillana, fisico e storico italiano, lo ha chiamato “un Proudhon [noto anarchico francese] che ti compra la Undrewood”. La forma organizzativa propria della catena produttiva della sua fabbrica ha ricevuto il celebre appellativo di “taylorismo dal volto umano”. Tutte queste definizioni non sono altro che dei veri e propri ossimori. È come se Adriano Olivetti, per la varietà di interessi, di ideologiche a cui si ispirò, per numero di attività diverse intraprese, fosse una specie di paradosso vivente. Una miscellanea di antinomie che invece di dividerlo e straziarlo internamente, in qualche modo, rappresentano il segreto del suo successo. Un successo personale legato indissolubil mente a quello dell'azienda ereditata dal padre, la quale, c'era da aspettarselo, non meno di lui conteneva al suo interno non poche contraddizioni e paradossi che, secondo Luciano Gal lino, sociologo italiano ex direttore del Servizio di Ricerche Sociologiche e di Studi sull'Orga nizzazione Olivetti, sono sintetizzabili nella figura di «Paolo Volponi. Uno scrittore che scriveva romanzi in cui la drammaticità della transizione dalla condizione contadina alla civiltà industriale erano messi in risalto con inusuale forza descrittiva, oltre che con rimarchevoli risultati letterari. Nei romanzi egli distillava i suoi umori anticapitalistici anche nei confronti di un'impresa tipo la Olivetti, che di tale transizione era stata una delle protagoniste. Intanto che scriveva quei romanzi, Volponi fu per molti anni un efficiente direttore dei Servizi sociali dell'azienda, capace quando la situazio ne lo richiedeva di adottare misure drastiche; per diventare infine, tempo dopo la scompar sa dell'ingegner Adriano, responsabile di tutto il settore del Personale. Paradossi aziendali della Olivetti, non meno che paradossi personali di molti uomini portati a Ivrea da Adriano: ruoli cardine in un'impresa capitalistica, affidati a persone di dichiarate convinzioni di sinistra, per di più svolti da loro con successo.» Un successo talmente fuori dagli schemi da suscitare le antipatie di entrambi gli schieramenti in cui il mondo nel dopoguerra si divideva. D'altronde l'essere una persona estremamente complessa lo rese inevitabilmente un personaggio assai controverso. Così, da una parte Adriano Olivetti fu duramente avversato dalla sinistra politica: CGIL e PCI, che era allora il fratello maggiore, tutore politico della prima, tacciavano di nuovo paternalismo padronale il suo riformismo d'impresa, che su Il Contemporaneo (settimanale di ispirazione marxista), nel 1954, Fabrizio Onofri arrivò a definire “patronalsocialismo”, accusandolo di proporre “sotto 71 un'etichetta ancora più sporca” la mercanzia già venduta da Adolf Hitler. Ma Adriano ben sa peva che non la sua azienda, ma «i partiti politici, semmai, sono paternalisti, assegnano ruoli chiave della vita pubblica a persone impreparate ma fedeli, persone allo stesso tempo innocue e pericolose». E ancor più paternaliste erano le grandi industrie italiane di quei tempi. Loro sì che perse guivano l'integrazione passiva della forza-lavoro in una città-fabbrica, sostenendo l'attività la vorativa parcellizzata e una manodopera sempre più intercambiabile, tramite la doppia arma di un sottile e dosato paternalismo nelle pieghe di un'ideologia solidaristica di stampo azien dale (premi particolari di produzione o collaborazione, sicurezza del posto di lavoro, una fascia salariale e d'indennità più elevata della media industriale definita dai contratti nazionali, miglioramento dei servizi assistenziali), e di un inflessibile autoritarismo volto a comprimere qualsiasi forma di autonomia politica e sindacale (licenziamenti collettivi, trasferimenti arbitrari, promozione di sindacati corporativi). Adriano non celò affatto la sua avversione nei confronti di certe misure politiche e discriminazioni vessatorie praticate da alcune grandi im prese in quegli anni, a cominciare dalla FIAT di Valletta. In tal modo attirò su di sé anche le antipatie di quella parte di mondo diametralmente opposta ai suoi detrattori di sinistra. Venne cioè osteggiato dall'establishment industriale di stampo capitalista rappresentato dalla Confederazione Generale dell'Industria Italiana, conosciuta come Confindustria, la quale arrivò al punto di boicottarne i prodotti. Valerio Ochetto ha ricostruito questa vicenda a partire da due interventi di Adriano, apparsi nel 1954 sulla rivista Comunità, che attaccavano l'uso fatto in Italia dei fondi dell'European Recovery Program (il famoso Piano Marshall) distorcen done l'intento keynesiano; critica che concludeva: «In Italia si potrà avere una società demo cratica solo quando il potere di questi capitani d'industria sarà spezzato; gli aiuti americani lo hanno paradossalmente aumentato». Interventi cui Costa aveva reagito. Ochetto riporta, a partire da alcune testimonianze e dalla corrispondenza privata di Adriano, che alla polemica sarebbe seguita una circolare di Confindustria, firmata da Costa e riservata alle diverse unioni industriali: «Di certo la Montecatini blocca una grossa ordinazione della Olivetti». Alle rimostranze di Piero Rollino, direttore dell'Olivetti Synthesis di Massa, Costa rispose dicendo che si tratterà di “un caso isolato” ed escluse un intervento discriminatorio della Confindu stria verso l'azienda Olivetti, pur ribadendo che la polemica l'aveva coinvolto non come singolo ma come «presidente della Confederazione in rappresentanza della categoria degli industriali che dall'articolo dell'ing. Olivetti si è sentita offesa». La discriminazione non codificata 72 continuerà, se Galassi ricorda di aver letto una circolare di Giorgio Valeria alle dipendenze Edison per un embargo degli acquisti Olivetti, e se ancora nel 1958 lo stesso Galassia appren derà da due funzionari del servizio approvvigionamento della Montecatini di un nuovo embargo, che Adriano cercherà di revocare con un incontro diretto con il conte Carlo Faina. Faina e Valeria non erano solo alla testa di due grandi industrie, ma influenti membri degli organi dirigenti di Confindustria. II.1.2.2 Le finalità del mezzo economico secondo Adriano L'Olivetti era dunque qualcosa di anomalo, che dava fastidio. Per questo Sandro Sartor, che per 14 anni ha selezionato il personale tecnico all'Olivetti, è convinto che la crisi dell'impresa del 1964-63 sia stata motivo di grande compiacimento per l'ambiente politico, sindacale e industriale del Paese. E ritiene anche che il Gruppo d'Intervento sia stato fatto, in parte, nell'intento di normalizzare un'azienda diversa. Ma in cosa essa si differenziava a tal punto? La ri sposta è ad un tempo semplice ed estrema: nei suoi fini. Ed ecco il punto cruciale: che tipo fini? Questa domanda è lui a porla, tanto a se stesso quanto ai suoi dipendenti, per la prima volta nel giugno del 1945, rivolgendosi agli operai di Ivrea, mentre l'Italia si trovava coinvolta in una generale crisi di civiltà: «Voi dovete essere messi in grado di conoscere dove la fabbri ca va e perché va. È quello che in termini sociologici si potrebbe chiamare dare consapevolez za di fini al lavoro. Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani?». Olivetti non sapeva ancora “rispondere esauriente mente all'interrogativo”. Ma ecco che il quesito viene riproposto nove anni dopo nel discorso senza tempo pronunciato in occasione dell'apertura del nuovo stabilimento di Pozzuoli nell’aprile del 1955. «Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazio ne, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?». E finalmente, stavolta alla domanda «Possiamo rispondere: c'è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come a Poz zuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell'opera che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organiz zazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l'opera della nostra Società. Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a 73 dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un'impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l'uno contro l'altro, non riescono a risolvere i problemi dell'uomo e della società moderna. La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue mag giori preoccupazioni all'elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta. La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell'arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nel l'uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.» Secondo Adriano, il fine di un'impresa si identifica, quindi, in un “tentativo sociale” di “ele vazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare” al fine di “garanti re ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta”. Un'impresa deve sì funzionare secondo criteri economici di efficienza ed efficacia, ma tali criteri non devono sottomettere la sua parte “umana”, nel senso buono del termine. Al contrario, «Abbiamo voluto ricordare nel suo rigore razionalista, nella sua organizzazione, nella ripetizione esatta dei suoi servizi culturali ed assistenziali, l'assoluta indissolubile unità che la lega [...] ad una tec nica che noi vogliamo al servizio dell'uomo onde questi, lungi dall'esserne schiavo, ne sia accompagnato verso mete più alte». E i primi a doversi impegnare in questo tentativo sociale, a farsi carico di una tale responsabilità sono i dirigenti; proprio a loro «spetta quasi tutta la re sponsabilità di farla divenire a poco a poco una cellula operante rivolta alla giustizia di ognu no, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell'avvenire dei figli e partecipe infine della vita stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di ele vamento sociale», fino a quando «un giorno questa fabbrica, se le premesse materiali e morali intorno ai fini del nostro lavoro saranno mantenute, farà parte di una nuova e autentica civil tà indirizzata ad una più libera, felice e consapevole esplicazione della persona umana». Quelle parole rimangono un segno di scandalo, tanto per quell'epoca quanto per la nostra. Parole definite da Giuseppe Lupo nell’articolo La politica nel sogno di Olivetti come «un'incursione corsara nella mentalità degli imprenditori, una scommessa eretica, ma è attraverso que- 74 ste forme di eresie che si cambia la faccia della terra». D’altronde la parola “eresia” trova il suo etimo in quella greca hairèō, la quale nient’altro significa che "scegliere". E come ogni vera scelta autonoma comincia mettendo in dubbio le certezze calate dall’alto, i dogmi, Adriano Olivetti avvia la sua riflessione sui fini dell'impresa mettendo in dubbio i due modelli economici (socialismo e capitalismo) che, ai suoi tempi, sembravano, o l'uno o l'altro, l'unica via per portare avanti il progresso della società. E il suo giudizio fu lucido e impietoso. Da una parte, essendo in contatto con gli ambienti trozkisti, con gli ambienti della sinistra socialista che avevano già dato un giudizio estremamente critico dell'URSS, si rendeva conto di come il socialismo di Stato fosse un sistema già fallito nell'Unione Sovietica. Dall'altra, fu ugualmente molto critico verso il liberalismo economico pienamente dispiega to, il quale pone come unica ragion d'essere il profitto e fine primario la massimizzazione del valore azionario, dando adito a rendite parassitarie e superprofitti, in un'accumulazione infinita che, mercificando il lavoro e il capitale, mortifica il lavoro dell'uomo e inasprisce la di stanza tra le classi sociali. Rispondendo a un'inchiesta sulle relazioni industriali realizzata da Selezione del Reader's Digest, Adriano aveva infatti affermato che, secondo lui, «la principale causa di attrito tra operai e imprenditori in Italia [è] la fallace e limitata logica del profitto». Si può ben dire che Adriano Olivetti avesse anticipato il rischio (ricordiamo quel suo “giacché i tempi avvertono con urgenza”), e in una certa misura cercasse di impedire, nei limiti in cui potesse farlo un singolo individuo seppur dotato di notevole potere economico, che il merca to con la sua logica utilitaristica venisse applicato a ogni sfera della vita, all'educazione, alla sanità, alle arti, alla vita familiare, al tempo libero, come attualmente alcuni mirano a ottenere. Olivetti arrivò perciò alla conclusione che entrambi i modelli economici non sarebbero in grado di fare in modo che «le gigantesche forze materiali alle quali esso [il mondo moderno] sta rapidamente dando vita, non solo non lo travolgano, ma siano rese al servizio dell'uomo, del suo progresso, del suo operoso benessere», con la conseguenza che, mentre «il lavoro dovrebbe essere una gioia, è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo». Invece, il modo in cui egli diresse la sua impresa rientrava in «un tentativo di indicare completamente una terza via che risponda alle molteplici esigenze di ordine materiale e morale lasciate finora insoddisfatte»; il suo agire da imprenditore andava a inquadrarsi in un progetto di più ampio respiro, in un «piano di riforme [alla cui base] vi è la concezione di una nuova società che per il suo orientamento 75 sarà essenzialmente socialista, ma che non dovrà mai ignorare i due fondamenti della società che l'ha preceduta: democrazia politica e libertà individuale». Secondo Gallino, Adriano con queste parole affermava che né lo Stato da solo né l'individuo da solo, fossero in grado di rispondere ai grandi problemi del mondo industrializzato che stava nascendo dalle rovine della guerra. Olivetti condivideva quindi la polemica di Emmanuel Mounier contro i due «mali del secolo [...] lo sfrenato individualismo e l'idolatria dello Stato». Sostanzialmente però, per Adriano, non fu mai una questione di schieramenti politico-economici, di destra e sinistra, di socialismo e capitalismo; per lui non fu tanto una questione di "etichetta" (lui per primo a non è etichettabile) perché il problema vero era fare in modo che l'impresa cessasse di essere fatta «non d'uomini, ma di denaro e di carta», rendendola una volta per tutte uno strumento al servizio della civiltà umana, che trasferisse le abilità e cono scenze tecnico-scientifiche acquisite in prodotti e servizi socialmente utili. Ciò che conta, in somma, è che la razionalità tecnica e organizzativa e il progresso scientifico, grazie all’”im mensa forza spirituale” del lavoro, siano un efficace mezzo per “dare un nuovo corso alla vita e al lavoro dell'uomo”. «La razionalità e l'efficienza sono ciò che ci permette di dedicarci alle cose che veramente ci interessano», diceva Theodor W. Adorno. «Quando i problemi tec nici che si presentavano nel mio lavoro furono risolti e il successo finanziario che ne fu la principale conseguenza lo permise, fui tratto ad occuparmi della vita di relazione fra gli ope rai e la fabbrica», scrisse Adriano Olivetti sulla rivista Il Ponte nell'agosto-settembre 1949. Investire in tecnologia, innovare i mezzi di produzione, accrescere per tal via la produttività pro capite, per lui significava dotarsi della capacità di creare ricchezza per investire in pro getti sociali e culturali, trasformandola in una migliore qualità della vita di tutti. Significava anche liberare il lavoro di una parte almeno dei suoi costi umani, anzitutto di una quota rile vante di fatica. In tal modo, chi produce utilizzando tecnologie all’avanguardia, poteva recuperare il tempo e l'energia che occorrono per utilizzare, ai fini del proprio benessere, le risorse economiche divenute disponibili. In questa chiave si comprende come il tempo libero dei lavoratori fosse una preoccupazione costante e prioritaria per Adriano Olivetti. D’altronde, lui stesso imparò «ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina», quando ancora tredi cenne, nell'agosto del 1914, iniziò l'apprendistato nell'azienda paterna come operaio. In un documentario del 1961, Ritratti contemporanei, raccontava di aver faticato molto a lavorare 76 con le macchine perché il lavoro non lo attraeva e soprattutto non fissava la sua attenzione, «la mente poteva vagare e si stancava». Ma proprio perché «sono stato con voi nella fabbrica, conosco la monotonia dei gesti ripetuti, la stanchezza dei lavori difficili, l'ansia di ritrovare nelle pause del lavoro la luce, il sole, e poi a casa il sorriso di una donna e di un bimbo, il cuore di una madre. Perciò sono stato io a lanciare l'idea di arrivare qui nella nostra fabbrica per primi a ridurre l'orario». Ancora, quando l'azienda era già un colosso internazionale, dirà al giovane Furio Colombo: «Io voglio che lei capisca il nero di un lunedì nella vita di un opera io. Altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli altri». Il valore della comprensione reciproca, sapere cosa fanno gli altri: sembrerebbe il più banale dei principi ma, forse, proprio per questo sovente viene dimenticato o messo da parte. Olivetti, conscio di questo pericolo, quando confidò ai suoi dipendenti di temere che la fabbrica potesse “perdere la sua umanità”, si premurò anche di aggiungere che questa è fatta “di conoscenza e di comprensione”. Una comprensione che, per avere un “vero valore”, non può essere a senso unico: tanto il manager deve capire cosa vuol dire essere un operaio, altrettanto i dipendenti devono comprendere le scelte della dirigenza, insomma «essere messi in grado di conoscere dove la fabbrica va e perché va». Non a caso la libera condivisione delle conoscenze fu un elemento caratteristico dell'Olivetti. E, per estirpare dall’azienda l’incomprensibilità e l’incomunicabilità, prime nemiche a una libera circolazione delle informazioni tra i diversi livelli gerarchici su cui sono distribuiti i dipendenti, secondo Adriano innanzitutto bisognava evitare di riprodurre, in quella gerarchia, la spaccatura esistente tra classi sociali. Adriano, infatti, era a conoscenza del fatto che allora pochi figli di operai si di plomavano e pochi figli di piccola borghesia si laureavano. Di conseguenza, se l'azienda aves se assunto tutti o quasi laureati (figli di borghesia medio alta) per la carriera direttiva, diplo mati per le funzioni di livello intermedio e ragazzi di formazione inferiore per mantenerli nel lavori esecutivi, si sarebbero riprodotte nella sua gerarchia interna tre strati sociali di diversa estrazione e mentalità, inibendo la conoscenza e la comprensione reciproca. Tenendo presente questo, per ottenere una cultura aziendale omogenea, l'Olivetti cercò quindi di mettere in valore tutte le competenze interne: dal livello intermedio si formavano persone per il lavoro direttivo e gli operai diventavano tecnici e capi (tutti i capisquadra e molti capireparto erano di provenienza operaia). Come il famoso Natale Cappellaro, che progettò alcuni dei modelli meglio riusciti di macchine Olivetti, la Elettrosumma lanciata nel 1945, tanto da essere anni dopo proclamato ingegnere honoris causa. Anche in questo Adriano seguiva le orme del 77 padre Camillo. Il primo capo officina della neonata società Olivetti era stato, nel 1909, Domenica Burzio, un operaio di Ivrea, lo stesso a cui in seguito venne intitolata nel 1932 l’omonima Fondazione. Inoltre, ai laureati in ingresso nell'area della produzione veniva per lo più chiesto di fare un'esperienza iniziale in mansioni operaie. In modo analogo, dai venditori provenivano i quadri commerciali e da questi i responsabili delle filiali. Su una tale pratica, l’ex responsabile dell'Ufficio Relazioni Sindacali Umberto Chapperon che l’ha vissuta in prima persona, si è espresso in questi termini: «Io stesso, per inciso, appena assunto all'Olivetti, fui mandato per circa sei mesi a lavorare al montaggio dell'MC24, la calcolatrice meccanica, e la ritenni un'e sperienza fondamentale. Tutto si svolse nella maniera più rispettosa e cordiale possibile: in piemontese, io ero el dutùr: “E come va el dutùr?” chiedevano di me; in quei sei mesi non riuscii mai a fare il cottimo, che invece gli altri facevano con una certa facilità, non riuscii mai a raggiungere il rendimento degli altri. Fu un'esperienza preziosissima». È proprio grazie a questo tipo di accorgimenti che persone come Alessandro Graciotti, perito radiotecnico che lavo rò nell'ambito della Ricerca & Sviluppo, hanno potuto pronunciare parole di questo tenore: «Beh, in Olivetti il lavoro operaio non mi appariva affatto una cosa così tremenda. Ammetto che non so che cosa accadesse all'Alfa di Arese o alla Pirelli della Bicocca: forse lì sì c'erano condizioni di lavoro tali da scatenare il tipo di reazione che hanno scatenato. Però in Olivetti sicuramente tutto questo non si percepiva: non si percepiva la fatica del lavoro e l'azienda non era un luogo brutto, dove non si andava volentieri. Io, perlomeno, ci andavo con la sen sazione di fare un lavoro strano ma meraviglioso, addirittura da pioniere, e quindi ci andavo volentierissimo». Quest’impresa dove “non si percepiva la fatica del lavoro” fu possibile perché all'Olivetti l'anima dello sviluppo non fu mai, almeno finché è rimasto in vita Adriano, l'avidità di guadagno. L'ingegnere aveva ereditato dal padre una «religiosa ripulsa per il danaro che viene non dal lavoro, ma da altro danaro», e i dividendi accordati agli azionisti non superano mai i divi dendi riconosciuti in conto corrente aziendale ai dipendenti. Possiamo affermare che Adriano Olivetti ribaltò il principio dell'autonomia dell'economico, secondo il quale, come espresso da Karl Polanyi, «non è più l'economia a essere embédded nelle relazioni sociali, ma queste ultime a essere incastrate nella prima». Esempio solare di un tale ribaltamento è la risposta alla crisi di sovrapproduzione del 1953. In quell’occasione, Adriano invece di licenziare 500 di- 78 pendenti come gli era stato suggerito, reagì al contrario, raddoppiando il personale commer ciale affinché si potessero mantenere i volumi di produzione e con essi i posti di lavoro della fabbrica. D’altronde l’ingegnere per tutta la vita non venne mai meno alla consegna del padre: «Nell'affidarmi allora la riorganizzazione delle officine, mio Padre mi aveva conferito grandi poteri, ma mi aveva pure avvisato e ammonito con precise indicazioni e in questi termini perentori: "Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno a motivo dell'introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia."». L'unicità dell’idea olivettiana di responsabilità dell'attività economica è tanta, che non trova riscontro nemmeno nelle due accezioni che si succedettero nel corso dell'era industriale. L'e tica Olivetti non s'ispira all'“ascesi intramondana” nel lavoro (salvifica, nelle sue origini reli giose) identificata da Max Weber, per la quale la borghesia imprenditrice giustificava la deten zione del patrimonio mediante l'uso socialmente responsabile del potere economico. Per lui non era una questione di doversi giustificare o discolpare per il possesso di ricchezza. E la responsabilità imprenditoriale adrianea non può ravvisarsi neppure nella subordinazione collettiva (siglata nei "regolamenti d'officina" delle fabbriche dell'Ottocento) al "razionali smo produttivo", subordinazione resa necessaria dalla cultura evoluzionista del "progresso". L'etica d'impresa di Adriano s'ispira invece a una visione di radice aristotelica, secondo la quale l'agire economico è inserito nella catena teleologica che lo finalizza al bene comune: l'agire economico è una forma dell'agire etico ed è incluso in questo. Perciò l'impresa nasce, im pegnando risorse appropriate, al fine di costruire prodotti e servizi utili per il mondo in cui opera. L'impresa vive mantenendo la propria autosufficienza con il profitto e distribuendo ricchezza affinché quella di tutti possa finalmente essere «una vita più degna di essere vissuta». 79 II.2 Principi e pratiche dell’etica Olivetti II.2.1 Essere un olivettiano Per capire quali valori etici fossero diffusi all'Olivetti e, soprattutto, come fossero arrivati a permeare radicalmente tutta la struttura aziendale, ritengo che il modo migliore sia iniziare parlando delle personalità dei dipendenti Olivetti, e in particolare dello stile di dirigenti e capi (rapportando il tutto, quando possibile, al contesto imprenditoriale italiano di quel pe riodo). Perché l’Olivetti, ovviamente, non era un’impresa in cui Adriano facesse tutto. Era però un’impresa in cui Adriano Olivetti selezionava personalmente molti degli uomini da col locare in posizioni chiave. Appena un candidato si presentava nel Palazzo Uffici di Ivrea per svolgere il colloquio di as sunzione, poteva leggere la seguente scritta: «Qui nessuno vi chiederà mai la vostra fede religiosa, il vostro credo politico o la vostra razza». Questo era il primo approccio verso chi sarebbe stato accolto in azienda. Un’accoglienza che, già di per sé, bastava a segnare una differenza abissale con la politica delle Risorse Umane tipica della grande industria italiana di allora. Chapperon ricorda come proprio la suddetta scritta fu la prima cosa che lo lasciò felice mente sorpreso al suo arrivo a Ivrea e, col seguente aneddoto, esprime a meraviglia… «quale fosse l'atmosfera di quegli anni in Italia e quanto fosse distante il clima dell'Olivetti da quello del resto del Paese. Alla metà degli anni cinquanta, la rivista Nuovi argomenti, allora diretta da Alberto Carocci, uscì con un numero monografico che fece un certo scalpore e che s'intitolava Inchiesta alla FIAT. Alberto Carocci aveva un figlio, più o meno mio coetaneo, il quale venne a Torino per fare delle interviste agli operai FIAT. Io lo accompagnai e lo aiutai per una parte di queste interviste: l'immagine che ricavai di quel mondo industriale fu terrificante. Basti pensare che la gente, per partecipare, voleva che gli incontri si tenessero in luoghi lontanissimi dagli stabilimenti: avevano paura di essere riconosciuti o seguiti; ci trovavamo in qualche bar o in qualche osteria, in cui entravano da porte secondarie; quegli operai raccontavano delle incredibili storie di discriminazioni, di epurazioni, di agenti provocatori. Questi agenti provocatori erano persone che magari t'incontravano in un corrido- 80 io della fabbrica, ti davano una spintonata oppure un calcio, e se tu reagivi urlavano: “Rissa!”, cosicché si veniva licenziati tutti e due, ma il punto è che uno dei due era stato assunto proprio per far cacciare l'altro. Certamente in quegli anni nessuno veniva assunto se le sue referenze non certificavano che era una persona che non aveva niente a che fare con la sini stra italiana. Agli altri, a quelli assunti prima del 1948, ci pensavano appunto gli agenti provocatori.» E Sandro Sartor aggiunge che, quando faceva selezione all'Olivetti, era solito ripetere al suo superiore Nicola Tufarelli: «Se ci si mettesse d'accordo con la FIAT, l'IBM e con voi potreste pagarmi un terzo dello stipendio; oppure, se foste generosi, io potrei avere tre stipendi invece di uno; perché le persone che assumiamo noi la FIAT non le assumerà mai e l'IBM neppure, e viceversa. Per cui, se contemporaneamente facessi anche le selezioni per la FIAT, la mia prestazione nei confronti dell'Olivetti non verrebbe a perderci nulla: infatti si scelgono persone con caratteristiche assolutamente diverse». Questa unicità delle assunzioni Olivetti non era dovuta soltanto all'assenza di pregiudizi, ma soprattutto ai metodi di svolgimento del colloquio e ai criteri di selezione. A tal proposito la testimonianza resaci da Umberto Gribaudo è illuminante: «Il peggior colloquio, il più drammatico, è stato quello della FIAT: una cosa orribile. Immagi ni un tavolo tondo, e intorno un giro di sedie: una sedia vuota, una sedia occupata, sedia vuota, sedia piena... Nelle sedie occupate c'erano tutti i maggiorenti della FIAT di quel mo mento, ciascuno per la sua materia: ufficio legale, ufficio personale, ufficio tecnico, progettisti. E si entrava così, in fila indiana: c'erano questi assumendi, e gli esaminandi che si spo stavano da una sedia all'altra. C'era un foglio, c'era un aggeggio che faceva clock: era una sorta di "linea di assunzione". Scattava il clock, e il dirigente incaricato le chiedeva: “Lei, cosa fa? Ah questo! Mi parli del tale argomento”. Si completava questo giro, che durava an che due ore. Tra i candidati c'erano nomi già noti: con me c'erano figli di dirigenti; c'era uno che aveva il padre lì, in quella stessa "catena di montaggio". Alla fine uno usciva e poi, dopo due o tre giorni, gli dicevano: è andata bene, è andata male. Era un'organizzazione per rendere al massimo dell'efficienza. Come dicevo, per questo giro potevano volerci due ore. La prova di assunzione si svolgeva come un esame: con esercizi da risolvere entro un tempo determinato. All'Olivetti, invece, di colloqui ne ho avuti due. Uno a Torino con l'allora capo del Personale, che poi è diventato il mio capo in Produzione, l'ingegner Nicola Tufarelli, e ne sono uscito perplesso: "Questo che cosa voleva da me? Mi ha chiesto cosa facevo nel tempo libero, l'ultimo libro che avevo letto, l'ultimo film, come avrei programmato le mie vacanze, 81 cosa avrei desiderato fare all'Olivetti" mi sono detto; "Di me questo ha la fotografia che gli ho dato, ma che cosa ne ha preso?". I colloqui di selezione all'Olivetti erano fatti così, erano fatti per scavare attorno alla persona. Può darsi che avessero su di noi tutte le conoscenze relative alla preparazione tecnica (io m'immaginavo) e il voto di laurea: in realtà, non mi hanno chiesto di allegare il diploma di laurea, io potevo anche non essere laureato. Era mol to informale. Poi ce ne fu un secondo, a Ivrea. Adriano Olivetti in queste cose era ancora più profondo: credeva molto nella sua capacità di guardar oltre. Dai colloqui uno poteva uscire fuori dicendo: “Mah..., che strana azienda!”. Anni dopo, ho interrogato Tufarelli: “Adesso puoi dirmelo: quando mi hai assunto, perché mi hai assunto?”. Mi lasciò i dossier di questi colloqui: era tutto abbastanza curioso: per esempio, davano importanza alla perizia grafolo gica, un tentativo di leggere l'individuo al di là di quello che lui voleva manifestare.» Non si può certo dire che Adriano Olivetti si basasse sui titoli accademici. Nei colloqui cui personalmente si dedicava con piacere, insisteva in particolar modo affinché il candidato gli raccontasse le sue vicende, i suoi interessi e la sua storia. Vero è che, trattandosi in generale di intellettuali o di tecnici assai giovani, le esperienze precedenti o il curriculum erano decisamente smilzi. Egli sembrava piuttosto intuire, le capacità di crescita, le potenzialità di forma zione, di sviluppo e autosviluppo critico d'una personalità. Sulla base della sua intuizione decideva quindi se la persona gli interessava o no. L'unico limite imposto dall'ingegnere per le assunzioni era quello di attenersi a un modello secondo il quale la crescita delle risorse umane dovesse sviluppandosi contemporaneamente in tre campi culturali: bisognava assu mere umanisti, economisti e tecnici in egual numero in modo che formassero delle terne. La terna costituiva l'unico criterio di selezione dell'azienda e gli assunti venivano appunto chiamati "ternisti". Tutto ciò aveva il suo senso perché un neo-assunto laureato in giuri sprudenza veniva visto come portatore di una cultura diversa da quella tecnologica e da quella economica, ma non meno necessaria per l'impresa. All'Olivetti i test psicoattitudinali erano utilizzati esclusivamente per selezionale il gran numero di candidati diplomati e per la moltitudine di candidati a mansioni operaie, mentre si riteneva superfluo l'impiego di test nell'assunzione di laureati, poiché il percorso e gli esiti de gli studi in teoria garantivano per il livello delle conoscenze di base. Assumendo ci si aprire all'ingresso di una persona dalla quale ci si attende una prestazione professionale e l'esito degli studi ed eventuali precedenti lavorativi attestavano la sua possibilità di riuscire, ma la persona poteva attuarla correttamente solo se aperta ad acquisire la consapevolezza dei fini del lavoro comune. Il risultato di una simile filosofia fu che i colloqui erano sempre molto li - 82 beri, più simili a una chiacchierata, e non venne mai chiesto il certificato di laurea a nes suno. Tra l'altro, poteva anche capitare che qualcuno se ne approfittasse, come successe a San dro Sartor, il quale solo dopo parecchi anni si accorse di aver assunto un tale che diceva di essere ingegnere ma non lo era. Questo però nel frattempo aveva vinto alcuni tra i premi più importanti per il mestiere che stava facendo, per cui si dissero “Pazienza se non è ingegnere”. Al contrario poteva capitare che si presentassero degli ingegneri eccellenti, dei centodieci e lode, i quali però ad alcune domande-chiave come il tipo di letture, gli interessi culturali, l'esperienza politica nell'università o gli hobby, spesso rispondevano dando del loro me stiere una visione molto "fiattista", tecnica, squared, limitata. L'ingegnere centodieci e lode che aveva questo tipo di visione del mondo veniva pregato di accomodarsi fuori. Assurdo come, nonostante non fossero state formalizzate delle vere e proprie linee guida per la valutazione e la cernita dei candidati, tutti i selezionatori sapevano molto bene quali criteri adottare. Così sempre Sartor racconta che quando venne adibito alla selezione del personale tecnico tutto quello che Tufarelli gli disse fu soltanto: “Lei giri, e se trova uno intelligente lo prenda”. E Maggio ci offre un'altra conferma di questa autonomia: «Senza che nessuno di noi facesse professione di politica, i nostri criteri nell'assunzione dei laureati applicavano di fatto uno spartiacque sostanzialmente ideologico: passavano i progressisti, e non i reazionari; questo nessuno ce l'ha mai prescritto, ma era così ». L’unica spiegazione a che una tale autonomia decisionale non producesse conseguenze negative, risultando anzi molto efficace, va probabilmente individuata nel fatto che i selezionatori, i quali a loro volta erano stati attentamente scelti dallo stesso Adriano Olivetti, fossero tutta gente che possedeva, impressi nel proprio DNA culturale, i principi di quel codice etico olivettia no e riuscisse, con una semplice conversazione, a capire se il candidato gli fosse affine o meno. Olivettiani che riconoscevano altri olivettiani e li introducevano in azienda. Chi as sumeva personale, sapeva da sé che suo compito non era acquisire un'anonima capacità di prestazione (una "risorsa umana" come si dice oggi) ma conoscere "la persona", le sue esperienze e le sue aspirazioni, qualunque fosse la destinazione lavorativa prevista. Nei laureati in particolare si intendeva ravvisare un'autonomia di giudizio e un orizzonte di interessi (l'apertura culturale poteva voler dire attitudine a cogliere la complessità della vita lavorativa) che eludevano il gretto carrierismo e, peggio, il conformismo acritico e op portunistico. Ben lungi dal volere degli “yesman”, erano richieste ampiezza di orizzonti, curiosità, senso critico, si cercavano ragazzi capaci di porsi la domanda: "Si fa così? Bene. Ma 83 perché non si può fare anche cosà?", persone in grado di porsi in termini critici (mai ipercritici), che non accettassero supinamente le istruzioni ricevute. Perché l'Olivetti era un'azienda in cui chiunque, anche chi vi era entrato per ultimo, poteva (e doveva) dare suggerimenti e questi suggerimenti venivano sempre valutati, se non accettati. Il sistema funzionava e i risultati erano percepibili nella qualità delle persone che entra vano in azienda. Persone di spirito libero, di giudizio autonomo, aperte a interessi sociali e culturali (“l'ingegnere non solo ingegnere”), persone con la mente idonea al confronto e al dialogo, l'atteggiamento propenso a condividere l'esperienza della vita lavorativa (“la fabbrica come comunità di spiriti liberi”). L'impresa, lungi dal chiedere obbedienza e fedel tà incondizionata, contava sulla libertà, dando spazio allo spirito d'iniziativa e di propo sta; in cambio otteneva leali espressioni di consenso e di dissenso a tutti i livelli e la spon tanea fiducia dei suoi dipendenti. Vi era una certa “leggerezza dei rapporti e delle proce dure” che generava un rapporto aperto, creativo tra le persone. E gli effetti prodotti da questo ambiente aziendale particolarmente umano tornavano a vantaggio tanto delle per sone quanto dell'azienda stessa. Ad esempio, Maggio, parlando del successo che ebbe la ri conversione della fabbrica dalla meccanica all'elettronica, è convinto che «Questi miracoli avvengono quando a un capo visionario corrisponde una struttura anch'essa poco orto dossa, per cui se uno chiede una cosa strana non viene subito guardato con sospetto». L'Olivetti era una comunità di apprendimento continuo che consentiva alle persone di con frontare conoscenze e riflessioni sulle esperienze vissute: esse imparavano dalle conver genze e dalle divergenze, costruivano prospettive e significati, si aprivano a sperimentare il nuovo. Tutt’oggi nelle aziende è difficile trovare un tale livello di condivisione: nello sti le più diffuso del management l'informazione è parcellizzata, arriva da un principe che ne passa solo una piccola parte e solo a pochi. All'epoca, invece, era del tutto condivisa: l'in gegnere, il perito, i giovani quadri che erano a conoscenza di un progetto o di un obiettivo trasmettevano un'informazione completa fino al livello di caposquadra. Adriano Olivetti ampliò, dunque, il concetto di direzione d'impresa, poiché secondo lui «essa doveva fondarsi sulla cooperazione e quindi sulla socializzazione delle conoscenze dei collaboratori». «La capacità direttiva – osservava Olivetti – diventa una combinazione di qualità soprattutto psicologiche e morali, per mezzo delle quali il dirigente diventa capace di promuovere l'attività e l'azione dei dipendenti, principalmente perché mediante la sua influenza su di essi sorge la volontà di compiere tali azioni». Questa capacità si rivelava “veramente crea - 84 trice” e si distingueva da quella «comune caratterizzata dal comando per autorità e non per trasmissione di volontà». II.2.2 I principi guida II.2.3.1 Introduzione La precedente ampia descrizione del tipo di persone presenti all'Olivetti e dell'ambiente la vorativo, è premessa necessaria alla comprensione di quanto sia difficile, nel nostro caso, stilare un elenco di precisi principi etici di riferimento come potrebbe essere l'onestà, la traspa renza, l'uguaglianza, la buona fede. Perché all'Olivetti, ancor più che nella fissazione di regole comportamentali “giuste”, si credeva nella creazione di un ambiente di lavoro permeato da un clima di giustizia, dal quale il comportamenti eticamente corretti sarebbe spontaneamente derivati. E per creare un ambiente del genere, si scommetteva tutto sulle persone che doveva no essere dei “giusti” (Ottorino Beltrami ha definito Adriano Olivetti semplicemente “un giusto”). Non si credeva nella divisione del mondo tra buoni o cattivi, si credeva nella divisione del mondo tra persone che sanno ascoltare l’opinione di tutti e persone troppo presuntuose per cambiare idea, tra persone che ragionano come uomini e quelle che ragionano come mac chine. Finora abbiamo parlato soltanto di leggerezza procedurale, ampiezza culturale, spon taneità nei rapporti, struttura poco ortodossa, indipendenza di giudizio, mentalità aperta; mai di essere buoni, gentili con tutti e rispettosi dei diritti umani. Una volta che nell'ambiente di fabbrica fossero state presenti le suddette caratteristiche, l’onestà, la gentilezza e il rispet to erano qualcosa che si ottenevano da tutti senza bisogno di imporre. Insomma, il famoso moral hazard, all’Olivetti era pressoché uno sconosciuto. I dipendenti non si approfittavano del potere conferitogli, evitavano di perseguire scopi egoistici senza che qualcuno li dovesse costringere per mezzo di norme codificate, incentivi e correttivi. Oserei anzi dire che la minore presenza di regole, una certa componente di “anarchia” strutturale, fosse la chiave di questo comportamento etico diffuso. E all'Olivetti, infatti, il primo degli “anarchici” era proprio lo stesso Adriano. Lui per primo usava contravvenire alle regole. 85 Giammai per ottenere un vantaggio personale o concedere un favoritismo, ma soltanto nel caso in cui lo ritenesse giusto. Ad esempio, quando gli riferirono di un dipendente che di nascosto si aumentava la busta paga, prima di decidere come intervenire, incaricò un assistente sociale di scoprire se quel dipendente si trovasse in difficoltà economiche tali da averlo indotto a rubare. Si scoprì che effettivamente così era e il dipendente, non solo non fu punito, ma gli aumentarono lo stipendio della giunta che era solito farsi. Quando poi gli chiesero che provvedimenti prendere per impedire agli operai di portarsi a casa i martelli dall’officina, rispose semplicemente che dal momento in cui tutti avessero avuto il loro attrezzo di lavoro in casa, avrebbero anche smesso da soli di toglierli alla fabbrica. E in occasione del furto di un libro della biblioteca, Adriano Olivetti anziché arrabbiarsi ne fu felice perché così, chi aveva sottratto il libro, finalmente avrebbe potuto leggerlo con tranquillità a casa. Umberto Chapperon ci racconta un altro curioso aneddoto sul tema: «Un certo giorno, l'ingegner Adriano mise a fuoco che poteva capitare che al mattino un dipendente entrasse in fabbrica con il sole ma quando alla sera usciva piovesse a dirotto. Allora fece acquistare una quantità di ombrelli: se all'uscita pioveva, le guardie dello stabilimento distribuivano a ciascuno gli ombrelli. Questo fatto che le guardie venissero impiegate a distribuire ombrelli mi è sempre sembrata una cosa straordinaria». E ancora Chapperon ricorda che in una delle rare occasioni in cui incontrò l'Ingegner Adriano, questi gli disse: «Nella nostra fabbrica deve esserci libertà: non soltanto perché nella libertà ci crediamo, ma perché noi siamo un'azienda d'inventori e l'invenzione ha bisogno di libertà». Nel pronunciare quelle parole, probabilmente all’ingegnere veniva in mente il “mito” di Natale Cappellaro, l’operaio con la licenza elementare che, armato soltanto della propria curiosità e voglia di fare, grazie alla fiducia riposta nelle sue capacità, arrivò a progettare, riuscendo anche a risolvere problemi tecnici su cui veri e propri ingegneri avevano fallito, le due calcolatrici che per almeno un decennio hanno fatto la fortuna della Olivetti e le hanno dato la leadership mondiale nel calcolo meccanico: la Divisumma 24 e la Tetractys, entrambe uscite nel 1956. Nonostante la fisiologica indeterminatezza che abbiamo appena visto essere propria del modello organizzativo dell'Olivetti, ritengo comunque possibile osare un tentativo di dedurre quali fossero i predominanti valori a carattere etico, atti a ispirare e guidare i comportamenti di ognuno all'interno dell'azienda. 86 II.2.2.2 Lavoratori in quanto uomini Valeva in Olivetti un principio fondamentale: un profondo rispetto dell'uomo. La prima cosa di cui si preoccupavano all'Olivetti era che la gente fosse, se non felice, almeno soddisfatta il più possibile. Gobbi racconta, infatti, che una volta «Uno dei colleghi con cui parlai prima di andare a Pozzuoli, il dottor Chapperon, mi disse: "Questa qui sarà alla fine un'azienda dove tutti saranno felici... Ma di macchine non ne usci rà più una». A forza di correre dietro alle aspettative della gente, c'era il rischio, appunto, che non si badasse più alle macchine da produrre perché la preoccupazione era: «Guarda che se hai fatto meno produzione del previsto non te lo rimprovereranno mai, ma ti rimpro vereranno se c'è stato uno sciopero». Lo sciopero era sintomo d'insoddisfazione, un cattivo segno di qualcosa che non funzionava nei rapporti tra l'azienda e i suoi dipendenti: questa era l'atmosfera di allora. Certo, Umberto Chapperon è un personaggio che ama la boutade (se trova il modo di dire qualche cosa di paradossale, lo fa: è più forte di lui); ma, per quan to paradossale, quella battuta aveva un fondo di verità: la preoccupazione per il benessere dei dipendenti era tale che c'era il rischio che le esigenze della produzione passassero in secondo piano». Potrà apparire paradossale che in una fase in cui la voce degli individui era destinata a smorzarsi dinanzi al vociare scolorito delle masse si cercasse di ridare valore alla singola persona. Ma ciò rientra nella paradossalità del pensiero di Adriano. Questa era la filosofia azien dale di allora: che la soddisfazione delle aspettative delle persone fosse massima, compatibilmente con le esigenze di un'azienda che doveva fare un certo tipo di prodotti. I Servizi del Personale Se in altre aziende l'operaio si confondeva in una massa indifferenziata, l'attenzione alla persona del lavoratore era un'impronta distintiva dell'Olivetti. Un tale rispetto si manifestava innanzitutto nella politica di risoluzione dei conflitti capitale-lavoro. La ditta di Ivrea, infatti, non condivise mai l'ideologia delle human relations di moda in quel periodo, cioè l'idea che in fondo azienda e dipendenti sono su una stessa barca, che i conflitti sono il più delle volte frutto di incomprensioni, di mancanza di comunicazione e così via. Per quanto ciò in parte fosse vero, in Olivetti fu sempre fermissima la convinzione che il conflitto nelle aziende è una condizione fisiologica, e ciò per due motivi fondamentali: primo, perché quello che per il 87 dipendente è un reddito, per l'azienda è un costo; secondo, perché in un'organizzazione c'è chi ha potere e chi non ha potere o, perlomeno, chi ha più potere e chi ne ha meno, e questo non può non generare conflitti. Questo riconoscimento del carattere fisiologico del conflitto comportava tre corollari: una scrupolosa correttezza nei rapporti sindacali; un costante impegno a essere credibili; una ricerca di canali, di procedure, di regole che in un certo qual modo istituzionalizzassero i conflitti e ne agevolassero di conseguenza la composizione. Umberto Chapperon ci offre un esempio di cosa volesse dire correttezza e impegno a essere credibili raccontando che allora l'Olivetti aveva un trattamento di maternità per le lavoratrici che era molto più generoso del trattamento contrattuale collettivo. Le lavoratrici stavano a casa, a sti pendio pieno, tre mesi prima e sei mesi dopo il parto, più del doppio rispetto alle altre azien de. Durante una crisi aziendale, l'Olivetti chiese al sindacato di ridurre questo trattamento perché era diventato troppo oneroso per l'impresa; il sindacato rispose: «Sì, siamo d'accordo, ma a condizione che quando l'Olivetti uscirà dalla crisi si ritorna a questo standard». Dopo un anno, prima che fossero i sindacati a chiedere di ripristinare il vecchio sistema, l'azienda stessa li convocò e disse che la crisi era superata e potevano ritornare al sistema precedente. Il canale principale per la risoluzione dei conflitti era rappresentato dai Servizi del Persona le. Così in ogni articolazione aziendale, il responsabile del Personale era tenuto a conoscere individualmente tutti i dipendenti. La storia lavorativa di ciascuno era documentata e tenuta di conto per spostamenti congruenti con l'esperienza della persona, interventi formativi, promozioni. Il dipendente trovava sempre aperta la porta del responsabile del Personale per parlare di problemi, interessi e aspirazioni attinenti alla sua situazione lavorativa e alla sua condizione personale. I Servizi del Personale si avvalevano della collaborazione delle Assistenti Sociali e del Centro di Psicologia. La persona che in Olivetti faceva la gestione del personale, al mattino si trovava sulla scrivania una serie di cartelle di dipendenti che avevano chiesto di parlargli, e lui li vedeva, uno per uno, e in quelle stesse cartelle segnava con grande precisione tutto quello che nel colloquio era stato detto, da una parte e dall'altra. Questi colloqui do vevano tendere a far coincidere i desideri del dipendente con le necessità dell'azienda. Comunque, la persona aveva la soddisfazione di essere ascoltata da qualcuno che con scrupolo cercava di fare per lei quello che poteva. Le cartelle del personale dell'Olivetti erano delle car telle "cliniche" parlanti: chi apriva la cartella di una persona ci trovava le tracce dei tanti colloqui avvenuti, poteva ricostruirne la storia lavorativa, i bisogni, le ansie, le aspirazioni, le qualità, i difetti. 88 Una politica di questo genere implica che la funzione del Personale non sia il mero braccio operativo della linea produttiva, ma un canale parallelo. Sandro Sartor ci offre un bellissimo esempio per spiegare nella pratica cosa si intende per canale parallelo: «Il reparto era costituito da questi macchinoni in cui le donne dovevano mettere i pezzi, e teoricamente tenere premuti due pulsanti: la pressa scendeva e faceva le operazioni di pie gatura o foratura eccetera. Novara aveva studiato il problema del lavoro alle presse dal pun to di vista del ricercatore sociale. Un tecnico, invece, nel frattempo aveva inventato un marchingegno che posizionava automaticamente i pezzi sotto la pressa; quindi la donna lavorava senza pericolo. Sembrava la soluzione a tutti i problemi. Se non che, in tutte le aziende ogni investimento richiede certe procedure di valorizzazione economica: si deve calcolare il ROI. Fatti questi calcoli, si era deciso che non valeva la pena d'investire nel braccio meccanico, prevedendo grosse perdite secondo il normale controllo di gestione. Un gior no stavamo commentando con molta delusione questo fatto, e c'era con noi anche questo giovane cronometrista, Gianfranco Righi, e ho detto: «Senti, tu che sai fare questi conti, prova un po' a valorizzare i fenomeni sociali che ha evidenziato Novara, e vediamo se il ROI non cambia». E questo ragazzo si è messo a valutare tutta una serie di fenomeni, che andavano dai maggiori indici dell'infortunistica a indici più elevati di malattia (a parità di popolazione, tra le lavoratrici alle presse c'era persino una maggiore assenza per maternità). Valo rizzando questi dati, il ROI cambiò e infine questo marchingegno fu adottato. È un esempio che cito sempre, perché, secondo me, è emblematico dell'approccio Olivetti alla gestione del personale. Righi passò al Personale ed ebbe molto successo; lo ha ancora oggi, eppure ha una formazione tecnica». Organizzazione scientifica del lavoro Uno dei più importanti riflessi della considerazione olivettiana dei dipendenti e della loro centralità in quanto uomini, era il metodo di definizione dei tempi di lavoro. In un'azienda meccanica si tratta un problema centrale. Adriano Olivetti, al ritorno dal lungo viaggio negli Stati Uniti del 1925, nel quale egli si era interessato all'organizzazione scientifica del lavoro nei complessi industriali, introduce in azienda i principi organizzativi di tipo tayloristico che nel corso degli anni Trenta vengono continuamente perfezionati. Dal 1927 compaiono linee di montaggio con cicli razionalizzati e abbreviati, nel 1950 s'introduce la linea continua, nel 89 1956 il cottimo collettivo. Introducendo la catena di montaggio, suddividendo le mansioni e razionalizzando i processi, la produzione ha un aumento esponenziale ed è resa più efficien te. Il lavoro operaio viene completamente ridisegnato, anche se l'ingegner Camillo continua a ripetere “I miei operai sono più intelligenti dei vostri cronometri”. E il suggerimento del padre dev’essere rimasto ben impressa nella mente di Adriano, visto che la rivoluzione organiz zativa avvenuta all'Olivetti fu, neanche a dirlo, unica nel suo genere. Normalmente, infatti, nelle aziende i tempi di lavorazione venivano stabiliti dai cronometristi, secondo le cosiddet te tabelle MTM (Methods Time Measurement); si suddividevano i movimenti in gesti elementa ri e si sceglieva a tavolino la sequenza che dava il tempo totale minore. All'Olivetti, questo sistema non venne mai adottato: i tempi di lavorazione non venivano determinati a tavolino, ma rilevati su un operaio di abilità media, il cosiddetto "allenatore". Ciascun operaio aveva poi il diritto di chiedere la "dimostrazione": l'allenatore, alla presenza del collega che ne aveva fatto richiesta, doveva dimostrare che la fase di lavoro contestata poteva essere ese guita nel tempo stabilito. In altre parole, la definizione dei tempi non era il frutto di una contabilità analitica astratta, ma di una rilevazione concreta sull'uomo, che veniva sempre considerato al centro del lavoro. Si era inoltre consapevoli degli ineliminabili limiti della certezza nei criteri di stabilizzazione dei procedimenti e della differenza tra le condizioni semplificate di laboratorio e le condizioni di lavoro nei reparti (nei quali si possono trova re tempi equilibrati accanto a tempi "larghi" e a tempi "stretti", da riequilibrare). Si ricono sceva che con l'esperienza l'operaio può adattare il compito ai propri caratteri psicofisio logici e variare la modalità operativa. A tal proposito, una Commissione Paritetica Tempi, istituita nel 1956, aveva potere consultivo per il controllo e la correzione di ritmi e carichi di lavoro. In pratica, l'introduzione dello scientific management all'Olivetti venne effettuata in modo più reale e consapevole che nella maggior parte delle aziende italiane dell'epoca. L'azienda, diretta dall'autore di un ambizioso progetto di umanizzazione della condizione operaia, si prestava comunque alle critiche che la sociologia del lavoro allora formulava nei confronti di tale metodologia organizzativa a cominciare da uno dei maggiori esponenti di tale disciplina, il sociologo Georges Friedmann, che Adriano Olivetti conosceva di persona. In sintesi dette critiche erano incentrate sulla frantumazione del lavoro in parcelle prive di significato, sulla ripetitività delle mansioni, sulle costrizioni dei ritmi di esecuzione predeterminati e della re tribuzione a cottimo. Tuttavia, da parte sua, proprio il sociologo francese riteneva che la Oli - 90 vetti di Ivrea fosse in Europa una delle fabbriche tutto sommato meno alienanti, meno co strittive del lavoro operaio, che lui avesse avuto modo di conoscere. Bisogna quindi riconoscere che quello della Olivetti era un taylorismo dal volto un po' più umano di quello che il medesimo presentava in altre aziende dell'epoca. Condizioni generali di lavoro nei reparti C'è da dire che le migliori condizioni di lavoro di cui godevano gli operai Olivetti erano dovute anche a fattori indipendenti dalle scelte in materia di politica del lavoro. I fattori indipendenti erano da vedersi soprattutto nel fatto che le macchine prodotte nelle officine di Ivrea erano relativamente piccole e di peso limitato. Quindi le operaie o gli operai pote vano assemblarle stando seduti in una posizione relativamente confortevole; una posizio ne impossibile da tenere, oggi come allora, nel caso di grossi manufatti come, per dire, le automobili. Alla relativa piccolezza del prodotto va aggiunto il fatto che era un prodotto pulito, che non aveva bisogno di particolari trattamenti chimici, o di una verniciatura par ticolarmente gravosa per il lavoratore. In realtà già negli anni Cinquanta la verniciatura delle carrozzerie di macchine per scrivere e calcolatrici era interamente automatizzata. Quando venivano a Ivrea dei funzionari sindacali che seguivano la FIAT, dicevano: «L'offi cina H, il reparto peggiore che c'è in Olivetti, è un ambiente che in FIAT sembrerebbe la di rezione». L'Olivetti non era la FIAT, era una fabbrica di precisione: le migliaia di pezzi che c'erano dentro l’MC 24 erano tutti concatenati, il martelletto alla fine doveva battere ri spondendo all'ordine che veniva impresso sul tasto. L'Olivetti era una tolleranza di mecca nica fine, non c'erano produzioni grossolane: era tutta una faccenda di centesimi, al massimo di decimi, di millimetro. Proprio da qui, nell’operaio nasceva la con sapevolezza della propria professionalità. C'era il riconoscimento di fare un lavoro diverso che, tutto sommato, era in qualche modo professionale anche nei luoghi in cui di professionalità ce n'era poca, perché sempre doveva esserci il cervello, sempre doveva esserci la capacità di piega re il pezzettino giusto nel modo giusto affinché la macchina potesse funzionare. L'inter vento umano era indispensabile. Tutto ciò faceva sì che lavorare, sia alla produzione dei componenti meccanici, sia al loro assemblaggio, fosse di per sé fisicamente meno usurante e meno alienante, più “soddisfa cente” diciamo, di molte altre produzioni che andavano dai grandi elettrodomestici alle 91 automobili. L'operaio Olivetti si sentiva diverso prima di tutto perché lavorava in una con dizione diversa, perché era radicalmente diverso il suo lavoro di fabbrica. Comunque numerosi accorgimenti erano stati presi per rendere più disteso il clima delle officine. Nelle linee di montaggio gli operai lavorano su postazioni ferme (la macchina non si muoveva davanti a loro mentre vi operavano) e nel mentre veniva diffusa musica classi ca, non essendoci macchinari rumorosi. Tra i banchi di lavoro della catena vi erano i cosid detti "polmoni", spazi in cui potevano “sostare” tre o quattro macchine in corso di lavora zione pronte per la fase successiva, consentendo una relativa libertà delle cadenze indivi duali, oltre che una conveniente elasticità per la linea. E o gni operaio aveva una discreta autonomia nel suo lavoro, nonostante vigesse una disciplina di fabbrica ferrea. Ciascuno poteva fare le sue soste, non c'era nessuno che gli diceva niente se si fermava un quarto d'ora; bastava che non parlasse col vicino se non per motivi strettamente legati al lavoro. Chi sgarrava veniva redarguito dal caporeparto con parole del tipo: «Mi va bene che stiate dieci minuti a far niente, che vi riposiate, ma non che andiate a disturbare gli altri. Nessuno deve disturbare gli altri» come ricorda Cossavella. Sempre lui, ex operaio e sindacalista della FIOM, ci confessa che «i ritmi di lavoro erano (oggi possiamo dirlo francamente), tutto sommato, anche se con dei tempi tirati in certe situazioni, accettabili: un'ora al giorno era di riposo, cioè la produzione di 8 ore si riusciva a farla in 7, e la discussione girava sempre intorno alla questione se le ore di lavoro dovevano essere 7, 6:40 o 7:10. Però la mezz'ora alla fine al mattino e la mezz'ora al pomeriggio c'erano: in produzione era normale che gli operai finissero di lavorare mezz'ora prima, poi leggevano il giornale. Già questo particolare dava il senso delle cose: si leggeva il giornale, è un fatto importante leggere il giornale.» E Francesco Baicchi racconta della volta in cui accompagnò «una delegazione dei sindacati dei paesi dell'Europa dell'Est, che rimase abbastanza sorpresa perché questo metodo di organizzazione dava molta libertà anche di movimento alle persone che potevano interrompere, fare soste durante la giornata di lavoro. Entrati nello stabi limento ci chiesero se era un giorno di sciopero e noi dovemmo spiegargli che no, era un normale giorno di lavoro e uno dei dirigenti Olivetti che ci accompagnava rincarò la dose di cendo che quel tipo di organizzazione del lavoro che dava così tanta liberà aveva anche portato a un incremento di produttività di quasi il 15%. Devo dire che la delegazione sovietica rimase molto sorpresa e, credo, forse non ci ha mai creduto a quello che dicevamo.» 92 Politica salariale Nel perseguire la felicità dei propri dipendenti, un altro fattore su cui all’Olivetti intervennero efficacemente sono le retribuzioni. I salari olivettiani erano in media più alti dell'80% in confronto al resto del tessuto industriale della zona, che negli anni Cinquanta era ancora rilevante. È un dato confermato, tra l'altro, da una ricerca sui bilanci familiari condotta personalmente da Gallino nel 1958. Nel Canavese si contavano infatti importanti aziende produttrici di materie plastiche, una fitta rete di aziende tessili di antica tradizione, un numero non trascurabile di aziende del settore metalmeccanico. Con le loro buste paga che al netto pesavano mediamente 100, di contro alle buste olivettiane che pesavano 180, chi lavorava in tali aziende guardava con invidia ai dipendenti della Olivetti, e questi erano ben consci della loro situa zione salariale privilegiata. Salvatore Sgueglia, ex operaio, ricorda: «Noi qui all'Olivetti già nel 1960, si prevedevano 70000 lire al mese di paga media; a cento metri dall'Olivetti c'erano molte fabbriche: la Varzi, la Chatillon, che prendevano 35000 lire al mese quando prendeva no tanto, ma operai già di vecchia… altrimenti…». Tutti godevano di benefici speciali, indennità aziendali che superavano quelle previste dai contratti sindacali: indennità di anzianità, integrazione della pensione. Anche le retribuzioni degli operai erano allora soggette ad aumenti di stipendio discrezionali. Non erano, come adesso, retribuzioni uniformi, fissate in base alle norme sindacali, ai contratti nazionali di ca tegoria. Sì, c'era la retribuzione minima contrattuale, ma l'Olivetti applicava allora anche agli operai quelli che si chiamavano gli "aumenti di merito", gratificava cioè gli operai in base a valutazioni espresse dai loro diretti superiori, con aumenti di paga oraria che tenevano conto delle capacità, dei rendimenti, dell'assiduità di presenza al lavoro e in generale anche dei comportamenti sul luogo di lavoro. A questi aumenti discrezionali, si aggiungevano, sempre per gli operai, delle altre differenze di retribuzione: certi lavori particolarmente disagiati era no compensati con maggiorazioni di paga oraria, chiamate "indennità di posto". Queste indennità di posto dipendevano da molti fattori. Per esempio, alla verniciatura c'erano le ema nazioni di solventi e ci s'imbrattava anche; alle tempere c'erano i disagi dovuti al calore dei forni; alle presse c'era la rumorosità. Purtroppo è stato riscontrato che, sia gli aumenti discrezionali di merito, sia le indennità di posto, dando luogo a differenze di retribuzione tra gli operai, venivano da loro interpretati come elementi discriminatori. Invece di produrre soddisfazione per la maggiore capacità d'acquisto conferita ai lavoratori, l'elargizione di questi au - 93 menti di merito da parte del caporeparto creava malcontento, introduceva elementi di divisione, di baruffa; baruffe che infatti succedevano. «Noi, per esempio, quando facevano gli aumenti di merito ci alzavamo tutti in piedi e riuscivamo a bloccare completamente il reparto, tutti in piedi a guardare di brutto, senza muoversi, il caporeparto. Aumenti di merito significava aumenti a qualche individuo, per cui facevano delle discriminanti, magari davano l'aumento a cinque persone su oltre duecento; allora quando sapevamo che erano stati dati questi cinque aumenti è logico: si bloccava, si diceva di no, che qui l'aumento andava fatto per tutti, non ci sono discriminanti» ci racconta ancora Salvatore Sgueglia. Probabilmente siamo di fronte al primo e unico caso al mondo in cui gli incentivi (che secondo la Teoria dell'agenzia rientrerebbero tra i costi di agenzia, un male necessario per l’azienda rappresentando la risposta a un problema teorica mente ineliminabile, quello dell’opportunismo del suo personale dipendente) produssero disaffezione nei confronti dell’impresa e andarono eliminati. Bisogna quindi ammettere che, nonostante il supporto del Centro di Psicologia, nonostante le intenzioni fossero delle migliori, la parte motivazionale della politica salariale fu sostanzialmente un fallimento. Ma, per un errore commesso, tante furono le pratiche che invece ebbero successo. Prima fra tutte la definizione del cottimo. La curva della retribuzione a cottimo era fatta in modo che tendesse abbastanza rapidamente a diventare orizzontale. In altre parole nessuno era incenti vato a tenere un ritmo produttivo massacrante, lavorando sempre più velocemente per guadagnare di più, perché oltre un certo limite la velocità non produceva alcun aumento di retri buzione. Altre scelte rappresentano delle vere e proprie innovazioni di valenza storica perché in anticipo sui tempi e in controtendenza rispetto alle pratiche “auspicate” allora da Confindustria. In questo senso la Olivetti fu la prima grande azienda italiana, e una delle primissime in Europa, a introdurre il sabato interamente festivo. Già nel 1956 aveva ridotto l'orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, ma un anno dopo, nel 1957, arriva alla de cisione di ridurre la settimana lavorativa a 5 giorni, sempre a parità di salario. Proprio in oc casione della prima riduzione, Adriano pronunciò queste parole davanti alla fabbrica: «Sia ben chiaro che è radicato in noi il pensiero che queste mete importanti [la messa in funzione dei servizi sociali] non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottrag gono quindi al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che concederà finalmente ad ognuno la prima libertà, che consiste nel poter spendere qual cosa di più del minimo di sussistenza vitale». 94 Possiamo affermare, in conclusione, che Adriano Olivetti, grazie alla sua abitudine di non considerare mai il lavoratore alla stregua di un mero fattore produttivo, abbia insegnato a un'intera generazione quanto fosse giusto, da parte di tutti, attendersi un lavoro dignitoso, un'occupazione stabile e buoni salari, in armonia con le ragioni dell'economia, del lavoro e della tecnica. II.2.2.3 L'estetica Il sodalizio tra industria e arte Secondo Paolo Bricco, «è proprio questa la peculiarità di Adriano Olivetti: l'idea che si possa fare industria, non conciliando l'industria con la bellezza, ma che si possa fare industria attraverso la bellezza e si possa fare bellezza attraverso l'industria». All'Olivetti l'estetica la fa da padrone. Oggi sono più numerose di allora le aziende che curano il design, la qualità della grafica, l'immagine. Ma è una cura quasi sempre, estrinseca, frutto della costruzione a freddo di un'identità volta a distinguere, per fini commerciali, il proprio marchio da quelli della con correnza. Nel caso della Olivetti questa cura era, per contro, la risultante di processi che, pur commercialmente orientati, scaturivano da una matrice culturale fondamentalmente indipendente da fini utilitari. Dunque, ancor prima di rispondere, come avverrebbe oggi, a un obietti vo commerciale (il prodotto bello che vende di più) l'integrazione tra arte e tecnica faceva parte della concezione che Olivetti aveva del mondo, della natura e della tecnologia. Una concezione che Paolo Ceri sintetizzerebbe in una parola: armonia. Per l'imprenditore eporediese funzionalità e bellezza erano intimamente inseparabili. L'aspetto dei prodotti veniva considerato di fondamentale importanza già dal fondatore Camillo Olivetti, che nel 1912 scriveva: «la macchina per scrivere non deve essere un gingillo da salotto, con ornamenti di gusto discutibile, ma deve avere un aspetto serio ed elegante nello stesso tempo». Negli anni Trenta, con Adriano Olivetti, l'attenzione al design acquistò un posto più rilevante ed esplicito nella gestione della società, raggiungendo in breve tempo punte di eccellenza. Nel 1935, per la prima volta venne realizzata una macchina da scrivere affian cando artisti e ingegneri, la Studio 42. Nella progettazione, affidata all'ingegnere Ottavio Luzzati, diedero il loro contributo il pittore Xanti Schawinsky (proveniente dal Bauhaus) e gli ar- 95 chitetti Figini e Pollini: è la nascita del design industriale italiano. Il Museum of Modern Art (MOMA) di New York nel 1952 organizzò per la prima volta una mostra di prodotti industriali il cui titolo era “Olivetti: design in industry”. Dalla Lexikon 80, alla Lettera 22, alla Programma 101, sono una decina gli articoli Olivetti che entreranno a far parte delle collezioni permanen ti del MOMA. Il confine tra prodotto e opera d'arte si stava assottigliando fino a non essere più percepibile. Quando in Italia ancora non esistevano scuole di design industriale, in Olivetti i designer erano già al lavoro. Designer che non si limitano a ricercare “un bel vestito” per una nuova macchina, ma che lavorano a stretto contatto con i progettisti per dare un senso e una giustificazione a ogni forma dal punto di vista comunicativo, funzionale, ergonomico. Nel 1931 Adriano Olivetti crea l'Ufficio Sviluppo e Pubblicità inizialmente diretto da Renato Zvetermich. Vi collaborano artisti e architetti d'avanguardia come Schavinsky, Persico, Nizzo li, Figini e Pollini, Munari, Veronesi, Modiano, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers, Pintoci, e successivamente Bonfante, Sottsass, Bellini, Ballmer, Bassi, De Lucchi. Dal 1937 al 1940 l'uffi cio è diretto da Leonardo Sinisgalli, il poeta ingegnere. Nel 1947 viene assunto Franco Fortini, l'intellettuale che si occupa, fino al 1960, delle pubblicazioni aziendali, delle campagne pubblicitarie e dei nomi dei prodotti (suoi i nomi scelti per la Lexikon, la Tetractys e la Lettera 22). Un ruolo primario è svolto da Marcello Nizzoli, architetto eclettico, che fin dal 1938 ha uno stretto rapporto di collaborazione con l'Olivetti, prima in qualità di pubblicitario e in se guito di designer. Tra i prodotti disegnati da Nizzoli si ricordano le calcolatrici MC4 Summa, Divisumma 24 e Tetractys; le macchine per scrivere Lexikon 80 e Lettera 22. In particolare la Lexikon 80 rappresenta un punto di riferimento nella storia internazionale del design per le soluzioni rivoluzionarie adottate che integrano innovazione tecnologica ed eccellenza formale: i due pezzi del coperchio e della copertura combaciano perfettamente con linee morbide, realizzate grazie al nuovo processo di pressofusione, per cui la carrozzeria può essere studiata come un unico involucro da modellare. Anche la Lettera 22 entra molto presto nel mito della storia Olivetti. Giovanni Pintori, pittore e designer, approda all'azienda eporediese nel 1936, quando Adriano Olivetti lo chiama a far parte dell'Ufficio Tecnico di Pubblicità, del quale diventerà responsabile nel 1940 e dove lavorerà come art director fino al 1967. Durante la sua carriera Pintori elabora alcuni tra i più famosi manifesti Olivetti, accompagnati da una larga serie di campagne pubblicitarie e copertine per depliant. Le sue creazioni fanno il giro del mondo e spingono i maggiori musei del mondo ad ospitare mostre in suo onore. Nel 1958 96 inizia l'attività di redattore pubblicitario, proseguita fino al 1980, il poeta Giovanni Giudici, che già dal 1956 si occupava della mitica biblioteca aziendale. Dal 1956 in Olivetti lavora Giorgio Soavi, scrittore e designer, che contribuisce all'organizzazione di eventi culturali, pro muove la produzione di raffinati libri strenna, litografie, agende, calendari e oggetti promozionali che diventano occasione per collaborazioni con grandi artisti (Folon, Munari, Botero, ecc.) e per rafforzare l'immagine dell'Olivetti come azienda sensibile all'arte e alla cultura. Numerosi sono i riconoscimenti sia nazionali che internazionali al design dei prodotti e alla pubblicità. Adriano Olivetti riceve per la prima volta a Milano il 24 settembre 1955 il Compas so d'Oro, premio istituito nel 1954 da un'idea di Giò Ponti che ha lo scopo di valorizzare la qualità del design italiano, per i meriti conseguiti nel campo dell'estetica industriale. Questo riconoscimento verrà conferito all'Olivetti altre sei volte. Se tutto ciò non bastasse a farci rendere ancora conto della portata rivoluzionaria dell'impegno Olivetti nel design, ecco una parte dell'intervista fatta da H. Levinson e S. Rosenthal a Thomas J. Watson Jr., fondatore e presidente dell'IBM, dove descriveva il risvegliarsi del suo interesse per l'immagine dell'azienda: «Vorrei tanto potervi raccontare che una notte, mentre me ne stavo a letto, mi colpì una grandiosa ispirazione. Ma in verità a colpirmi fu una grossa busta inviatami dal direttore generale dell'IBM olandese, che conteneva del materiale quanto mai esplicito. Egli mi scriveva: "Caro Tom, eccoti qui l'immagine complessiva dell'Olivetti e quella dell'IBM. Prova a fare un confronto". Lo feci, e mi resi conto che le nostre sembravano istruzioni per fare il bicarbonato di soda, mentre le loro erano vivacissime, eleganti, adatte a colpire l'immaginazione del cliente. A quel punto, decisi che avremmo fatto lavorare i migliori architetti, i migliori esperti del colore, i migliori designer che fossimo riusciti a trovare. Avremmo fatto una vera e propria opera d'arte moderna». Questa conversione fruttò a Watson il Premio Kaufmann per il design. Ricevendolo, in una cerimonia a New York, egli dichiarò: «È un premio che prendo per conto di altri, per uno che ci ha insegnato ad amare il bello nell'industria: per conto di Adriano Olivetti.» Ma non dobbiamo pensare che per Adriano la ricerca della bellezza estetica si esaurisse nell'aspetto di un prodotto o di un cartellone pubblicitario. Come lui stesso ebbe a dire in un di scorso milanese «sarebbe un errore drammatico il credere che soltanto il prodotto finito, destinato direttamente al pubblico, debba rivestirsi di nuova dignità formale. L'estetica industriale deve improntare di sé ogni strumento, ogni espressione, ogni momento dell'attivi tà 97 produttiva e affermarsi, nella più completa espressione, nell'edificio della fabbrica che l'architetto deve disegnare alla scala dell'uomo e della sua misura, il felice contatto con la natura, perché la fabbrica è per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica». La cura formale è totaliz zante, imprescindibile nella definizione di ogni singolo aspetto dell'impresa. Qualsiasi cosa va disegnata in modo da risultare tanto funzionale (a misura d'uomo), quanto un piacere per gli occhi. A riprova di quanto detto è possibile citare un piccolo ma significativo episodio. So lamente dopo la scomparsa di Adriano Olivetti alcuni ingegneri, pressati dalle nuove esigenze di controllo dei costi di produzione, cominciarono a chiedersi se era il caso di continuare a fabbricare tutti quei particolari interni delle macchine, in specie delle calcolatrici, in modo così bello e rifinito, dato che nessuno li vedeva. Per decenni si erano prodotti componenti in terni alle macchine che nessuno, tranne chi le costruiva, o qualche tecnico che anni dopo avesse dovuto ripararle, avrebbe mai visto. Componenti particolarmente ben disegnati, passa ti alla rettifica benché non fosse necessario, cromati con cura, e per sempre invisibili nel cuore di una calcolatrice o di una macchina per scrivere. Tutti insieme essi facevano dell'interno della macchina un ambiente non meno bello a confronto del suo design esterno. Ovviamente l'ingegner Adriano non era arrivato al punto di richiedere che il tale albero rotante di una calcolatrice dovesse essere confezionato in modo superlativo. Piuttosto era accaduto che tutta la fabbrica aveva assorbito l'imperativo per cui produzione ed estetica, efficienza e design, razionalità e bellezza dovevano essere due aspetti di una medesima composizione. Doveva scomparire lui perché qualcuno cominciasse a chiedersi se era davvero il caso di badare all'estetica di una serie di dettagli, sia interni ai prodotti sia esterni, che non parevano avere nessuna giustificazione in termini né di efficienza né di costo. Così come non pareva avere nessuna giustificazione la presenza di intellettuali e artisti chiamati a ricoprire comuni ruoli impiegatizi e dirigenziali. Ma, a ben vedere, una fabbrica talmente intrisa di valori estetici, probabilmente non sarebbe stata nemmeno ipotizzabile senza che artisti, letterati e uomini di cultura fossero presenti a ogni livello della struttura aziendale, venissero insomma adibiti a occuparsi tanto di marketing e di design, quanto di contabilità o gestione del personale. Qui s'inserisce il problema dei rapporti fra l'Olivetti e la cultura, tra l'Olivetti e gli intellettuali. Può darsi che in parte ci sia anche stato un rapporto di mecenatismo, ma quello che caratterizzava tali rapporti era il fatto che gli intellettuali fossero organici all'azienda e rappresentassero un elemento chiave del processo produttivo. L'intellettuale, di solito, è inteso come colui che elabora idee e non produce merci. Nell'Olivet - 98 ti esisteva invece interconnessione tra i due ambiti: merci e idee. Franco Tatò, allievo del filosofo Enzo Paci, gestiva le ragioniere della Contabilità; Tiziano Ternani, poi giornalista e saggista, sovrintendeva al personale delle consociate estere; Giancarlo Lunati, che veniva dall'Istituto Storico di Napoli, dirigeva il personale di Pozzuoli e il sociologo Federico Butera quello di Agliè; il pedagogista Antonio Carbonaro si occupava di formazione; Roberto Guiducci, politologo, dirigeva i cantieri edili; Michele Ranchetti, storico delle religioni, lavorava al Personale; alla Segreteria generale c'era Marco Forti, che ha scritto importanti saggi su Montale; il critico letterario Geno Pampaloni era il responsabile della Segreteria della Presidenza. Ottiero Ottieri, laureato in lettere, nel 1955 entrò in Olivetti come addetto alla selezione del personale. Proprio la sua esperienza di selezione degli operai per la nuova fabbrica di Pozzuoli gli diede l'ispirazione per il suo romanzo più famoso, Donnarumma all'assalto. Paolo Volponi, romanziere grande amico di Pier Paolo Pasolini, nel 1956 è chiamato da Adriano Olivetti a Ivrea per dirigere i Servizi Sociali aziendali. È evidente che mentre in altre imprese il letterato e l'artista interviene soprattutto nei rapporti aziendali verso l'esterno, lo "stile Olivetti" comincia dall'interno e il letterato è chiamato a contribuire anche alla qualità delle relazioni con i dipendenti e della proposta culturale rivolta al mondo del lavoro. Insomma all'Olivetti il connubio tra industria e arte non era un processo a senso unico: tanto quanto l'industria sconfinava nell'arte (merci nei musei), altrettanto l'arte sconfinava nell'industria (intellettuali nel ruolo di impiegati). La rilevanza sociale della bellezza Per comprendere appieno quanto contasse l'estetica per Adriano Olivetti, manca un ultimo, fondamentale tassello. Se è vero che le scelte estetiche in tutte le aree di attività fossero considerate non meno importanti delle scelte tecnologiche o gestionali, è altrettanto vero che all'Olivetti la rifinitura esterna dei prodotti, la ricercatezza delle forme architettoniche, la bellezza dei poster e dei messaggi pubblicitari, non fu mai soltanto comunicazione d'impresa. Certo lo stesso Adriano una volta disse che “dobbiamo far bene le cose e farlo sapere”, intendendo che l'impresa, oltre a ricercare l'eccellenza in tutte le attività, deve anche saper comunicare i suoi valori e costruire un'immagine che sia l'espressione veritiera della realtà aziendale. La bellezza della forma comunica l'essenza dell'azienda, secondo il principio che la qualità esteriore deve essere coerente, allineata con quella interna. Ma, all’Olivetti, la sua funzione non si esauriva qui. La ricerca estetica, infatti, veniva caricata di uno scopo superiore, uno scopo di 99 tipo etico; uno scopo che si andava a intrecciare con quelli che, secondo Adriano, erano i fini ultimi dell'impresa, facendo di lei una delle principali vie di realizzazione di detti fini. L'assi dua ricerca dell'armonia tra forma e funzione, tra utile e umano, tra ordine e libertà, s'ispira in Adriano all'idea platonica della bellezza. In Città dell'uomo egli riporta estesamente il seguente passo del Simposio: «E quando l'uomo si è elevato prendendo la buona via dell'amore delle cose del mondo sino a intendere la Bellezza, egli non è lontano dal fine. Colui che prende il giusto cammino deve cominciare ad amare le bellezze della terra e progredire, incessantemente, verso l'idea della Bellezza stessa: dall'armonia delle forme a quella delle azioni, dalla perfezione delle azioni a quella delle conoscenze, per raggiungere infine quell'ultima conoscenza che è la Bellezza in sé.» Dal momento in cui ci si convince che l'armonia delle azioni non sia perseguibile separata mente da quella delle forme, la bellezza diventa automaticamente un fattore di creazione di giustizia sociale. Ancora una citazione, questa volta tratta dal discorso inaugurale della fabbrica di Pozzuoli, ci aiuta per comprendere meglio: «Di fronte al golfo più singolare del mon do, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fos se di conforto nel lavoro di ogni giorno». Nella bellezza, fosse quella degli edifici o delle mac chine che la sua fabbrica produceva, scorgeva anche il vantaggio recato alla persona che ci viveva a stretto contatto e le adoperava. La macchina bella, la macchina esteticamente a misura d'uomo, era al tempo stesso una macchina in grado di far lavorare meglio, di far risparmiare fatica, di rendere insomma la vita migliore, anche se di poco. Ai designer si chiede di disegna re forme capaci di comunicare in modo immediato la funzione del prodotto, di facilitarne l'u so e di mettere l'utilizzatore a proprio agio, eliminando tutto ciò che è superfluo o ambiguo. Le macchine non sono oggetti di piacere o di evasione, né di uso breve o saltuario. Sono concepite come strumenti di lavoro, utilizzate per molte ore al giorno da persone che per buona parte del loro tempo lavorativo vi stanno sedute di fronte. Perciò si deve poter stabilire con esse un rapporto non sgradevole, di tensione allentata, di evidenza e semplicità d'uso. Ettore Sottsass, architetto italiano di fama internazionale impegnato all'Olivetti in qualità di designer, sapeva bene che il business da una parte e la bellezza e l'arte dall'altra, non sono cose per definizione inconciliabili, ma anzi hanno un gran bisogno l'uno dell'altra per l'equilibrio della società. 100 A tal proposito disse: «Non dimenticare mai che la tua attività di industriale ti dà una grande responsabilità, che è anche di natura culturale. Magari non ve ne rendete conto, ma per il fatto di riempire il mondo con milioni, decine di milioni, centinaia di milioni, milioni di milioni di oggetti, voi tutti industriali avete una enorme influenza, nel bene e nel male, sul nostro sviluppo cultu rale perché contribuite in modo determinante a "dare una forma" alla nostra società, a determinare la qualità della nostra vita». Tutto questo era chiaro ad Adriano a tal punto che costruì un'estetica che era allo stesso tempo anche una morale. II.2.2.4 Il valore comunità locali Il pensiero Per Adriano Olivetti la responsabilità di un'impresa non può esaurirsi relativamente al solo ambito dei suoi clienti o dei suoi dipendenti perché l'industria non è potenzialmente creatri ce di disagi soltanto per chi vi lavora o per chi compra le sue merci. La fabbrica, che va a inse rirsi in un determinato contesto territoriale, può determinare l'insorgere di numerose proble matiche per tutti gli abitanti di quel luogo. Oggi, in generale, si tende a porre la questione dell'impatto negativo di un’industra sul territorio in termini di inquinamento e degrado ambien tale. Ma bisogna tenere presente che a quei tempi il nostro era un Paese sempre in corso di industrializzazione. Nel 1948 l'economia italiana era sempre a carattere prevalentemente agricolo, tanto che l'industria occupava solo il 17% dei lavoratori; ma in poco meno di tren t'anni essa si sviluppò e arrivò ad occupare il 32% dei lavoratori, mentre l'agricoltura perse il 30% degli addetti ai lavori. Nella prima metà del secolo scorso quindi, quando all'Italia mancavano ancora diversi anni prima di raggiungere l'apice del suo boom economico, le industrie erano in piena fase di insediamento e, non essendo ancora così numerose da causare evidenti danni dovuti all'inquinamento, ponevano come problema principale lo sconvolgimento delle comunità locali dove andavano a installarsi. Comunità di tipo quasi esclusivamente rurale, essendo le province (luoghi prediletti dalle imprese per i loro insediamenti) a quei tempi molto più arretrate rispetto ai grandi centri abitati di quanto non lo siano oggi. Il contrasto tra due 101 mondi diametralmente opposti (da una parte le persone legate alla terra, ai ritmi della natura e alle loro tradizioni, dall'altra il simbolo per antonomasia della modernità, dell'inarrestabile progresso scientifico e tecnologico) rischiava di provocare traumi insanabili se non preso seriamente in considerazione come una delle prime responsabilità di un'impresa e da questa opportunamente gestito. Adriano Olivetti, ben consapevole di tutto ciò, era fermamente convinto della necessità di non stravolgere paesaggi, culture, modelli secolari di insediamento a causa dell'industrializ zazione. Credeva anzi profondamente nella necessaria simbiosi (usava precisamente questo termine) tra industria e territorio, tra azienda e comunità locale, e si adoperava per mettere la sua credenza in pratica. Per questo la sua fu una grande impresa, mondializzata come poche, ma rispettosa della sua regione come nessuna. Riteneva che fosse un dovere dell'azienda, ma anche un suo interesse, risultare radicata in una data collettività al pari, di altre istituzioni. Essere radicata in essa, per dire, come il municipio, o la scuola, o la Chiesa; come elemento caratteristico di una storia, di una identità culturale, di un paesaggio. Olivetti voleva che la popolazione delle valli e delle pianure circostanti andasse a lavorare in fabbrica, senza però abbandonare la terra. Quello di Adriano non è un nostalgico amore per un'idilliaca civiltà bucolica avviatasi ormai verso il tramonto, ma è il sincero riconoscimento dell'importanza, so prattutto nella fredda civiltà industriale nascente, di quei valori genuinamente umani di cui la cultura contadina è l'ultima custode. Le sue stesse, parole pronunciate in occasione del discorso inaugurale della fabbrica di Pozzuoli, non potrebbero esprimere più chiaramente una tale filosofia: «L'uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel pro fondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio. Abbiamo la sciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà, che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l'illuminazione di Dio era reale ed importante, la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini, erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti. L'uomo operava con le sue mani, esercitando i suoi muscoli, traendo direttamente dalla terra e dal mare i mezzi di vita. Lo sconvolgimen to di due guerre ha spinto l'uomo definitivamente verso l'industria e l'urbanesimo. Esso ha strappato il contadino alla terra e lo ha racchiuso nelle fabbriche, spinto non solo dall'indigenza e dalla miseria, ma dall'ansia di una cultura che una falsa civiltà aveva confinato nelle metropoli. Nacque così il mondo operaio del Nord in cui la luce dello spirito appare talvolta 102 attenuata, in cui la spinta per la conquista di beni materiali ha in qualche modo corrotto l'uomo vero, figlio di Dio, ricco del dono di amare la natura e la vita, che usava contemplare lo scintillio delle stelle e amava il verde degli alberi, amico delle rocce e delle onde, ove, tra silenzi e ritmi, le forze misteriose dello spirito penetrano nell'anima per la presenza di Dio. Abbiamo lottato e lotteremo sempre contro questo immenso pericolo; l'uomo del Sud ha abbandonato soltanto ieri la civiltà della terra: egli ha perciò in sé una immensa riserva dì intenso calore umano. Questo calore umano l'emigrante meridionale lo ha portato e donato in tutti i paesi del mondo ed è un segno inconfondibile del contributo che l'Italia ha dato alle civiltà d'Oltreoceano fecondate con un sacrificio in gran parte misconosciuto». Tradizionalmente il lavoratore viene, in pratica, considerato quasi come un oggetto materia le, al quale si può naturalmente chiedere, come si conviene alla natura degli oggetti, di fletter si per adattarsi all'andamento dei mercati, di adattare la propria esistenza, i propri ritmi di vita e di lavoro, la propria organizzazione familiare, le proprie relazioni sociali, perfino la propria personalità o i propri ritmi biologici, agli andamenti della produzione, dei quali sola mente l'impresa è giudice. Adriano ripudia una tale concezione del lavoratore, la ribalta completamente, ponendo la fabbrica in una posizione di sottomissione rispetto alle esigenze del l'uomo. Alla presa di coscienza dell'importanza di quei valori civili che, insieme ai territori in cui erano secolarmente radicati, rischiavano di scomparire, travolti dall'industrializzazione, si accompagna l'azione, gli interventi posti in atto per il loro rispetto, protezione e conciliazione con la vita di fabbrica. «Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura rischiava di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l'aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato di trasformare giorno per giorno l'uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza. La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell'uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le fi nestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l'idea di una costrizione e di una chiusura ostile. Ed ecco perché in questa fabbrica meridionale rispettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare l'uomo che doveva, entrando qui, trovare per lunghi anni tra queste pareti e queste finestre, tra questi scorci visivi, un qualcosa che avrebbe pesato, pur senza avvertirlo, sul suo animo.» 103 La fabbrica ha la precisa responsabilità di non provocare la rottura del contatto che i dipen denti hanno con la loro terra. Far progredire senza traumatizzare, senza spazzar via. Cambia re senza scordarsi mai chi si è e da dove si viene. Rispettare il lavoratore in quanto uomo depositario di preziosi valori legati alla tradizione e al suo territorio di appartenenza. Far sì che non esca dalla fabbrica troppo cambiato da come vi era entrato. «Ed è altrettanto importante – afferma lui stesso nel 1955, il giorno della vigilia di natale durante un discorso ai dipendenti – adoperarsi per far sì che la potenza e il potere della fabbrica raggiunti in virtù della dinamica del mondo moderno, siano rivolti oltre che ai fini del vostro benessere, al civile progresso dei luoghi ove siete nati e in cui vivete. Poiché a nessuno di noi deve sfuggire un solo istante che non è possibile creare un'isola di civiltà più elevata e trovarsi a noi tutt'intorno e ignoranza e miseria e disoccupazione.» Ammorbidire il più possibile lo strappo culturale che l’industria si trascina dietro come un peccato originale. Armonizzare i due mondi, lasciando entrare l’umanità delle comunità locali e la naturale bellezza dei territori dentro la fabbrica, e spargendo un “civile progresso”, con dividendo con essi la capacità che ha di creare benessere. Diffondere innovazioni sul territorio conservando però le ricchezze, soprattutto morali, proprie di quei luoghi. Ecco in sintesi qual è, secondo Adriano, la vera responsabilità sociale di un'impresa verso il suo territorio. Le iniziative Il problema dello strappo culturale tra fabbriche e comunità locali, nel dopoguerra, fu fortemente aggravato da una altro fenomeno, quello dell'immigrazione interna, ovvero il massiccio afflusso di persone provenienti da varie zone del Paese attratte dalle zone industrializzate. L'avvento dell'industrializzazione richiese infatti forti contingenti di lavoratori provocan do un grosso movimento migratorio che ebbe come effetto un gigantesco mescolamento di popolazione. Dal 1946 ad oggi circa 17 milioni di italiani hanno cambiato residenza, trasfe rendosi per motivi di lavoro da una parte all'altra del Paese, in particolare dal Sud verso le città industriali del Centro-Nord. Ma fu soprattutto nel corso degli anni Sessanta che un im ponente flusso migratorio portò molti lavoratori dalle aree agricole del Mezzogiorno verso le regioni del Nord Italia che potevano garantire posti di lavoro nelle loro fabbriche. Tipico è il caso di Torino dove gli stabilimenti FIAT assorbirono grandi quantità di manodopera, al punto che in alcuni reparti più dell'80% degli operai era di origine meridionale. 104 Nacque così il fenomeno dell'inurbamento, consistente nel più o meno accentuato spostamento e successivo insediamento di persone dalla campagna alle città. La conseguenza di ciò può essere l'evolversi, spesso incontrollato o incontrollabile, delle aree urbane col rapido in tensificarsi della densità abitativa, dando vita ad agglomerati estesissimi che oggi chiamiamo megalopoli, dal termine usato da J. Gottmann per la prima volta nel 1970 per indicare tale fenomeno. Nel caso in cui questo non venga gestito in modo tempestivo e opportuno dal le istituzioni, la rapidità con cui queste aree urbane crescono, provoca inevitabilmente la nascita di non lievi disagi a chi vi si trasferisce come la penuria di abitazioni o l'insufficienza dei servizi pubblici, arrivando a determinare, nei casi più estremi, l'insorgere di vaste aree su burbane di povertà con condizioni di vita miserevoli. In un tale contesto la responsabilità dell'Olivetti, secondo Adriano, era quella di fungere da elemento di incentivazione alla rovescia dei movimenti migratori, a cominciare da quelli a scala subregionale, che la sua crescita poteva indurre. E allo stesso tempo farsi carico dell'or dinata gestione delle conseguenze di tale crescita. In che modo? Investendo direttamente al Sud; agendo sulla politica delle assunzioni; regolando ordinatamente lo sviluppo dei nascenti quartieri operai e sostenendo la messa in atto di servizi pubblici adeguati. Adriano affermò sempre con chiarezza quanto vi fosse la necessità di «portare i capitali dove c'è forza-lavoro e non viceversa» per utilizzare solo la forza lavoro degli abitanti del luogo in cui sorgono le imprese. Non è un caso quindi se lui fu il primo industriale della sto ria italiana a intraprendere “la via del Sud”. Quando nel 1951 dovette decidere dove collocare un nuovo stabilimento di macchine calcolatrici, ancora una volta Adriano Olivetti fece una scelta controcorrente. Invece di utilizzare la sovrabbondante manodopera rappresentata dagli immigrati, decise di costruire uno stabilimento proprio là dove l'industria ha sempre lati tato. Ed ecco nascere in Campania un altro gioiello olivettiano. «Questa fabbrica – raccontava il giornalista Ugo Zatterin nel documentario Viaggio nell'Italia che cambia del 1963 – è la prima che sorse a Pozzuoli dopo il gran piazza pulita della guer ra. L'economia e la società di Pozzuoli cominciarono a rinascere 10 anni fa quando la Olivetti decise di costruire uno stabilimento per la produzione di macchine calcolatrici. Chi entri oggi in questo stabilimento non riesce a immaginare lo shock, il clima da animatissimo we stern, provocati 10 anni fa dal solo annunzio che alcuni signori venuti da Ivrea cercavano manodopera per una nuova fabbrica. Pozzuoli tutta e non poche località vicine, scattarono all'arrembaggio. In pochi giorni sui tavoli dell'ufficio assunzioni si ammonticchiarono 15000 105 domande, corredate ciascuna in media da 8 o 10 raccomandazioni tutte autorevolissime. La Olivetti dovette alloggiare i suoi dirigenti a parecchi chilometri di distanza per non vederli sopraffatti dai postulanti. Ci furono episodi di violenza culminati con l'esplosione, per fortuna senza vittime, di una bomba lanciata da un disoccupato inferocito.» È a dir poco evidente l'estremo bisogno di occupazione e di investimenti che affliggeva il Meridione. Ma il coraggio della decisione di rompere finalmente gli indugi venne ampiamente ripagata. Come, ce lo spiega Ottorino Beltrami, ex vicepresidente Olivetti: «Io mi ricordo che il clima di Pozzuoli era un vanto dell'Olivetti. In particolare la produzione di Pozzuoli era superiore come qualità e quantità alla produzione delle stesse macchine a Ivrea. Erano tutti disoc cupati e la voglia di lavorare in una grande azienda che forniva dei pasti ben fatti, che assisteva le mogli e i bambini con un asilo, era una cosa mai esistita nella zona di Napoli». L'idea di investire nel Mezzogiorno maturò nell'ambito delle politiche territoriali ed economiche promosse dall'UNRRA-Casas (United Nations Relief and Rehabilitation Administration – Comitato Amministrativo Soccorso ai Senzatetto), ente costituito per gestire i fondi ERP (European Recovery Program) e in cui Adriano Olivetti era coinvolto dal 1949 al 1951. La scelta della loca lizzazione dello stabilimento di Pozzuoli, inaugurato nel 1955, non fu quindi motivata dalla prospettiva di sgravi fiscali o di altri incentivi pubblici, ma è frutto delle politiche di sviluppo economico e sociale che in quegli anni Adriano Olivetti tenta di promuovere nel Sud di Italia. Sempre con l’intento di scongiurare l'immigrazione, decise di assumere, nel nuovo insediamento di Scarmagno a 10 km da Ivrea, esclusivamente persone residenti da almeno tre anni nel Canavese, dove la disoccupazione era ancora alta. La massiccia immigrazione che l’apertura del nuovo stabilimento poteva provocare, secondo le sue parole, «nell'inadeguatezza di case, scuole, strutture sanitarie, sconvolgerebbe l'equilibrio economico e sociale: noi ne pagheremmo le conseguenze, ma ne saremmo i responsabili». Ma le scelte a sostegno della comunità locale, in materia di politica delle assunzioni non fi niscono qui. Infatti, un'altra fonte di problemi era data dal fatto che i dipendenti erano quasi tutti a capo di famiglie numerose, e con il solo stipendio spesso facevano fatica a far fronte alle spese della famiglia. Si rendeva necessaria la creazione, nel tessuto antropologico della comunità circostante la fabbrica, di nuclei economici abbastanza forti, che in qualche modo potessero dare un contributo propulsivo all'economia locale; alternativa migliore, nell'opinione di Adriano Olivetti, rispetto al disperdere gli interventi a pioggia su tutta la popolazione. 106 Così l'Olivetti cercò sempre di assumere per ogni famiglia più di un membro della medesima, in modo che nello stesso nucleo familiare ci fossero più apporti retributivi. L'accertamento e la graduazione delle condizioni di bisogno vennero affidate al Servizio Assistenti Sociali. Merita ricordare a tal proposito un promemoria inviato dall'ingegner Adriano alla Direzione Relazioni Interne l'11 maggio 1953: «Il colonnello Pomo [allora Capo Servizio Personale Operaio] mi ha rapidamente informato di un sistema di punteggio ideato per creare ordine nelle assunzioni. Io sono favorevole al punteggio purché sia fatto entro tre gruppi, che potrebbero essere: A) operai da prendersi in virtù di eccezionali qualità: ad esempio, 4 su 10; B) operai da prendersi in virtù di assoluta necessità familiare, con un minimo di attitudine professionale: ad esempio, 3 su 10; c) ope rai da assumersi in ordine di capacità professionale, ma a complemento dei nuclei familiari esistenti: ad esempio, 3 su 10. Ho anche notato che spesso si parla di fratelli, cugini, cognati e altre cose che non rappresentano l'essenzialità che è la convivenza continua, senza la qua le le ragioni familiari dovrebbero cadere». Sempre per evitare che i dipendenti abbandonino la casa nel paese natio per inurbarsi in Ivrea, assicura anche, fin dal 1937, servizi di pullman aziendali che, in assenza di trasporti pubblici, provvedono agli spostamenti tra casa e lavoro. Ma per quanto l'immigrazione e l'inurbamento potessero essere mitigati, l'ingegnere ben sapeva che in nessun modo si sarebbe ro potuti azzerare. Quindi successiva questione di cui preoccuparsi era la prevenzione di una possibile “inadeguatezza di case, scuole, strutture sanitarie” dovuta al loro non parallelo adattamento alle esigenze di una comunità in crescita. Per risolvere il problema delle case, nel 1937 Adriano avvia costruzione dei numerosi quartieri progettati dai migliori architetti della scena italiana ed europea, in accordo col loro inserimento in un sensato piano regolato re. In più ci si proponeva anche che l'ambiente circostante ai propri insediamenti non venisse deteriorato. Due dirigenti, gli architetti Aventino Tarpino e Ottavio Cascio, avevano il preciso compito di disegnare gratuitamente i progetti per tutti i dipendenti che volevano costruirsi una casa nel Canavese, per evitare, sosteneva l'ingegner Adriano, che si mettessero nelle mani di geometri che avrebbero potuto deturpare il paesaggio. Riguardo alla fornitura di un'idonea copertura dei servizi per tutta la comunità, l'Olivetti, cosciente di non potersi sostituire al ruolo spettante agli enti pubblici nonostante l'inadegua tezza delle loro iniziative, era comunque determinata a sostenerne lo sviluppo e adeguamento, sia finanziariamente, sia apportandovi quelle conoscenze metodologiche maturate nella 107 lunga esperienza di espletamento di servizi simili rivolti ai dipendenti. A tal fine nel 1953 istituisce l'Ufficio Studi Relazioni Sociali incaricato di realizzare ricerche e analisi, oltre che sulle relazioni interne tra i dipendenti, sulle abitudini di vita della popolazione canavesana in genere, e soprattutto sulle interazioni che la fabbrica aveva con il suo ambiente e sulle riper cussioni volute e non volute che si ingeneravano nell'impatto con il territorio circostante e la sua popolazione. Già dal 1952 aveva avviato, sotto la gestione dei Servizi Sanitari Olivetti, dei consultori igienico-sanitari nei paesi più sfavoriti delle valli canavesane, aperti gratuitamente alla popolazione. Inoltre vennero formulate proposte e si offre consulenza ai Comuni per lo sviluppo di enti educativi, assistenziali ed economici. In seguito, dal 1970, prese avvio un programma globale di miglioramento delle scuole materne, raggiungendo un'ottantina di pae si. Venne portato a termine grazie all'apporto professionale e finanziario dell'Olivetti e alla stipula, per la formazione degli insegnanti, di una convenzione con il Centro Didattico Nazionale per la Scuola Materna. Man mano che un Comune costruiva una scuola, Olivetti erogava a quello stesso Comune aiuti aziendali e i prestiti per la costruzione e per l'attrezzatura della cucina e delle aule. Quando un Comune costruiva una scuola materna che rispon desse (come orari, e soprattutto come funzionamento) a un livello accettabile, l'azienda cessava di accogliere i bambini dei residenti per favorire la nuova iniziativa del Comune. Questo lento passaggio portò più tardi, negli anni Ottanta, alla chiusura delle scuole materne aziendali. Con i nidi fu più difficile: venne, sì, anche la legge che li costitutiva, ma erano un servi zio molto più costoso e complesso da gestire. Il passaggio dei nidi al settore pubblico avven ne quando ormai l'Olivetti stava riducendo tutto, e il nido fu l'ultimo servizio aziendale a reggere. L'importanza di questi servizi non stava soltanto nelle loro realizzazioni ma anche nel modello che proponevano alle amministrazioni locali. L'Olivetti, avendo sviluppato dei modelli funzionanti e all'avanguardia, si preoccupava del passaggio di queste preziose conoscenze alla scuola pubblica. Va detto, infine, che lo stesso Adriano Olivetti, consapevole dell'importanza di non costitui re eccessivi legami di dipendenza del territorio con la sua sola azienda, si proponeva anche di generare mercati del lavoro locali. Lo fece fondando nel 1954 l'Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale (I-Rur). Ente non profit, l'I-Rur era sovvenzionato principalmente dall'azienda, ma altresì da donazioni e dalle quote di nuovi soci. Il suo scopo statutario era di favorire nelle zone depresse d'Italia, non soltanto nel Canavese, l'apertura di piccole fabbriche, la for - 108 mazione di cooperative agricole moderne, la costruzione di nuove abitazioni. L'I-Rur non ri mase sulla carta. In pochi anni, grazie all'impegno e all'abilità dei suoi capi (pochi dirigenti della Olivetti destinati espressamente a tale incarico) mise in piedi parecchie iniziative. Alcune esistono ancora oggi, come la cooperativa di Montalenghe nel basso Canavese. Purtroppo, venuto meno con la scomparsa di Adriano l'appoggio della fabbrica, l'esperienza istituzionale dell'I-Rur ebbe termine. A detta di Luciano Gallino però, il principale fattore che pesò sul destino delle aziende I-Rur fu la dipendenza psicologica che in diversi strati sociali del Canavese si era diffusa nei confronti di Adriano Olivetti. Da lui davvero tutti si aspetta vano tutto. Compreso, facendo riferimento all'I-Rur, un fiume ininterrotto di ordinativi da parte della sua fabbrica. Se i quadri, i tecnici, gli impiegati, gli stessi operai di quelle aziende avessero distolto più spesso, o più a lungo, lo sguardo dai palazzi e dalle offici ne di Ivrea, per rivolgerlo alle opportunità che la regione o il paese potevano offrire alle loro giovani aziende, queste sarebbero state presumibilmente più longeve. In questa luce ci si può chiedere chi fosse meno politicamente maturo: se l'ingegner Adriano, oppure i gruppi sociali che egli cercò, con breve successo, di far camminare con le proprie gambe. Concluderei ponendo ancora l’accento su come, nell'opinione di Adriano Olivetti, la respon sabilità sociale di un'impresa nei confronti delle comunità locali non si esaurisse nell'obiettivo di impedire che le persone dei dipendenti della fabbrica non si trasformassero in un esse re troppo diverso da quello che vi era entrato. Oltre a ciò, un'impresa dovrebbe contribuire attivamente (con finanziamenti, oculate scelte organizzative, condivisione di conoscenza) al progresso socio-economico, migliorando per quanto in suo potere la qualità della vita nelle comunità che la circondano, affinché diventino il più possibile un ambiente «ordinato e proporzionato alle dimensioni dell'uomo; un luogo più felice dove i campi, le fabbriche, cioè la natura e la vita ricondotte a unità, ritrovino quella compiuta armonia che alberga soltanto nella pace e nella libertà». 109 II.3 Le opere II.3.1 Una panoramica sui servizi II.3.1.1 Introduzione Negli anni Cinquanta esistevano anche in altre aziende italiane, grandi e meno grandi, varie forme di mutue aziendali, con le loro colonie, l'assistenza medica e altri tipi di servizio socia le. Ma nell'insieme ciò che la Olivetti offriva, in alcuni casi da decenni, era incomparabile per l'ampiezza della copertura che offriva alle famiglie, la sicurezza della protezione, la qualità dei servizi. Sebbene i servizi sociali Olivetti raggiunsero il loro massimo sviluppo tra gli anni Cinquanta e Settanta, la loro storia non ha inizio con l'entrata in fabbrica di Adriano nel 1932 in qualità di Direttore Generale, ma è radicata nella genesi stessa dell'impresa, tant'è vero che è Camillo Olivetti a creare nel 1909, ad appena un anno dalla fondazione, la prima mutua aziendale. A questa contribuivano in ugual misura i dipendenti e la direzione. E nel 1919, anno di disagi e penuria per la guerra, avviò la corresponsione di un'”indennità famigliare”, trasformandosi poi in un sistema di "assegni famigliari" che integrino la retribuzione. Camillo diede avvio anche l'assegnazione di case ai dipendenti, facendo costruire nel 1926 il primo edificio per le loro abitazioni. La vera e propria espansione dei servizi sociali prende inizio negli anni Trenta, ed è un'espansione dilagante, che arriverà in breve a coprire qualsiasi tipo di rischio e a soddisfare tutte le principali esigenze che potessero manifestarsi nella famiglia di un dipendente. «Quando i problemi tecnici che si presentavano nel mio lavoro furono risolti e il successo fi nanziario che ne fu la principale conseguenza lo permise, fui tratto ad occuparmi della vita di relazione fra gli operai e la fabbrica. Le casse mutue funzionavano male, l'accentramento era disastroso, un operaio tubercolotico per essere ricoverato doveva trasmettere le pratiche al capoluogo di provincia, di là a Roma». Queste poche righe che Adriano Olivetti scrisse sulla rivista Il Ponte pubblicata nell'agosto-settembre 1949 ci forniscono una prima idea delle mo- 110 tivazioni che lo spinsero a istituire servizi di fabbrica ineguagliati nel panorama industriale italiano. Per ogni tipologia di rischio o di bisogno arrivò a fornire un manto di protezione e di assistenza ad altissimo livello, tanto che tale sistema organico di servizi talvolta viene ricor dato come lo “stato sociale olivettiano”. II.3.1.2 I destinatari Per comprendere fino in fondo il perché di una tale profusione di risorse in campo sociale, c'è bisogno di comprendere prima in che tipo di tessuto sociale si andassero a inserire, sape re chi ne fossero i destinatari. Se tali servizi raggiunsero un eccezionale livello di estensione, non fu infatti dovuto esclusivamente a scelte aziendali di politica sociale, ma anche alla condizione particolarmente bisognosa del popolo canavesano, in cui la benevolenza e lungimiranza dell'ingegnere trovò terreno fertile per mettersi alla prova. Benché la maggior parte di queste attività fosse rivolta ai dipendenti e alle loro famiglie, di alcune poté usufruirne tutta la popolazione come ad esempio le iniziative di profilassi medica per la prevenzione della tubercolosi o il servizio di trasporto di fabbrica, l'uso del quale era concesso a tutti agli studenti. In sostanza, come afferma Giannorio Neri, tutte queste iniziative si configuravano più come un vero e proprio servizio sociale che come un servizio aziendale, proprio per il legame instauratosi tra l'impresa e il territorio. Egli stesso ci dà testimonianza della situazione problematica in cui ancora nel 1962 vertevano le genti del Canavese: «Ho camminato tanto, a piedi, per questi paesi. E la cosa che mi aveva più impressionato era la miseria. Anche se una certa azione di bonifica sociale era già stata intrapresa, nei paesi dove c'era ancora, la miseria sembrava proprio senza speranza; mi ricordo certi paesini, nemmeno tanto lontani da Ivrea: Carema, Settimo Rottaro, Tavagnasco, oppure altri, verso la Val d'Aosta, oppure ancora i paesi della Valchiusella, dove le famiglie che erano rimaste povere lo erano veramente. I problemi legati a situazioni come queste – dal punto di vista dei Servizi Sociali – erano assai difficili: pensate alle pressioni per esser assunti.» Questo diffuso stato di indigenza era aggravato dalla penuria e limitatezza di iniziative assistenziali pubbliche che caratterizzò l'Italia del periodo pre-boom economico. Emblematiche dell'esigenza di riempimento di un vuoto istituzionale, sono le parole dello statuto della Fondazione Domenico Burzio la quale vide la luce nel 1932, creata appositamente per garantire 111 all'operaio «una sicurezza sociale al di là del limite delle assicurazioni». I servizi sociali della Olivetti non mirarono mai a sostituirsi al sistema pubblico, ma semmai a colmarne le nume rose lacune e ad anticiparne i tempi. Infatti, con il progressivo rafforzarsi dello stato sociale, per effetto di nuove leggi e nuovi contratti collettivi di lavoro, il ruolo dei servizi aziendali tese a ridursi, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, fino alla loro quasi totale scomparsa. II.3.1.3 La qualità Una volta chiarite le problematiche alla base della vastità di tali servizi, bisogna poi riconoscerne un aspetto fondamentale: l'eccellenza continuamente ricercata nel loro dispiegamento. I servizi, infatti, non furono concepiti come semplici adempimenti amministrativi, ma come prestazioni improntate a criteri di qualità e di efficienza. Per ognuna delle numerose iniziative (la costruzione di un asilo nido, di un nuovo quartiere operaio, di messa in cantiere di una nuova mensa o altro) i moduli organizzativi, i livelli di prestazione, le forme architettoniche eccetera, comportavano spesso, se non sempre, ricerche, ricognizioni all'estero, con l'invio di tecnici, architetti, esperti a osservare, rilevare intervistare, così da selezionare quanto di me glio veniva fatto nei casi più esemplari e conosciuti. Insomma offrire una sufficiente copertura di base non bastava, ogni cosa andava fatta nel migliore dei modi possibili, impiegando gli strumenti e i metodi più innovativi e all'avanguardia nel panorama internazionale. Quegli stessi servizi sociali avrebbero potuto essere benissimo erogati in modo più meccanico, standardizzato, in conformità alla routine amministrativa. Si potevano sicuramente fare competenti visite mediche ai bambini anche in ambulatori disadorni, oppure inviarli in colonie montane che non fossero disegnate da famosi architetti. Invece, in tutti i servizi sociali della Olivetti di Adriano, in primo piano era la qualità complessiva che nasce dalla combinazione di ricerca della bellezza, della componente estetica, e di attenzione per la persona, con il perseguimento di un'elevata efficienza. Questo perché le politiche di Welfare, in luogo di essere intese esclusivamente come politiche redistributive, come è stato fino a tutti gli anni Ottanta, erano uno dei modi in cui l'impresa poteva apportare il suo contributo alla ricerca di una mi gliore qualità del lavoro e della vita individuale e collettiva, nell'obiettivo di essere uno dei principali fattori di mutamento positivo del tessuto sociale. 112 Nella filosofia che ispira questa visione non è però estranea l'idea che un ampio sistema di assistenza sociale contribuisca a migliorare il rendimento (ovvero la produttività) e il coinvolgimento dei lavoratori. Adriano ben sapeva quanto fosse importante per l'azienda avere una forza lavoro, un insieme di lavoratori i quali, sapendo che il loro personale destino era assi curato, le loro famiglie non correvano rischi senza protezione, e i figli erano ben assistiti sin dall'infanzia, potevano dare alla fabbrica più intelligenza e impegno che non nel caso in cui invece avessero sentito attorno a sé il vuoto. E, con esso, l'addensarsi di vari tipi di incognite. È ovvio che la creazione di un ambiente sociale positivo rafforzò la fedeltà del lavoratore e la sua disponibilità a collaborare attivamente allo sviluppo dell'impresa. II.3.1.4 Il Consiglio di Gestione Altra caratteristica distintiva di queste attività fu il loro essere state impostate non a mo’ di una generosa concessione dell'impresa, ma al contrario come un diritto che giustamente spetta al dipendente. Non si può tuttavia negare che lo “stato sociale” olivettiano fosse fatto di concessioni più che di conquiste. Questo è certo vero. Va però detto che il senso di avere diritto a qualcosa, come il diritto a servizi sociali efficienti e di alta qualità, nasce anche con l'abitudine, la pratica quotidiana. È difficile immaginarsi, per dire, che dei comitati ad hoc di lavoratori, andassero a chiedere che la colonia montana in Val d'Aosta fosse disegnata da un famoso architetto e fosse collocata in uno dei siti più belli della valle. Sarebbe già stato inusuale un comitato che a quei tempi avesse chiesto specificamente una colonia montana. Ad esempio Giovanni Avonto, ingegnere addetto ai brevetti, ammette che «Inizialmente, alcune cose sono nate per un'iniziativa di stampo paternalistico, e invece altre sono state, successivamente, il frutto della convinzione che bisognava ragionare tra controparti, aventi pari dignità, in modo da riuscire attraverso la contrattazione a trovare un punto d'incontro che fos se il risultato delle rispettive esigenze, dei rispettivi interessi». Con le sue concessioni, Adria no faceva anche maturare delle aspettative che gradualmente arrivavano a essere percepite come diritti, come un elemento che fa parte della normale qualità della vita in una società civile. In fondo lo sviluppo dello stato sociale, in Italia come in altri paesi, ha seguito in grande proprio un processo del genere. Servizi concessi inizialmente dallo Stato alla maggioranza della popolazione senza che i singoli membri di questa, in concreto, avessero mai pensato di 113 domandarli, sono stati via via giustamente percepiti da ciascuno come diritti irrinunciabili. Si veda quanto è accaduto con il servizio sanitario nazionale. All'interazione quotidiana che si è stabilita tra quel che le Asl offrono, e quel che i cittadini pretendono ormai come un diritto di cittadinanza, dobbiamo tutti alcuni anni di vita in più. Per Adriano era quindi fondamentale fare in modo che l'operaio, sottoponendo un proble ma agli assistenti sociali, non avesse l'impressione di andare a chiedere un favore o di riceve re un'elargizione paternalistica del padrone. Voleva che lo facesse con la convinzione che ottenere un sostegno fosse una cosa dovuta, spettantegli in base non al volere di un suo supe riore ma al possesso di determinati requisiti oggettivamente valutabili da un personale all'altezza. Ciò, sempre per quel discorso di instillare in loro la consapevolezza della dignità del proprio lavoro, un lavoro che rende naturalmente meritevoli di assistenza, senza che ci sia il bisogno di convincere qualcuno per ottenerla. A far da garante a una tale filosofia, era l'indi pendenza dal vertice aziendale con cui questi servizi erano gestiti essendoci un apposito organo, il Consiglio di Gestione, in cui erano rappresentate tutte le categorie di dipendenti, il quale aveva potere decisionale assoluto in materia di ripartizione delle risorse destinate dalla Direzione per i servizi sociali e di assistenza. Proprio l'inizio della Carta Assistenziale, redat ta tra il 1949 e il 1950 dal Consiglio di Gestione, sottolinea questo aspetto fondamentale: «Il servizio sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni lavoratore dell'Azienda contribuisce con il proprio lavoro alla vita dell'Azienda medesima […] e potrà pertanto accedere all'istituto assistenziale e richiedere i relativi benefici senza che questi possano assumere l'aspetto di una concessione a carattere personale nei suoi riguardi». Lo stesso ingegner Adriano, in un discorso ai lavoratori, spiegava loro che il Consiglio di Gestione «sinceramente, cerca di rendere questa fabbrica, compatibilmente con le situazioni di fatto, un posto più dignitoso, più libero per vivere e lavorare». Le parole di Cornelia Lombardo rimarcano molto bene l'importanza di un tale organo, un'importanza storica, non limitata al ristretto ambito della gestione dei servizi: «Adriano Olivetti era il presidente del Consiglio di Gestione, nel quale c'erano sia i rappre sentanti dell'azienda sia quelli dei lavoratori, e insieme c'era anche il presidente dell'azien da. È stato lui a mantenere vivo il Consiglio di Gestione, che altrove scomparve, proprio perché apprezzava questo spirito di maggiore solidarietà negli interventi: così il dipendente sapeva di poter accedere liberamente a un proprio diritto, a cui dava un contributo come lavo ratore. Questa fu, secondo me, una delle maggiori innovazioni che l'ingegner Adriano portò 114 nel campo dei servizi sociali. Il Consiglio di Gestione aveva potere sul fondo dei Servizi So ciali, deliberava la ripartizione dei vari fondi e controllava ogni intervento: insomma, per noi che operavamo a contatto, il Consiglio di Gestione rappresentava la voce dei lavoratori e insieme dell'azienda.» Riassumendo, i servizi sociali della Olivetti si differenziarono da analoghe esperienze di grandi industrie italiane non solo per la vastità, ma soprattutto per la qualità, l'indipendenza dall'azienda nella loro gestione e l'apertura verso la comunità locale. II.3.1.5 Le scienze sociali Nella sua opera di modernizzazione economica e civile del Paese, Adriano Olivetti ha contribuito come pochi altri alla promozione culturale e all'accreditamento professionale di disci pline nuove o rinnovate, come l'urbanistica e il disegno industriale. Ma è alle scienze sociali e, in particolare, della sociologia, al cui non facile decollo, dopo la lunga pausa del fascismo e della guerra, che egli diede un sostegno determinante. Osteggiata nelle università e avversata dalle tradizioni culturali allora dominanti, la sociologia italiana postbellica ha avuto nel laboratorio di Ivrea uno dei suoi principali “incubatori”. In particolare, accanto a quello costituito da circoli e istituzioni del mondo cattolico (dei gesuiti, dell'Università Cattolica di Milano, di settori della Dc) la Olivetti, il Movimento Comunità e le Edizioni di Comunità sono state per almeno un quindicennio il motore dello sviluppo della componente laica della sociologia. Principale motivo per cui Adriano Olivetti ne promosse la diffusione è che si tratta di una di sciplina che intende costruire una immagine senza trucco dell'economia, della politica, della vita sociale, della cultura, ivi compresa la scienza e la tecnologia. Per questo, una volta riconosciutone il valore, la volle a tutti i costi introdurre all'interno dell'azienda e farne un capo saldo, insieme alla psicologia, della gestione del personale e dei servizi sociali. La carica innovativa e controcorrente di una tale scelta risulta evidente se pensiamo che la prima facoltà italiana di sociologia venne aperta soltanto nel 1962 all'Università di Trento, due anni dopo la scomparsa di Adriano. Anche se quindi, per quei tempi, si trattava di una disciplina del tutto nuova e vista con diffidenza, l'ingegnere non risparmiò risorse per contribuire a renderla una scienza a tutti gli effetti, in grado di apportare un contributo alla gestione dell'impresa che da quel momento in poi divenne indispensabile. La promozione degli studi sociologici effet- 115 tuata direttamente o indirettamente da Adriano Olivetti si compendia di questo record: il primo centro di ricerche sociologiche mai istituito entro un'azienda italiana; una decina di pro fessori ordinari di sociologia che hanno iniziato la loro carriera scientifica a Ivrea quando i docenti universitari della materia si contavano sulle dita; centinaia di borsisti e stagisti; una collana di classici della sociologia, pubblicata a partire dal 1961 dalle Edizioni di Comunità, che non ha uguali nel panorama dell'editoria mondiale; decine di migliaia di studenti universitari che hanno studiato e tuttora studiano sociologia sui classici e sui contemporanei pubblicati sin dai primi anni Cinquanta dalle medesime Edizioni. Va comunque detto che la figura del sociologo ebbe bisogno di diverso tempo per superare le incertezze iniziali affinché la sua introduzione nella vita aziendale risultasse completa ed efficace, incontrando, come Luciano Gallino ci ricorda, delle resistenze provenienti dall'azien da stessa: «Nei confronti dei sociologi, gli atteggiamenti della maggior parte di tali dirigenti, soprattutto dei dirigenti della produzione, furono in genere assai più chiusi, se non anzi ostili, di quanto non fossero invece nei confronti degli psicologi. Negli psicologi essi scorgevano un tipo di attività che per diverse vie poteva contribuire a risolvere i quotidiani conflitti tra direzione e dipendenti, intrinseci alla gestione d'una grande azienda in rapido mutamento e in forte crescita. Per contro i sociologi erano visti, come d'altra parte accadeva un po' dovunque nella società italiana, come dei curiosi dalle funzioni imprecisate che pretendevano di frugare nei classificatori, negli archivi della società, perfino nei cassetti dei dirigenti, senza avere strumenti operativi da offrire in cambio. Simili difficoltà interne implicarono che, al di là degli intenti e delle idee di Adriano Olivetti, i sociologi per diversi anni fossero spinti a occuparsi in prevalenza di aspetti periferici dell'azienda, quali le condizioni sociali del territorio canavesano, il livello di vita dei dipendenti in rapporto ai lavoratori di altre aziende, la pianificazione di nuovi insediamenti, come Agliè e più tardi Scarmagno. Furono anche frequentemente utilizzati, sin dagli anni Cinquanta, come docenti. Solamente negli anni Sessanta i sociologi cominciarono a occuparsi, su richiesta della direzione del personale, di questioni organizzative.» 116 II.3.1.6 Uffici e figure professionali al servizio della responsabilità aziendale Nel 1957 viene inaugurata di fronte agli stabilimenti principali di Ivrea una nuova sede, la cosiddetta “fascia dei Servizi Sociali", che accoglie le attività e i coordinamenti centrali dei servizi sanitari, sociali e culturali. A una delle entrate si leggono ancora parole dette, inaugurandola, da Adriano Olivetti: «Questa nuova serie di edifici posta di fronte alla fabbrica sta a testimoniare, con la diligente efficienza dei suoi molteplici strumenti di azione culturale e sociale, che l'uomo che vive la lunga giornata nell'officina non sigilla la sua umanità nella tuta da lavoro.» L'Ufficio Studi Relazioni Sociali nacque nel 1954 sotto la guida di Alessandro Pizzorno. Suc cessivamente diventa Servizio Ricerche Sociologiche e Studi sull'Organizzazione. Ha sviluppa to la sua attività soprattutto sotto la guida di Luciano Gallino, e in seguito di Federico Butera. Si è occupato in particolare di sociologia economica e organizzativa, come ha testimoniato più di ogni altra l'attività di ricerca dello stesso Gallino e le sue pubblicazioni. Finita la guerra a Ivrea nasce il Laboratorio Psicotecnico, che poi nel 1955 evolve nel Centro di Psicologia. Questo si occupa della selezione esterna per l'assunzione di personale, e della selezione interna per le promozioni; collabora all'attività di formazione; conduce ricerche sul l'organizzazione del lavoro (insieme agli enti interessati), ricerche che aprono le trasforma zioni degli anni settanta; fornisce appoggio alla gestione, insieme ai Servizi Sanitari e ai Servi zi Sociali, per il supporto e la soluzione dei casi personali difficili; assume la responsabilità del Centro di Riqualificazione Operai (meglio noto come Centro R). Gli psicologi, rispetto agli assistenti sociali, furono utilizzati in attività connesse più da vicino al funzionamento degli stabilimenti. Diversamente dai sociologi, essi intrattenevano regolarmente un dialogo serrato con l'Ufficio Tempi e Metodi (UTM). Seppure nell'insieme l'organizzazione del lavoro alla Olivetti fosse da definire sostanzialmente tayloristica, essa configurava una qualità del lavoro migliore di quanto non si potesse osservare in altre aziende italiane del tempo. Questo risul tato ha avuto tra le sue componenti anche l'interazione dialettica che ebbe luogo per anni tra gli ingegneri, i capi reparto, gli esperti dell'UTM, e le istanze d'ordine psicofisiologico avanza te dagli psicologi. Diverse durezze del modello tayloristico furono, a quanto si può ricostrui re, attenuate dal confronto con questi professionisti. Si può infine notare che gli psicologi ve - 117 nivano normalmente utilizzati anche per la selezione del personale, al fine di stabilire chi era più adatto per andare al montaggio, alle presse, o in altri reparti. Il Centro di Psicologia colla borava particolarmente bene con l'Ufficio Assistenti Sociali. Su richiesta di questo, una volta ad esempio, gli psicologi misero a punto un dossier, una cartella per la selezione delle puericultrici, che venne affinata con un profilo psicologico. Il Centro di Riqualificazione venne creato appositamente per i casi di disadattamento al lavoro. Si rivolgeva a persone con handicap fisici e mentali permanenti oppure transitori (assunti per quota di legge, infortunati, convalescenti da malattie debilitanti), lavoratori ai quali veniva consentito di acquisire un salario e di rimanere nella dignità del posto di lavoro sino al pensionamento. Vi era un'assistente sociale che seguiva con lo psicologo questi operai che in questo piccolo reparto si dedicavano a lavori meno impegnativi e di vario tipo. Il Centro R era affidato a un responsabile affiancato da capisquadra e da analisti del lavoro, che adeguavano tanto il posto quanto gli attrezzi di lavoro alle disabilità individuali; essi istruivano e seguiva no personalmente i progressi dei soggetti sino a ricollocarne la maggior parte in normali reparti di lavoro. A volte l'assistente segnalava all'azienda un rendimento insufficiente che veniva dopo lunghi periodi di malattia; un esempio tipico è quello degli operai che riprendevan o il lavoro dopo una lunga assenza per malattia tubercolare e avevano difficoltà nell'inserim ento in cottimo. L'azienda concedeva loro un'introduzione lenta al cottimo prevedendo man sioni più leggere, facilitando molto il loro rientro ed evitando le ricadute. Dal Centro R sono passate centinaia di persone, con una media di 30/40 nei singoli periodi. L'Ufficio Assistenti Sociali è istituito nel 1936 e il suo sviluppo accompagna quello dell'azienda. In Olivetti le assistenti sociali non erano solo raccoglitrici di documenti ed esecutrici di pratiche previdenziali: avevano il compito di agire per i casi di scompensi economici e sociali che possono sempre sorgere anche nella più efficiente organizzazione industriale, per individuare, vagliare e rimuovere fattori esterni e interni che potessero influire negativamente sulla capacità del lavoratore e sulla sua capacità consapevole di integrazione. Intervenendo nelle situazioni dei dipendenti, l'assistente sociale ne acquisisce una conoscenza che trasmette alla Direzione e ai Servizi interessati (il Personale, i medici, i quadri delle unità produttive). Compito delle assistenti sociali era quindi, da un lato, agire praticamente verso i dipendenti e, dall'altro, segnalare all'azienda la necessità di modificare via via gli interventi stessi. Con il suo giudizio professionale autonomo, l'assistente sociale operava come un vero servizio di 118 fabbrica in collaborazione con gli uffici del personale, contribuendo alle attività di assunzio ne, di gestione, di sostegno delle persone e delle famiglie. Conducevano inoltre esami su gruppi lavorativi, s'interessavano dell'orientamento scolastico dei figli dei dipendenti, e partecipavano a varie commissioni aziendali, quali la Commissione Indennità di Posto e la Commissione per lo Studio degli Infortuni del Lavoro. L'Ufficio Assistenti Sociali intrattenne buoni rapporti anche coi sindacati, i quali lo consideravano su un piano professionale, e collaborò attivamente con il Consiglio di Gestione. Questo si faceva vivo con le sue segnalazioni per di scuterne con gli assistenti e ascoltare la loro voce professionale; quando, per esempio, sosteneva le necessità di una particolare persona, prima chiedeva il loro parere. Nessuno toglieva al sindacato questo ruolo; era anzi un elemento di forza. Per quanto riguarda i casi d'assunzione, fornivano consulenza in duplice modo: o l'Ufficio del Personale richiedeva all'assistente sociale lo studio di un caso di assunzione oppure era la stessa assistente sociale a segnalare all'Ufficio del Personale casi di grave scompenso economico richiedenti la necessità dell'assunzione di un membro della famiglia. Di solito l'assistente, su richiesta dell'Ufficio del Personale, svolgeva un'indagine familiare e poi trasmetteva, con indipendenza di giudizio, il suo parere sia sulla necessità d'assunzione sia, eventualmente, sulle attitudini che questa persona poteva avere per un certo lavoro; anche se poi naturalmente questa selezione veniva compiuta dal Centro di Psicologia. L'importanza del loro ruolo nello svolgimento delle assunzioni è resa bene dalle parole di Giannorio Neri, il quale ricorda come a quei tempi, nel canavese, «gli uffici di collocamento erano praticamente inesistenti e riuscire a capire chi, davvero, aveva più bisogno di entrare in fabbrica non era facile; fare poi il match tra il bisogno delle persone e le esigenze dell'azienda era ancora più difficile. Il gruppo di assistenti sociali dell'Olivetti era ben preparato e aveva una funzione insostituibile nell'apportare informazioni significative non solo sulla situazione sociale ed economica del territorio ma anche sulla mentalità e sulle reali condizioni famigliari. Le assistenti sociali, inoltre, continuavano a seguire i loro casi all'interno dell'azienda anche dopo l'assunzione. Questo era un punto molto importante: qualsiasi persona, di fronte ai casi concreti e delicati che le vengono presentati, si commuove, non è così? Però non è detto che proprio quello sia realmente il caso di maggior bisogno. Le assistenti sociali avevano la pazienza, invece, di andare a fondo, per capire se davvero quel caso poteva essere considerato prioritario rispetto ad altri. Successivamente, in Olivetti ho fatto esperienza di selezione del personale operaio: beh, se confronto l'atteggiamento che avevano le assistenti sociali con quello dei parroci... c'era un abisso. Appe - 119 na sono stato incaricato dell'assunzione degli operai, li ho visti tutti, i parroci del Canavese, e ognuno portava i suoi casi. Al secondo incontro, il mio discorso fu questo: «Sentite, io sono disponibile ad accettare le vostre segnalazioni, ma voglio guardarci dentro. Ogni volta che mi direte "Questo è un caso umano, un caso di povertà", io chiederò sempre alle assistenti sociali di verificarlo. Se l'assistente sociale non me le conferma, le vostre segnalazioni rimangono lì, nel calderone generale delle persone che teniamo in vista». Quei parroci sparirono. Quando l'assistente sociale mi riferiva su un caso segnalato, io chiamavo il parroco: «L'assistente sociale mi riferisce che questo è suo nipote... L'assistente sociale mi riferisce che questo è fratello del tal dei tali... Non è possibile fare così! O queste cose le facciamo onestamente, e le vostre segnalazioni sono obiettive – e allora avrete ascolto, anzi saremo tutti interessati – oppure non ne facciamo niente!». Questo tanto per caratterizzare lo stato di quel problema in quel momento.» Riguardo alle altre attività di gestione del personale, gli assistenti trattavano i casi di disadattamento al lavoro, trasferimenti e cambi di posto, pensionamenti, i casi di malattia e infor tunio e la ripresa del lavoro dopo lunghi periodi di malattia. Quando si presentava un proble ma di disadattamento al lavoro oppure di scarso rendimento, allora la segnalazione poteva venire o dall'Ufficio del Personale o dal caporeparto, con cui le assistenti sociali avevano con tinui rapporti. L'assistente sociale vedeva il dipendente, studiava il caso e poi riferiva all'Uffi cio del Personale o agli psicologi con i quali collaborava. In questo senso, il lavoro delle assi stenti sociali venne sempre più qualificandosi come un intervento chiarificatore nei confronti del dipendente: non toglieva nulla alla responsabilità di chi organizzava il lavoro né al rap porto tra l'operaio e il caporeparto ma, anzi, il loro intervento aggiungeva un giudizio libero, autonomo, soprattutto professionale, contribuendo significativamente alla gestione aziendale. Facevano regolarmente riunioni di gruppo, discutendo i casi insieme per avere anche una visione unitaria delle cose. Ciò portò in seguito a una suddivisione dei compiti per reparto: c'era l'assistente sociale di montaggio, quello d'officina, quello dell'attrezzaggio eccetera. Il fatto che l'assistente sociale svolgesse uno stage in fabbrica per conoscere l'ambiente di lavoro rendeva più facili i rapporti con i capi intermedi, con i capireparto. 120 II.3.2 Le iniziative concrete II.3.2.1 Sanità La prima mutua aziendale del 1909 si evolse nei vari Fondi di Solidarietà Interna (FSI) istituiti presso le diverse sedi dell'Azienda a partire dal 1° aprile 1960. Il Fondo definisce i diritti di dipendenti, pensionati e loro familiari a interventi integrativi di quelli forniti dagli Enti pubblici di assicurazione e previdenza, quali l'INAM (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro le Malattie nato intorno alla fine degli anni ‘40), l'INPS e l'INAIL, assicurando loro pre stazioni sanitarie e trattamenti ospedalieri di eccellente livello (dipendenti e familiari posso no fruire di diagnostica e terapia anche in centri esteri). Questi Fondi hanno quindi lo scopo principale di integrare le insufficienti o incomplete prestazioni degli enti pubblici, con l'intenzione non di sostituirsi ad essi, bensì di affiancarli intervenendo dove l'assistenza risulti meno adeguata al particolare tipo di lavoro e alle necessità dei dipendenti. I lavoratori Olivetti alimentavano il Fondo di Solidarietà con un contributo individuale mensile (inizialmente pari a 250 lire) che si aggiunge a quello più consistente versato dall'azienda (750 lire). Il Comitato Amministrativo dell'FSI era composto da due membri della Direzione e da tre rappresentanti dei lavoratori. All'inizio degli anni '30 nacquero i Servizi Sanitari di fabbrica, con l'obiettivo di assicurare adeguate cure mediche a tutti i dipendenti dell'azienda e ai loro familiari. La sua sede si trovava a Ivrea nei pressi dello stabilimento principale e al suo interno si trovavano diverse sezioni, ognuna dedicata ad una particolare attività: una piccola biblioteca scientifica a disposi zione dei medici, un impianto di aerosolterapia, un gabinetto radiologico, una sala per le iniezioni, uno studio dentistico, eccetera. Nel 1936 s'istituisce il Servizio Sanitario di Fabbrica, che andrà sviluppandosi e articolandosi con l'espansione dell'impresa, condividendo l'impegno all'eccellenza delle iniziative di questa. L'organico dei Servizi Sanitari garantì un'assistenza medica ad ampio raggio, per cui i dipendenti e i loro familiari avevano la possibilità di rivolgersi in ogni momento a medici gene rici, odontoiatri, medici specialisti che, in maniera del tutto gratuita, provvedono alle cure necessarie o indirizzano i pazienti verso strutture sanitarie più adeguate. I medici che lavorava - 121 no all'Olivetti erano legati all'azienda da un rapporto di consulenza, e non di dipendenza; questo lasciava loro la più ampia libertà professionale. Il primo compito dei Servizi Sanitari era rappresentato dalle visite mediche di assunzione alle quali vengono sottoposti tutti gli aspiranti dipendenti Olivetti. Una volta assunti in azienda, i lavoratori potranno usufruire di altri servizi, come le visite periodiche generali oppure gli esami di controllo per coloro che si sono assentati dal lavoro a causa di una malattia o di un infortunio. Inoltre, per quegli ammalati che non possono lasciare la loro abitazione, erano previste visite a domicilio, sempre gratuite. Un altro compito dei Servizi Sanitari, svolto dal medico di fabbrica, consisteva nel controllare che l'ambiente di lavoro rispettasse tutte le norme igieniche e prevedesse delle apparecchiature in grado di mantenere le condizioni ideali in cui lavorare. Dei Servizi Sanitari faceva parte anche il Convalescenziario, struttura con una capacità di 22 unità, situata sulla collina di Burolo (TO), sulla Sella d'Ivrea. Questo impianto ospitò tutti quei dipendenti (e a volte anche i loro familiari) usciti dal sanatorio dopo aver affrontato un rico vero, permettendo loro di trascorrere la convalescenza in un ambiente salubre e piacevole, per un periodo che va da un minimo di 20 giorni a un massimo di 6 mesi. L'importanza e l'estensione dei servizi sanitari aziendali con il passare degli anni viene len tamente ridimensionata, come logica conseguenza delle migliorate condizioni economiche dei lavoratori e del rafforzamento del Servizio Sanitario Nazionale, che in molti campi rende superflua l'esigenza di una struttura privata nata proprio per sopperire alle assenze e caren ze della sanità pubblica. II.3.2.2 Maternità Nel 1941 entrò in vigore del regolamento ALO (Assistenza Lavoratrici Olivetti) che assicura va assistenza alle dipendenti nel periodo prenatale, durante la gravidanza e nei mesi di allattamento. L'Olivetti si distingueva per una politica particolarmente all'avanguardia in tema di maternità. Il regolamento, riadattato con l'evolvere dei contratti nazionali e delle politiche nazionali di previdenza sociale, sancì infatti il diritto a una retribuzione pari all'80% dello sti pendio per tutto il periodo di stop dal lavoro dovuto alla gravidanza. Periodo che era di 9 mesi e mezzo (sei mesi prima del parto e tre successivamente a questo), 4 e mezzo in più ri - 122 spetto al minimo stabilito per legge nel 1950. In più era previsto anche un contributo per ogni nascita in casa di un dipendente, padre o madre. La gravidanza, tanto quella delle dipendenti quanto delle mogli di dipendenti, veniva seguita dal consultorio prenatale che offriva assistenza ad ampio raggio, tendendo a creare un rapporto di fiducia tra la futura madre e il personale che si occuperà del bambino nell'asilo nido. Lo sviluppo del bambino fin dai suoi primi mesi di vita veniva seguito tramite il consultorio lattanti aiutandole «ad allevare il piccolo in modo razionale e moderno, non solo dal punto di vista fisico, ma anche con un preciso criterio educativo», parole del volume Olivetti Servizi e assistenza sociale di fabbrica pubblicato nel '53. Questa funzione venne svolta fin dagli anni Trenta dal dispensario per lattanti che, aperto una volta la settimana, dava consigli alle mamme e distribuiva medicinali e alimenti per la prima infanzia. Nel 1952 comincia la creazione, soprattutto nei paesi del Canavese, di consultori gratuiti aperti a tutta la popolazione, con lo scopo di praticare assistenza ostetrica e profilassi prenatale in luoghi dove la cultura igienica è ancora piuttosto arretrata. Uno degli aspetti più im portanti del servizio sanitario Olivetti fu proprio la ricaduta del lavoro dei medici sul territo rio, in termini di educazione sanitaria e di prevenzione (soprattutto per le malattie veneree e i casi di tubercolosi). A questo proposito ricordiamo anche la realizzazione di importanti pro grammi di prevenzione (vaccinazioni e visite odontoiatriche), come ad esempio la campagna di vaccinazioni anti-poliomielitiche del 1957, la prima attuata in Italia, quando le autorità statali non avevano ancora emanato alcuna disposizione al riguardo. L'ambulatorio pediatrico prestava assistenza medica a tutti i figli dei dipendenti fino ai 14 anni; i medicinali prescritti erano a carico dell'azienda, che forniva rimborsi anche per visite specialistiche (se consigliate dall'ambulatorio), apparecchi ortopedici, acustici e occhiali. II.3.2.3 Infanzia Asili nido e scuole materne occupavano un ruolo centrale nelle politiche della Olivetti per l'infanzia. Non dimentichiamo che all'esterno, come iniziativa pubblica, i nidi non esistevano. Le scuole materne erano quelle religiose, che non erano certo sufficienti e la legge che istituisce la scuola materna pubblica in Italia è del 1970 (tali iniziative ebbero infatti grande svilup po fino agli anni settanta). Il nido accoglieva i figli delle dipendenti da 6 mesi a 3 anni, men- 123 tre la scuola materna era per i bambini dai 3 ai 6 anni figli di lavoratori o lavoratrici. La quota di iscrizione era molto bassa (30 lire al giorno nel 1953, pari a circa 0,43 euro del 2005). Il primo asilo di fabbrica venne istituito nel 1934, contemporaneamente a un servizio di pedia tria. Figini e Pollini progettarono il vasto asilo nido e la scuola materna di Borgo Olivetti, inaugurato nel 1942. Mentre si destinano ai bambini nuove sedi, come la bellissima Villa Ca sana, nel 1954 si apre l'asilo nido dello stabilimento di Barcellona. Su disegno di Mario Ridol fi, concepito in modo esemplare come struttura adatta all'attività libera del bambino, un nuovo nido è aperto nel 1964 nel quartiere operaio di Canton Vesco riadattando una vecchia ca scina e trasformandola in una scuola dove i bambini facevano anche le prime esperienze di cura dell'orto e di allevamento degli animali. Lo segue l'asilo nido di Banchette d'Ivrea. Vennero inoltre forniti aiuti ad asili privati e pubblici sia in termini economici che di aggior namento delle metodologie pedagogiche. L'apertura verso la comunità locale divenne ancora più evidente nel 1961, con l’istituzione di un doposcuola comunale a pagamento per tutti i bambini della città: la quota di partecipazione era a carico per 1/3 delle famiglie e per 2/3 dei servizi sociali Olivetti. Va sottolineato come gli asili nido e le materne Olivetti, mentre offrono assistenza e solida rietà alla lavoratrice madre, non fossero dei semplici baby-parking di custodia dei bambini. Le iniziative si distinguevano per l'innovazione e la qualità sia sul piano pedagogico, che su quello delle strutture, pensate “a misura di bambino”. L'originalità della funzione pedagogica era rappresentata dal fatto che fosse volta a consentire il massimo spazio alle capacità espressive del bambino e a favorire rapporti intensi tra bambini e con gli adulti. In un ambiente e fra arredi adeguati, la vita di "piccolo gruppo" veniva accompagnata dalla presenza continuativa della stessa monitrice. Si vuole creare un ambiente aperto e stimolante: scopo dell'educazione non è somministrare nozioni, ma piuttosto offrire ai bambini la possibilità di un armonico sviluppo fisico, intellettuale ed emotivo in un ambiente tollerante e favorevole, cioè ricco di stimoli adeguati. Per questo l’Olivetti organizzò propri corsi di formazione e ag giornamento per puericultrici e maestre. Le maestre e le bambinaie venivano scelte con attenzione e poi avviate a seguire, per una durata di tredici settimane, corsi di psicopedagogia, igiene, dinamica di gruppo, che si concludono con uno stage presso un asilo. Come ricorda Giannorio Neri, addetto ai Servizi Sociali dello stabilimento di Borgo Lombardo, «i nidi e le scuole materne avevano standard di un livello che io non ho più ritrovato da nessuna parte, nemmeno quando hanno incominciato a istituirli in ambito regionale. L'atten- 124 zione, la cura, erano molto intense e non si trattava di numeri piccoli: nei nidi c'erano 300 se non più bambini mentre nelle scuole materne si è arrivati ad averne quasi 600. È un dato che ricordo perché, per poco tempo, sono stato anche "la direttrice"... Così mi chiamavano i bambini». Per i bambini e gli adolescenti che hanno terminato il periodo della materna, i servizi sociali Olivetti si concentravano su colonie e campeggi, per molti anni completamente gratuiti. È lo stesso Giannorio Neri a raccontarci che «curate dai Servizi Sociali con la stessa attenzione per gli asili, erano le colonie: quelle estive, per tutti i figli dei dipendenti, e quelle invernali, per i più piccoli che ne avessero avuto bisogno. Per questa attività veniva messa in atto una grande capacità di formazione per le monitrici e i monitori. La selezione era accuratissima, la preparazione era affidata a centri specializzati di valore. C'era una continua riflessione su quello che era successo durante la giornata negli atelier e nei giochi, un aspetto che altrove ha assunto spesso un valore pura mente rituale o non è stato nemmeno attivato. Per un confronto tra le colonie Olivetti di quel periodo e le colonie FIAT dello stesso periodo, ci vorrebbe la penna di Augusto Frassi neti, che sulla FIAT scrisse tra l'altro un bel libro, intitolato Tre bestemmie uguali e distinte e fra le tre bestemmie uguali e distinte c'era anche questa: le colonie FIAT.» Anche in queste attività, dunque, l'aspetto educativo era estremamente curato. Nelle colonie marine, per quanto riguarda i nidi e le materne, si appoggiarono al Centro Italo-svizzero di Rimini, che dal punto di vista pedagogico aveva raggiunto un altissimo standard, per cui mol te delle loro insegnanti provenivano da lì. In generale non seguivano nessun metodo pedagogico particolare ma erano orientati ai movimenti educativi più nuovi, ispirati soprattutto al metodo ludico del CEMEA (Centre d'Entraìntement aux Méthodes de l'Education Active), nato in Francia e poi sviluppatosi anche in Italia. I direttori e le monitrici di colonia, dei quali si valutano accuratamente le attitudini, partecipano a uno stage formativo presso una sede italia na del CEMEA, dove sono preparati soprattutto sotto il punto di vista delle esperienze di gio co e di vita comune. Poi nel lavoro non subiscono imposizioni, sono in grado di condursi liberamente. L'intenzione era fare in modo che i bambini partecipassero a un'esperienza di vita collettiva godendo di grande autonomia; organizzati in piccoli gruppi che si autoregolano sotto il controllo di un adulto, svolgono giochi e attività che li stimolano ad esprimere la propria personalità. Anche l'adolescente doveva anzitutto attivarsi, doveva assumere la sua responsabilità personale, avere una vita di gruppo che favorisse lo sviluppo individuale. Al vivo 125 interesse di Adriano Olivetti si deve questo sviluppo innovativo di asili e colonie, e gli stessi rapporti con i pedagogisti francesi del CEMEA e con i pedagogisti italiani di questo indirizzo. Le prime colonie estive, un mese di soggiorno al mare o in montagna, sono del 1932. L'im portante colonia montana di Saint-Jacques de Champoluc è aperta nel 1939. La colonia mari na di Massa è ultimata nel 1951. Negli anni successivi si aprono le colonie di Sarzana e di Donoratico. S'inaugura nel 1961 la colonia montana di Brusson, fortemente voluta da Adriano Olivetti e di nuova concezione, disegnata dagli architetti Conte e Fiori in stretta collaborazio ne con gli assistenti sociali, i pedagogisti e la direzione dei Servizi all'Infanzia. Non era più la colonia tradizionale monoblocco: era articolata in settori, c'erano cinque padiglioni collegati, in cui il bambino poteva avere un'autonomia di gioco, di scelta, d'interesse. Queste attività sono anche l'occasione per intraprendere numerosi scambi culturali: figli di dipendenti delle consociate estere sono accolti nelle colonie italiane, adolescenti italiani sono inviati in campeggi all'estero e loro coetanei stranieri sono ospitati in campeggi italiani. Dagli anni '50 si svolgono anche i pre-campeggi per ragazzi dai 12 ai 14 anni e i campeggi per giovani dai 15 ai 20 anni, sia figli di dipendenti che dipendenti essi stessi. A Ivrea nel 1953, in una bella zona collinare vicina ai principali stabilimenti, viene aperta anche una colonia diurna che, nel periodo di chiusura delle scuole, accoglie i figli dei dipendenti dai 6 ai 14 anni. Importante per capire la visione che Adriano Olivetti ha della responsabilità sociale è il caso dell'apertura di questa colonia diurna, citato dalla stessa Lombardo: «Era arrivata in Presidenza, da un gruppo di operai di un quartiere, la segnalazione che alcuni bambini avevano tirato sassate contro i vetri delle case: “Questi ragazzi ci rompono i ve tri: insomma, fate qualcosa voi”. Io fui chiamata in Presidenza, e mentre Geno Pampaloni, che era allora responsabile della segreteria di Adriano, mi leggeva questa lettera, uscì dal suo ufficio l'ingegner Adriano; gli fu detto perché ero lì. Mi chiese cosa ne pensassi. Dico: “Ingegnere, questi ragazzi sono a casa da scuola per le vacanze estive, le madri sono al lavo ro, loro sono soli nel quartiere, si annoiano e tirano sassate”. Lui mi disse: “Veda cosa si può fare”. Senza perder tempo, mi procurai la collaborazione di un maestro elementare: affiggemmo un avviso per i ragazzi del quartiere che fossero interessati a passare la giornata con lui. Al mattino li raccoglieva, li portava nei boschi e poi a mangiare in mensa. Il primo anno fu così; il secondo anno pensai: "Qui c'è bisogno di una struttura". E allora la famosa Cascina Vesco, che poi fu trasformata in scuola materna, venne usata come colonia diurna: ne adattammo i locali (c'era ancora il fienile) e apprestammo delle aule. Da una semplice se gnalazione si creò perciò un servizio che l'ingegner Adriano appoggiò con convinzione. La 126 colonia diurna era molto richiesta, perché cosa possono fare le mamme che lavorano quando i bambini non sono a scuola, soprattutto durante l'estate? Avevamo, già dal 1952, un do poscuola in collaborazione col Comune: così la colonia diurna divenne una realtà per chi lavorava in azienda. Quest'iniziativa ebbe una forte espansione, tanto che negli anni settanta venne costruita una seconda colonia diurna, che esiste tuttora: la Cascina Girelli, studiata con degli spazi soltanto diurni, con dei laboratori, con la mensa. Alla fine, avevamo circa 700 bambini: questo soggiorno prendeva tutta una collina. Anche questo fu un servizio che nacque da una segnalazione, espressione dei rapporti diretti che vivevamo in questa azien da.» Infine vi erano le attività di pre-colonia per bambini di età fra i 3 e i 6 anni, la cui salute abbisogna di una cura climatica al mare o in montagna. Anche i bimbi di età inferiore ai 3 anni, per i quali l'ambulatorio pediatrico raccomanda un soggiorno al mare, sono ospitati in colo nie dell'azienda, accompagnati dalle madri. Durante questo periodo le madri godevano di un permesso retribuito, contro il quale nessuna urgenza lavorativa ha la facoltà di opporsi. A tal proposito merita riportare la significativa testimonianza della Lombardo sull'istituzione di quest'ultimo tipo di servizio: «Le assistenti sociali, a un certo punto, si erano trovate a rispondere alla richiesta di molte donne di poter portare i bambini al mare: in questa zona c'erano molte forme asmatiche e il Servizio Sanitario segnalava i casi di bambini che avevano bisogno di un periodo al mare. Le madri, nei primi tempi, venivano a richiedere alle assistenti dei contributi; noi ci siamo tro vate a darne molti, dal momento che l'azienda non aveva certo dubbi a usare il Fondo per questi casi. Suggerimmo allora all'azienda, che accettò, un servizio per cui le madri poteva no andare in una nostra colonia, che le ospitava: da qui non si dava più il contributo per an dare in un albergo. Era anche una soluzione più controllata dal punto di vista sanitario, e questo fu uno dei servizi più belli per le madri, che, molte volte ansiose per la salute del bambino, potevano così stargli vicino in questi venti, ventidue giorni. Questo fu un bisogno individuato e realizzato dal nostro Servizio.» A partire dagli anni '80, in seguito alla diminuzione del numero dei dipendenti e allo svilup po di strutture e servizi sociali pubblici più evoluti, anche la partecipazione alle colonie Oli vetti, così come l'utilizzo degli altri servizi aziendali per l'infanzia, entra in una fase calante. In particolare, dal 2000 i figli dei dipendenti Olivetti cominciano a usufruire delle colonie estive di Telecom Italia. 127 II.3.2.4 Formazione professionale Introduzione L'attitudine olivettiana a mettere in primis il dipendente in quanto persona al centro delle proprie politiche, considerandolo cioè non soltanto come una risorsa a disposizione dell’azienda ma come un uomo “a tutto tondo”, rese inconfondibili i metodi didattici dei vari isti tuti Olivetti e, in particolare, quello adibito alla formazione degli operai, dove la necessità di dare consapevolezza dei fini del proprio lavoro era maggiormente sentita. Tutta la formazione professionale e manageriale in Olivetti incluse temi culturali che permettevano la colloca zione e l'impiego delle competenze lavorative nel contesto della vita sociale. L'intenzione era offrire a tutto il lavoro, esecutivo e direttivo, orizzonti di conoscenza e opportunità di rifles sione. Il Centro Formazione Meccanici Il problema della formazione degli operai si accentua in Olivetti nel corso degli anni '30, quando la rapida crescita dell'azienda e la complessità del processo produttivo aumentano la difficoltà di trovare nel territorio canavesano operai con un'adeguata preparazione tecnico-industriale. Divenuto improponibile il vecchio modello che prevedeva di qualificare l'apprendi sta o il manovale comune affiancandolo a un operaio esperto, l'Olivetti comincia a pensare di organizzare in modo sistematico dei corsi interni di formazione. Il primo nucleo di attività formativa è del 1934-35: dei quindicenni con licenza elementare, scelti come futuri specialisti meccanici e fino ad allora addestrati direttamente nel lavoro produttivo, furono posti in un locale a parte, sotto la guida un operaio esperto. Da lì crebbe a poco a poco una struttura sco lastica che appena dopo la guerra, pur continuando sempre a evolversi, prese la forma di cor si ad alto contenuto formativo, che proseguirono con il nome di Centro Formazione Meccanici (noto come CFM) per altri trent'anni fino al 1967, qualificando oltre 1.400 giovani operai. Dopo aver finito la scuola d'avviamento o la media, i giovani affrontavano un concorso, mentre dalla fine degli anni cinquanta vennero selezionati con prove psicotecniche e un col loquio. Moltissimi erano i candidati alle prove per i 30 posti come allievi al corso triennale, il vero e proprio CFM. C'erano inoltre i 30 posti per un corso di qualificazione meno complesso, 128 della durata dapprima di tre e poi di due anni, che dava adito alla qualifica operaia. Coloro che avevano finito il CFM, dopo una certa esperienza in produzione, potevano esser scelti a tempo pieno per un corso biennale di perfezionamento. Il giovane che superava il concorso per entrare nel CFM era inquadrato con un contratto speciale stipulato tra l'Olivetti e la Ca mera del Lavoro d'Ivrea, e poteva godere delle provvidenze e dei servizi sociali aziendali. Come studente, e insieme apprendista meccanico, era retribuito con un salario solo leggermente inferiore a quello operaio ma superiore a quanto avrebbe potuto guadagnare altrove. Questo salario contribuiva alla serietà formativa, insieme col valore degli insegnanti (spesso dirigenti, capireparto, organizzatori) e con le esperienze nella realtà dei reparti (eccetto le fe rie, le vacanze scolastiche erano utilizzate lavorando in produzione). Chi non ce la faceva non veniva espulso dall'azienda ma era immesso nelle lavorazioni di serie. Il Centro era destinato a formare in prevalenza gli addetti alle officine di attrezzaggio. Nel CFM ai giovani della zona che aspiravano a entrare in azienda come operai specializzati, o che volevano diventarlo dopo essere entrati come apprendisti, si insegnavano in primo luogo le tecniche della meccanica di precisione, della lavorazione con macchine utensili, della rifini tura al banco di attrezzi per la produzione, in ultimo della costruzione di stampi (settore fon damentale per un'azienda che produceva macchine formate principalmente di particolari stampati). Ma, come già è stato accennato, non si insegnavano soltanto materie tecniche nel CFM. I programmi scolastici erano caratterizzati da un originale stile educativo, in linea con lo stile imprenditoriale di Adriano. Essi vennero «stabiliti tenendo conto di quelli dei moderni Paesi industriali»: le materie tecniche (matematica, fisica, meccanica, elettrotecnica, disegno ecc.) comportavano conoscenze pressoché equivalenti a quelle di un corso per periti, tanto che non pochi conseguivano poi il diploma all'esterno come studenti serali. Gli orari giornalieri erano via via quelli della fabbrica di allora, con molte ore dedicate alle esercitazioni nell'apposita officina, in cui si faceva pratica anche sulle macchine utensili, quelle stesse che molti di quei giovani avrebbero poi costruito nello stabilimento di San Bernardo, un settore in cui la tecnologia Olivetti era considerata di alto livello mondiale. Notevole peso avevano anche le materie non tecniche: cultura generale (con una particolare libertà di letture, lasciate anche alla scelta degli studenti, che usufruivano della biblioteca Olivetti), storia generale, storia dell'arte (affidata alla cattedra di storia dell'arte dell'Università degli Studi di Milano). Emerge qui una figura centrale della formazione olivettiana: si tratta del professor Ferdinando Prat, anti - 129 fascista e partigiano della Resistenza che subì anche la deportazione, figura culturale di rilie vo nel Canavese. Insegnò nelle scuole aziendali Olivetti (Centro Formazione Meccanici, Corso di Cultura Tecnica e Corso di Perfezionamento, Istituto Tecnico Industriale) dall'inizio degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta. Il suo insegnamento copriva la storia generale, elementi di cultura politica e costituzionale italiana, la struttura delle istituzioni internazionali del secondo dopoguerra, la cultura sindacale con riferimento alla legislazione del lavoro (dalla formazione del rapporto di lavoro, agli obblighi reciproci di lavoratore e imprenditore, alla composizione e alle determinanti della retribuzione, alle cause di risoluzione del contratto di lavoro) e alla legislazione sociale (la previdenza sociale, le assicurazioni sociali) e infine la cultura economica (nel 1957 introdusse l'argomento delle prospettive economiche e sociali dell'automazione e dell'elettronica per il Corso di Perfezionamento, e nel 1959 quello dell'e conomia pianificata). Cleto Cossavella ricorda queste parole la propria esperienza formativa al CFM: «Parliamo del 1956. Si trattava di una cosa avanzatissima, eccezionale per l'epoca, e anche vista adesso. Infatti, se seguiamo il percorso in Olivetti dei 60 entrati con me, vediamo che la maggior par te di loro – diciamo il 90% – sono diventati impiegati di prima categoria superiore o dirigenti. Le prospettive erano buone: ci venivano forniti tutti gli elementi culturali possibili per crescere». Chiediamoci in quale altra azienda degli anni Cinquanta, epoca di conflitti industriali du rissimi, di sindacati, quali la Cgil, legati politicamente all'estrema sinistra e in conflitto permanente con le grandi imprese, non senza motivo, si sarebbero potute istituire scuole del genere. Scuole che apparivano sì deputate primariamente alla formazione di operai meccanici, ma nelle quali, passavano di regola intellettuali e storici, anche di sinistra, e perfino sindacali sti, che venivano a insegnare la storia del movimento operaio e la critica dell'economia politica. Tutti i frequentanti potevano imparare, e non con una mezz'ora di conferenza ma con dei veri e propri corsi della durata di varie ore, quali erano stati i conflitti, le tensioni, i drammi della rivoluzione industriale, come avevano agito e che cosa avevano patito i loro antenati nel corso dell'industrializzazione. Queste nozioni parallele finivano per diventare indirettamente un modo attraverso il quale questi giovani si appropriavano culturalmente della fabbrica, un modo di stabilire con essa un rapporto, se non addirittura una sorta di identificazione, perché la fabbrica veniva percepita come qualcosa di comprensibile, un sistema aspro di rapporti sociali ma razionale e leggibile. In altre imprese dell'epoca si poteva supporre che il distacco, l'assenza di dialogo tra i lavoratori e la direzione azienda le, na- 130 scessero appunto dalla incomprensibilità della fabbrica, dall'opacità dell'organizzazione del lavoro. Termini come “estraneità” o “estraniazione”, e le condizioni reali che tali termini designano, sono storicamente nati da questa incomprensibilità e opacità della fabbrica dinanzi al lavoro operaio. Per contro ai giovani del CFM erano forniti i mezzi per comprendere i metodi di gestione, incluso lo scientific management, mentre si rendevano conto di accingersi a ereditare un pezzo della storia del lavoro dei loro progenitori. Insomma, instaurandosi un rapporto critico con la fabbrica, questa non veniva più solamente “subita”. L'intento di Adriano Olivetti, era di garantire in qualche modo che la transizione dalla tradizione contadina alla fabbrica, dalla cultura delle valli alla cultura industriale, non si risolvesse in un passaggio brutale del giovane diciottenne forzato a lasciare bruscamente la vigna o l'aratro e catapultato in una catena di montaggio. Questo passaggio veniva mediato dalla riflessione, dalla cultura, dallo spirito critico. Tutto ciò conferiva, anche attraverso quello che i giovani potevano riportarne alle famiglie, il senso di un rapporto vitale con l'impresa e il suo modo di lavorare, che non escludeva del resto il conflitto, perché di certo tra i genitori di quei giovani apprendisti meccanici non mancavano coloro che erano politicamente o ideologicamente estranei alle idee di Adriano Olivetti. Tuttavia, articolato com'era attraverso la scuola dai tratti eterodossi che si diceva, quel senso, che concorreva anche a dare un signi ficato alle proprie esistenze, costituiva la base di un dialogo. Su tale base si poteva essere su posizioni diverse, nel mentre che ci si riconosceva insieme partecipi di una cultura che rispettava profondamente il lavoro e la persona. Per milioni di italiani dell'epoca le trasformazioni connesse allo sviluppo economico e al mutamento del lavoro hanno comportato traumi severi, talora drammatici. Per contro nella Olivetti di Adriano, attraverso il canale della formazione, questo passaggio avveniva non solo in modo più graduale, più scalato, ma in un modo che faceva sentire a questi giovani e alle loro famiglie d'esser diventati cittadini della civiltà industriale. Pur essendo vero che attraverso il CFM passava soltanto una frazione della forza lavoro operaia. Nel 1967, una ricerca del Centro di Psicologia documentò che in pochi anni 8 operai su 10 usciti dal CFM erano diventati impiegati, e alcuni dirigenti, a riprova degli alti risultati ottenu ti con quel tipo di formazione. Adducendo ragioni di costo, alla metà degli anni Settanta la scuola fu chiusa. Con le sue iniziative formative, l'Olivetti aveva proposto in anticipo un modello, non solo tecnico ma anche sociale, di riforma scolastica. 131 Altri istituti Il Centro Istruzione e Specializzazione Vendite (CISV) nacque nel 1955 nelle bellissime ville storiche sulle colline fiorentine, che Adriano Olivetti ebbe in locazione da Sir Harold Acton. L'attenzione di Adriano all'estetica dei luoghi che accolgono il lavoro umano trovò qui un'opportunità privilegiata. Il venditore nei corsi di prima formazione doveva conoscere "nelle più intime fibre" la strut tura del prodotto, le sue applicazioni e il modo di dimostrarle, la tipologia dell'utenza, e di conseguenza le diverse esigenze d'impiego delle macchine. Egli venne anche preparato a entrare in rapporto con il cliente, riconoscerne le attese, trattare le obiezioni, ottenere il consen so all'acquisto. I corsi erano accompagnati da test di conoscenza del prodotto e da colloqui valutativi, tenendo di conto il parere dei diversi istruttori. L'introduzione di nuovi prodotti nel mercato era preceduta da corsi di formazione dei venditori. Altri corsi preparavano i ven ditori che diventano capigruppo (riguardano l'organizzazione delle vendite, la gestione economica, la guida del personale). La scuola fiorentina fu il punto di riferimento delle scuole di formazione delle consociate: quella del Regno Unito (una villa settecentesca nel Sussex, ampliata su disegno di Stirling), quella statunitense (nell'amena sede di Terrytown, sul fiume Hudson), quella parigina (in Faubourg Saint-Honoré), le scuole in Germania, Austria, Spagna e in altri Paesi. Il Centro di Firen ze propose loro metodi e produsse materiale didattico, disegnava processi di addestramento e formava i formatori. Laureati non brillanti nell'attività commerciale ma motivati a studiare venivano trasferiti dalla vendita alla scuola, a preparare testi per istruzione programmata, metodologie di vendita, formazione dei venditori, e atti a diffonderli di persona nelle conso ciate. Per molti anni il CISV è stata la scuola aziendale di formazione commerciale più importante e meglio strutturata d'Europa. Chi vi imparava le tecniche di vendita, aveva poi mercato assicurato. Per questo il turnover dei commerciali era elevatissimo, arrivo sino al 30% annuo. Nessuno era per questo sconvolto. Come aveva insegnato Adriano allorché gli avevano segnalato che molti operai si portavano a casa attrezzi di lavoro (replicò: appena le loro officine di casa avranno tutti gli attrezzi, smetteranno di prelevarli dall'azienda), quando tutte le aziende avessero avuto i loro commerciali, avrebbero smesso di "prelevarli" dalla Olivetti. Del resto ai dirigenti faceva anche piacere pensare alle centinaia di commerciali formati all'Olivetti, amici 132 dell'Olivetti, portatori della cultura Olivetti e anche buoni canali per i prodotti Olivetti, sparsi per tutto il tessuto produttivo italiano. Nel 1943, in assenza di un istituto pubblico, nasceva l'Istituto Tecnico Industriale Olivetti che resterà attivo fino al 1962, quando l'apertura di un'analoga scuola statale a Ivrea renderà ridondante l'iniziativa aziendale. In origine riservato ai soli figli dei dipendenti, dal 1948 venne aperto gratuitamente a tutti, con ammissione per concorso. Era ordinato secondo i programmi ministeriali, legalmente riconosciuto e sede di esami di Stato. Lo avvantaggiava l'accesso ai laboratori e alle officine dell'azienda. Erano ammessi a frequentarlo i promossi dal Centro Formazione Meccanici idonei a seguire studi medi superiori (i quali, non venendo as sunti subito in azienda come i loro compagni, ricevevano come borsa di studio l'equivalente del salario). La maggior parte dei diplomati dell'Istituto era assunta dall'Olivetti. E i migliori venivano preparati nel corso di un anno a conseguire all'esterno la maturità scientifica, per poter accedere al Politecnico di Torino o ad altra facoltà universitaria in Italia. Essi fruivano di borsa di studio (per conservarla fino al termine degli studi, dovevano sostenere ogni anno tutti gli esami stabiliti dalla Facoltà, riportando una votazione media non inferiore ai 24/30). Analoghe borse di studio per studi universitari erano concesse, mediante concorso e per qualsiasi Facoltà, a giovani dipendenti dell'azienda e a giovani nativi o residenti da almeno cinque anni nel Canavese. Esemplare fu l'episodio di una borsa di studio voluta dall'ingegner Adriano per un ragazzo che in pre-campeggio aveva manifestato delle doti musicali non co muni: le assistenti sociali lo segnalarono al presidente, in quanto il ragazzo avrebbe voluto andare al Conservatorio, ma essendo figlio di un operaio non poteva permetterselo. La borsa di studio venne confermata anche negli anni successivi e quel giovane ha potuto diventare un affermato direttore di orchestra. La Gestione del Personale accordava inoltre "permessi di studio" agli operai che s'iscrivevano a corsi serali per diplomarsi e a impiegati che intendevano laurearsi. I permessi seguivano un regolamento concordato nel Consiglio di Gestione dei Servizi Sociali. Si concedevano 15 giorni di permesso retribuito per sostenere le interrogazioni di fine anno, 25 giorni per gli esami di maturità, e molti giorni per ogni esame universitario. Si rimborsavano le tasse d'iscrizione ai corsi e l'acquisto dei testi. 133 II.3.2.5 Mensa È del 1936 la prima mensa aziendale, alla quale seguirà in ogni unità lavorativa il servizio mensa. Pochi mesi prima di morire, Adriano Olivetti inaugura a Ivrea la Nuova Mensa, disegnata da Ignazio Lardella, vincitore, nel 1955, del Premio Nazionale di Urbanistica e Architet tura Olivetti. La scelta del luogo in cui realizzare la nuova mensa cadde su una vasta zona verde ai piedi della collina presso il Convento di Ivrea, antica abitazione della famiglia Olivet ti, a poche decina di metri dalla fabbrica. L'Azienda riteneva importante che i dipendenti, oltre a poter godere di un buon pasto, potessero anche distrarre la vista e la mente, ritrovandosi immersi in un'area ricca di vegetazione, a contatto con la natura. Per rendere ancora più vi vibile e rilassante il momento del pranzo, la mensa venne dotata di grandi vetrate da cui poter ammirare il panorama circostante. Inoltre, se a casa i dipendenti potevano mangiare mantenendo le abitudini alimentari locali, in mensa veniva proposta un'alimentazione nuova, e spesso più corretta. Alla mensa potevano accedere a determinate condizioni anche gli stu denti, figli dei dipendenti. In prossimità della mensa erano disponibili vari servizi sociali e culturali, allo scopo di tra sformare la pausa pranzo (che durava un paio d'ore) in un'occasione di arricchimento culturale. Questo modello venne applicato in quasi tutti i siti produttivi Olivetti, in Italia e all'este ro, divenendo un aspetto tipico dello “stile Olivetti”. Altro aspetto tipico è il fatto che, proprio negli anni in cui la divisione fra mense per operai e mense per impiegati era pressoché uno standard, anche un qualsiasi dirigente dell'Olivetti o il presidente stesso, si metteva in fila nella mensa del l'azienda e, con il suo vassoio, aspettava che gli riempissero i piatti, poi si sedeva a un tavolo, magari vicino a qualcuno che l'aveva accompagnato, ma anche a qualcun altro che poteva non conoscere affatto, con cui dialogava. In altre aziende, era esattamente il contrario: si ambiva a diventare capo perché il capo aveva dei privilegi che gli altri non avevano. La portata storica, per non dire rivoluzionaria, di una tale politica ci viene mostrata dalla te stimonianza Umberto Chapperon, l’allora responsabile dell'Ufficio Relazioni Sindacali: «A proposito delle mense, mi viene in mente un incontro sull'organizzazione delle mense con il responsabile dei Servizi Sociali della FIAT. Era un signore alto, con un'aria autorevole. Gli chiedemmo: «Voi, per le mense, quali politiche avete?». Risposta: «Il nostro obiettivo è eliminarle. Ma prima bisogna arrivare a farle utilizzare da pochi, perché è difficile eliminarle 134 se ci mangiano tutti. Bisogna eliminarle quando ci mangiano in pochi. Per raggiungere quest'obiettivo, peggioriamo ogni settimana il livello del servizio: siamo arrivati a portare la minestra dentro gli automezzi con cui portiamo la nafta; certo, prima naturalmente li laviamo. Eppure, lei lo sa che ci sono ancora due o tremila comunisti che mangiano questa minestra solo per farci rabbia?». Tornammo a Ivrea pensierosi.» II.3.2.6 Trasporti Negli anni '30 la Olivetti si trovò a fronteggiare un deciso aumento del personale e un crescente afflusso di dipendenti provenienti anche da paesi lontani da Ivrea. Questa situazione indusse l'Azienda a ricercare una soluzione per venire incontro alle esigenze dei lavoratori, che talvolta si trovavano costretti a percorrere anche 30 chilometri con mezzi di fortuna, a causa della carenza dei trasporti pubblici, per raggiungere il posto di lavoro. Nel 1937, quindi, venne istituito il Servizio Automobilistico ad uso esclusivo dei dipendenti dell'azienda; consisteva in una serie di autobus che, inizialmente, a vari orari percorrevano circa 150 chilo metri collegando 15 paesi. Ovviamente, il servizio proposto dalla Società ebbe un buon successo e stimolò anche tanti lavoratori impiegati in piccole aziende locali a spostarsi verso Ivrea per ricoprire i posti vacanti alla Olivetti. Nel 1950 il Servizio Automobilistico, inizialmente utilizzato da un centinaio di operai ogni giorno, registrava oltre 500 presenze giornaliere. Il prezzo del biglietto era molto basso, perché si voleva che il Servizio venisse considerato quasi un diritto di tutti i lavoratori e non un privilegio accessibile a pochi. Per questo motivo, la maggior parte delle spese legate a tali trasporti rimasero a carico dell'azienda. Il Servizio Automobilistico era costituito di 11 linee: 9 effettuate con autopullman Olivetti e 2 gestite in convenzione con concessionari di trasporti pubblici. Accanto al servizio destinato solo ai dipendenti che si recavano al lavoro, venne affiancato un ulteriore servizio per i figli dei lavoratori Olivetti: a partire dall'inizio fino al termine dell'anno scolastico, una serie di linee dedicate portava i bambini di età tra i 6 e i 14 anni alle scuole e agli asili nido. Questo per consentire ai dipendenti di giungere al lavoro più tranquil li e senza preoccupazioni per la propria famiglia. Con il passare degli anni e lo sviluppo della motorizzazione privata, il Servizio Automobili stico venne progressivamente ridimensionato. 135 II.3.2.7 Architettura e politica edilizia Nella ditta di Ivrea, talmente tanta era la cura dedicata ad ogni aspetto della vita di fabbrica, che l'architettura stessa, tanto degli stabilimenti quanto dei palazzi uffici, possedeva una componente di utilità sociale innegabile. Le costruzioni firmate Olivetti potrebbero entrare di diritto nel novero delle azioni socialmente responsabili intraprese dall'azienda solo per il modo in cui erano pensate. Nella costruzione di uffici, laboratori, centri di ricerca, istituti di formazione, biblioteche, mense, case per i dipendenti, asili nido e colonie, vi è la continua ricerca di apertura degli spazi di vita che sembra incarnare una cultura della fluidità, espri mendo un impulso alla trasformazione che, anziché consumare e imprigionare le energie, di spiega le potenzialità di divenire insite nelle persone e nelle cose. Lungo gli anni, costruzioni su progetti di Persico, Nizzoli, Zanuso, Gardella, Vittoria, Fiocchi, Valle, Cascio e, fra gli stra nieri, di Kahn, Eíerman, von Klier, Kenzo Tange, Stirling, si sono, nella varietà delle im pronte, caratterizzate per questa ispirazione all'aperto. Tanto più lo erano gli spazi di vendita, fra cui quello delle Procuratie di piazza San Marco, che è forse l'opera più celebre di Carlo Scarpa, quello disegnato da una giovanissima Gae Aulenti in Faubourg Saint-Honorè, e quello sulla Fifth Avenue, affidato a Belgiojoso, Peressutti e Rogers. Viene da chiedersi come sarebbe lo stabilimento per la produzione di calcolatori elettronici a Pregnana Milanese, affidato al progetto di Le Corbusier, che, scomparsi Adriano e Tchou, non viene edificato per la cessione della Divisione Elettronica alla General Electric. Più di tutti gli altri tipi di costruzione, la fabbrica, con la sua forma, deve testimoniare la centralità dell'uomo e la dignità del lavoro. La bellezza delle forme architettoniche non è quindi mai soltanto bellezza “formale” in quanto, per il modo in cui si esprime, diventa ele mento sostanziale di miglioramento della qualità del lavoro e, inevitabilmente, anche della vita. L'importanza che l'aspetto di un ambiente ha sulle persone traspare dalle parole di Fiorenzo Grijuela che ricorda così il suo colloquio all'Olivetti: «La prima cosa che mi colpì en trando nel palazzo degli uffici in via Clerici a Milano, fu innanzitutto la bellezza della sede. Questo mi ha colpito perché allora quando andavi nelle aziende – mi ricordo che avevo fatto dei colloqui nelle banche – trovavi sempre un mondo così tetro che c'era da fare gli scongiuri…». 136 A Ivrea, sotto la direzione di Adriano Olivetti, col notevole sviluppo e modernizzazione della produzione il piccolo edificio di mattoni rossi del 1908 che tutt'oggi esiste all'inizio di via Jervis, era ormai insufficiente, e si era resa necessaria la realizzazione di nuovi corpi della fabbrica. Gli stabilimenti costruiti a più riprese a partire dal 1934, furono disegnati dai migliori architetti dell'epoca con uno stile architettonico decisamente innovativo. Di progettare gli ampliamenti si occupano i giovanissimi Luigi Figini e Gino Pollini, appartenenti a una nuova generazione di architetti italiani, aperti alle contemporanee esperienze delle avanguardie internazionali. Gli edifici si affacciano per lo più su spazi verdi attraverso grandi vetrate, belli esternamente e luminosi all'interno, richiamando, nell'impostazione compositiva e tecnica, i modelli di architetture per l'industria che stavano maturando negli Stati Uniti e nel resto d'Europa. La nuova officina di via Jervis, che servirà da modello a tutti gli stabilimenti olivet tiani di successiva costruzione, è un grande ambiente, caratterizzato da una struttura portan te in cemento armato, che permette di formare grandi luci per lo spazio del lavoro, illuminato da ampie finestre a nastro. Lo spazio interno segue le logiche della produzione in linea ma viene pensato in accordo alle analisi e alle ricerche relative alle qualità psicotecniche e illuminotecniche degli ambienti di lavoro, condotte fin dagli anni Venti negli Stati Uniti e che, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, non sono estranee agli architetti italiani più attenti al dibattito sull'architettura industriale. Le notevoli ripercussioni positive della struttura architettonica sulla qualità del lavoro erano quindi una realtà effettiva grazie al fatto che, già a partire dal disegno dello stabilimento, la persona, le sue esigenze, il fatto di non essere costretta a stare otto ore al giorno a guardare soltanto i pezzi che si maneggiano, ma di poter alzare gli occhi, guardarsi intorno, osservare che tempo fa fuori della finestra, scambiare qualche battuta con i compagni, tutto questo veniva tenuto presente dagli architetti che lavoravano per la Olivetti. La costruzione di questo blocco è quindi attenta tanto alle esigenze tecniche della produzione, quanto a quelle psicologiche del lavoro, con costi di investimento notevolmente elevati, perché progettare e costruire un bello stabilimento con un grande architetto, costava, e ovviamente costa, parecchio di più che non realizzare uno stabilimento secondo i parametri standard dell'ordinaria architettura industriale. Sulla progettazione degli stabilimenti epodieresi, l'architetto Gino Pollini ha lasciato la seguente testimonianza: «In me e Figini qualche esitazione di origine tecnico-funzionale accompagnò, nonostante l'autorevole esempio del Bauhaus, la decisione di adottare una grande vetrata continua [...]. L'intervento di Adriano Olivetti fu decisivo. La vetrata uniforme [...] rappresentava fin dall'e - 137 sterno l'indipendenza funzionale degli spazi interni, collegata al principio della massima flessibilità dei processi lavorativi [...]. Adriano e noi con lui abbiamo sempre rifiutato la tipologia dell'officina chiusa da muri verso l'esterno. Ovunque possibile, abbiamo cercato che gli ambienti si aprissero sulle visuali del paesaggio circostante.» Anche per lo stabilimento di Pozzuoli Adriano aveva chiesto agli architetti di costruire una fabbrica ove i lavoratori, che sino al giorno prima avevano lavorato come pescatori o come contadini o avevano semplicemente passato le loro giornate nelle strade e nelle piazze, non si trovassero improvvisamente "spaesati", potessero continuare a vedere il mare dai loro posti di lavoro o dai tavoli della mensa, si potessero muovere in ambenti spaziosi, rispettosi della loro cultura e delle loro esigenze più che di quelle delle macchine e dei flussi produttivi. L'insediamento di Pozzuoli storicamente rappresenta il primo intervento privato a favore dell'in dustrializzazione del Mezzogiorno. Il progetto fu affidato all'architetto napoletano Luigi Cosenza, docente all'Università di Napoli; il tempo di elaborazione e costruzione dell'edificio è breve e i lavori si concludono nel 1954. Il 23 aprile 1955 si svolge l'inaugurazione ufficiale, occasione per uno dei più noti discorsi di Adriano Olivetti, nel quale dichiarerà come «Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno». La rivista americana "Horizon" aveva descritto il sito in questa maniera: «From via Dominitia, which passes the main façade, the building might be taken for an elegant resort hotel or a sanatorium in the modern style». Anche l'ingegner Alberto Gobbi lo ricorda in modo molto simile: «Lo stabilimento era in una splendida posizione panoramica, affacciato com'era sul golfo di Pozzuoli. Era così bello che ogni tanto capitava che qualche turista straniero si fermasse e ci chiedesse se c'erano camere libere, scambiandolo per un albergo o per un residence. Tra l'altro, aveva sul davanti un magnifico grande terrazzo di forma leggermente ricurva, disegnata con un raggio amplissimo, che dominava il golfo. Non ho più visto in nessun altro po sto i colori dei tramonti che si vedevano lì, da quel terrazzo: il mare davanti si tingeva d'a rancione, di viola, d'azzurro intenso, di tutta la gamma dell'arcobaleno; era uno spettacolo straordinario, che faceva perdere la voglia di tornare in ufficio a lavorare. Ma per fortuna io avevo un ufficio che non guardava verso il mare. Di lì era meno facile distrarsi». Il risultato era stato straordinario; architetti di tutto il mondo venivano a vedere questo stabilimento controcorrente. Immerso in una pineta, si affacciava sullo splendido mare del golfo di Pozzuoli, di fronte a Procida e a Ischia. Dalle grandi vetrate un'intensa luminosità penetra- 138 va negli ambienti della fabbrica, insieme ai caldi colori del cielo e del mare Mediterraneo. Adriano Olivetti aveva realizzato un'opera che possedeva i connotati dell'architettura razionalista e allo stesso tempo della grandiosità rinascimentale, che coniuga cultura e bellezza naturale, in una paradigmatica dimostrazione che lo sviluppo industriale non significa necessariamente degrado e umiliazione dell'ambiente. Gli operai e le operaie partenopee vissero con grande orgoglio questo straordinario interesse di Olivetti per un originale sviluppo del Sud. Un noto aneddoto riporta che per ricambiare queste attenzioni le operaie addette al collaudo avessero trovato il modo di operare contemporaneamente con due mani, raddoppiando i risultati produttivi rispetto a quelli delle loro compagne d'Ivrea. Abitazioni Tra i servizi offerti ai dipendenti non poteva mancare la costruzione di edifici abitativi. Adriano Olivetti era ben consapevole dei problemi urbanistici (deturpamento del paesaggio, sovraffollamento, degrado igienico, inadeguatezza dei servizi, ecc.) che caratterizzavano le città industriali solitamente a causa di un inurbamento eccessivamente rapido e poco controllato, talvolta selvaggio. Negli uffici studio Olivetti si teneva conto scrupolosamente delle pos sibilità di assorbimento della manodopera dai bacini territoriali di ciascuna fabbrica e delle possibilità di un pendolarismo quotidiano accettabile, tenendo conto delle distanze e dei mezzi di trasporto collettivo. Quando da quei bacini era esaurita la possibilità di assorbimen to di mano d'opera, si evitava di crescere ancora nella stessa zona, per impedire squilibri e di sagi nelle mobilità territoriali e negli insediamenti abitativi. L'ingegnere, memore anche dell'esempio paterno, si sentiva giustamente responsabile del paesaggio edilizio del territorio e dell'assetto urbano delle comunità circostanti la fabbrica e non si fece scrupoli a investire in genti risorse per risolvere in modo razionale le necessità abitative dei dipendenti. Le case era no date in affitto o a riscatto a condizioni decisamente vantaggiose rispetto ai prezzi di mercato; la selezione dei dipendenti che potevano usufruirne era affidata a una commissione, formata dal Consiglio di Gestione e dai rappresentanti di alcuni enti aziendali, in primis gli assistenti sociali, sulla base di criteri di priorità quali: il reddito, le condizioni familiari, l'an zianità aziendale, ecc. L'assegnazione di case ai dipendenti era stata avviata da Camillo Olivetti nel 1926. È di quell'anno il primo edificio di abitazioni costruito. Sono sei case unifamiliari, realizzate in un'area vicina agli stabilimenti che prenderà il nome di Borgo Olivetti. Il modello stilistico è 139 di tipo tradizionale; le case dispongono di un orto-giardino, per contribuire all'autosufficienza alimentare delle famiglie. Tra il 1926 e il 1976 gli alloggi costruiti dall'Olivetti, direttamente o in collaborazione con enti pubblici, ammontano a 1.213 (973 a Ivrea). Un deciso cambiamento delle politiche abitative interviene nella seconda parte degli anni '30, in coincidenza con il maggior ruolo assunto da Adriano Olivetti nella conduzione dell'a zienda. L'incarico di progettare nuove abitazioni viene affidato ad architetti di alto profilo nella cultura architettonica nazionale e le costruzioni, che offrono standard qualitativi di buon livello, si inseriscono in un progetto urbanistico complessivo che prevede la nascita di nuovi quartieri residenziali nelle aree prossime agli stabilimenti. La prima realizzazione è degli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che già hanno lavorato alla progettazione dei nuovi stabilimenti di Ivrea. Nel 1939-1941 ad opera dei due architetti sorge una casa di tre piani nel Borgo Olivetti, a ridosso della scuola materna, per ospitare 24 famiglie. Il progetto si ispira ai canoni dell'architettura moderna internazionale di quegli anni, con volumi riconducibili a figure geometriche elementari. Tra il 1940 e il 1942 gli stessi Figini e Pollini realizzano non lontano dal Borgo Olivetti un complesso di sette case per famiglie numerose. È l'inizio del quartiere di via Jervis, che nel dopoguerra si espande con abitazioni progettate da Marcello Nizzoli e Gian Mario Oliveri: sei case unifamiliari per dirigenti dell'Olivetti (1948-1952), due case di 4 alloggi ciascuna (1951) e la cosiddetta “casa a 18 alloggi” (1954-55). Nel 1943, con la costruzione di un fabbricato di 3 piani da 15 alloggi l'Olivetti avvia i lavori per il quartiere di Canton Vesco a Ivrea. Il progetto è di Ugo Sissa, che nel 1945-46 insieme a Italo Lauro realiz za nella stessa area altri due edifici. Seguono, tra il 1943 e il 1954, altri sette fabbricati, tutti direttamente finanziati dalla Olivetti. All'ampliamento del quartiere contribuiscono anche quattro case di Annibale Fiocchi (capo dell'Ufficio Tecnico Olivetti tra il 1947 e il 1954) e Mar cello Nizzoli. La collaborazione tra Fiocchi e Nizzoli è determinante anche per l'avvio di nuo ve iniziative nel contiguo Canton Vigna. Qui nel 1950-51 si costruiscono tre fabbricati basati su tre diverse tipologie costruttive (“A”, “B”, e “C”), che nella zona verranno replicate con al tre costruzioni. È il primo cantiere aperto dall'Olivetti con i contributi finanziari di Ina-Casa; in seguito, per il completamento delle abitazioni in quest'area l'Olivetti ricorrerà anche all'I stituto Autonomo Case Popolari (IACP) di Torino, fornendo comunque gratuitamente il pro getto e l'assistenza tecnica. Il quartiere di Canton Vesco si espande (le ultime costruzioni nel le aree ancora libere sono del 1976) secondo un modello, tipicamente britannico o scandinavo, che prevede infrastrutture varie, scuole, servizi commerciali e sociali (la chiesa è progetta- 140 ta da Nizzoli e Oliveri, la scuola materna da Ridolfi e Frankl, quella elementare da Ludovico Quaroni) capaci di rendere il quartiere semi-autonomo. Per fronteggiare la crescente domanda di abitazioni, connessa all'espansione dell'Olivetti, tra il 1958 e il 1962 l'azienda promuove un altro insediamento residenziale a est di Canton Vesco, nell'area denominata la Sacca (o Montemarino), dove in seguito sorgeranno varie costruzioni di cooperative di dipendenti Olivetti. A sud di Canton Vesco viene progettato il nuovo quartiere di Bellavista, per 4000 abi tanti. La progettazione urbanistica, affidata nel 1957 a Luigi Piccinato, prevede che il com plesso, con ampie aree verdi e a bassa densità abitativa, sia delimitato da una strada perime trale da cui si dipartono le vie di accesso ai vari edifici; al centro sono posizionati la chiesa, le scuole e gli edifici per i servizi. Le prime costruzioni sono del 1960-61 con finanziamenti ottenuti da Ina-Casa; in seguito, accanto alla Olivetti interverranno anche la Gescal e l'IACP. Anche al di fuori di Ivrea, in altre aree di presenza aziendale come Aglié (TO), Roma e Massa Carrara, l'Olivetti costruisce case per i dipendenti. Ma il quartiere Olivetti più interessante è certamente quello di Pozzuoli, posto in prossimità della fabbrica e realizzato in collaborazio ne con l'Ina-Casa. Il progetto, contestuale a quello dello stabilimento, è affidato nel 1951 da Adriano Olivetti a Luigi Cosenza. Tra il 1952 e il 1963 vengono realizzati tre lotti; le case sono disposte secondo uno schema a corte, in una sequenza continua di fabbricati di due o tre piani uniti dai corpi scala all'aperto. La politica abitativa dell'Olivetti si completava con l'assistenza gratuita e il finanziamento agevolato dei dipendenti interessati alla costruzione o ristrutturazione delle proprie abitazioni. L'ente aziendale incaricato era l'Ufficio Consulenza Case Dipendenti (UCCD). Qualsiasi dipendente poteva presentarsi all'Ufficio del Personale e richiedere un mutuo per costruire o ristrutturare la casa, un finanziamento nel caso avesse da sostenere una grossa spesa o una fidejussione bancaria. I prestiti venivano accordati senza richiedere particolari informazioni o garanzie ed erano concessi a un tasso d'interesse più basso del mercato. Nel caso dei mutui per le case, l'unico vincolo era che gli aspetti tecnici e architettonici del progetto fossero curati da un architetto messo gratuitamente a disposizione dall'azienda. In particolare due ar chitetti Aventino Tarpino e Ottavio Cascio, che erano anche dirigenti interni, avevano il preci so compito di disegnare gratuitamente i progetti per tutti i dipendenti, per evitare, sosteneva l'ingegner Adriano, che si mettessero nelle mani di geometri che avrebbero potuto deturpare il paesaggio. Grazie alla consulenza e ai prestiti fornita dall'UCCD con architetti di prim'ordi - 141 ne si è diffuso nel territorio un certo gusto e stile architettonico che ha influito positivamente sul paesaggio edilizio. In generale i servizi finanziari erano molto sviluppati all'Olivetti e a tal proposito va ricor dato che il dipendente poteva anche accendere un conto corrente aziendale, il quale dava un rendimento superiore ai conti correnti delle banche. Allora c'erano molti degli operai che vivevano quasi senza bisogno dello stipendio, perché erano piccoli contadini, avevano il campo, coltivavano l'orto, allevavano le galline e quindi avevano comodità a lasciare il loro salario quasi intero sui conti correnti Olivetti. La morte di Adriano Olivetti nel 1960 segna una svolta anche nella politica edilizia della Società: cambiano i criteri di selezione degli architetti, alcuni progetti sono rallentati o abbandonati. Mentre i vincoli di bilancio diventano più stringenti, migliorano le condizioni socio-economiche dei dipendenti, il cui numero a partire dagli anni Settanta inizia a calare. Poco alla volta sfumano, quindi, le ragioni che avevano giustificato i rilevanti investimenti dell'azienda per fronteggiare il problema dell'abitazione dei dipendenti. II.3.2.8 Le iniziative artistico-culturali Introduzione La cultura come strumento di arricchimento e crescita personale. Ma anche occasione di ri flessione critica, di presa di coscienza e mezzo di emancipazione sociale per le categorie più disagiate. Sono queste le idee che spingono Adriano Olivetti a promuovere in modo sistematico ogni iniziativa che possa contribuire ad accrescere il livello culturale dei dipendenti e del l'ambiente sociale in cui sono inseriti. Tutto ciò era strettamente legato alla convinzione, viva nell'ingegner Adriano, che quelli che entravano all'Olivetti dovessero uscirne umanamente e intellettualmente arricchiti. «Organizzando le biblioteche, le borse di studio e i corsi di molta natura, in una misura che nessuna fabbrica ha mai operato, abbiamo voluto indicare la nostra fede nella virtù liberatrice della cultura, affinché i lavoratori, ancora troppo sacrificati da mil le difficoltà, superassero giorno per giorno una inferiorità di cui è colpevole la società italiana», spiegava in un discorso pubblico a Ivrea nel 1955. La sua industria doveva essere un mondo aperto; chiamava letterati e poeti affinché l'azienda vivesse immersa nel circuito più vasto possibile delle idee e della elaborazione culturale. La parola "sponsorizzazione", è una 142 parola che nel vocabolario olivettiano non è mai rientrata. Adriano Olivetti si rendeva conto che un'azienda, un'industria, aveva una responsabilità nei confronti dell'ambiente in cui veni vano installate le sue fabbriche, le quali rappresentavano comunque un fatto traumatico, un elemento di rottura rispetto al passato. L'azienda aveva degli obblighi nei confronti del territorio. Se l'Olivetti promuoveva un evento culturale, non lo faceva come sponsor, cioè come colui che si limita a pagare: lo faceva in maniera coinvolgente, per compensare in qualche modo il cambiamento, la discontinuità introdotti dalla presenza di un'industria nel contesto. D'altra parte l'interessamento a livello dei dipendenti, nonostante la maggior parte provenis se da un ambiente rurale, povero di stimoli culturali, era molto diffuso. Ottorino Beltrami si rese conto dell'eccezionale livello di coinvolgimento, e non solo di quello, quando una volta fu «invitato a una serata in biblioteca. Erano riunioni serali a cui intervenivano personalità di primo piano, che a quei tempi a me sembravano dei veri mostri sacri. Quella sera c'era Gae tano Salvemini e il tema era la ricostruzione del Paese e della democrazia. Dopo un breve in tervento dell'ospite, iniziava la discussione che durava fino a tardi. C'erano anche degli operai che chiedevano d'intervenire, magari passando avanti allo stesso Adriano Olivetti, il quale non diceva niente, anzi, stava lì tutto contento a vedere che gli operai s'interessavano di cose che apparentemente erano al di là di quello che comportava la loro paga. Mi sorprese l'estrema libertà e democrazia con cui tutti interloquivano. Adriano parlava come se fosse uno dei tanti: lo interrompevano anche. Non ho mai visto un simile esempio di democrazia neppure in America: erano tutti eguali, una cosa emozionante, da far venire i brividi. Mi sembrava di essere entrato nella città dell'utopia.» Si trattò quindi di un felice caso di alleanza tra l'industria e la cultura, tra la cultura umani stica e il mondo della produzione e dell'impresa? Luciano Gallino è convinto che Adriano Oli vetti si sarebbe meravigliato se qualcuno gli avesse parlato, pensando d'interpretare il suo modo d'agire, di una ricerca di alleanza tra industria e cultura, tra azienda e mondo intellet tuale. L'industria e la cultura per lui erano un tutt'uno. Non era pensabile proporre un prodotto, o un'azienda che fosse in sé grigia, opaca, uniforme, e allo stesso tempo poi sovvenzio nare mostre d'arte o commissionare cataloghi dalla grafica smagliante. Egli avvertiva veramente una profonda identità tra il costruire, il produrre e il fare cultura, il diffondere valori estetici. Cultura e arte, dunque, non solo come elementi indispensabili nella vita di una persona ma anche come elementi inseparabile dalla vita di un'impresa. Fare e diffondere cultura andava incluso negli obiettivi strategici, essendo essa ritenuta una delle forme rivelatrici più 143 importanti, foriera di creazione e rinnovamento, uno, insomma, dei fondamentali motori del l'impresa stessa. Così sulle pareti dei luoghi di lavoro e di rappresentanza erano distribuiti stampe e dipinti: Morandi e Mafai, De Chirico e Carrà, Guttuso, Melli, De Pisis, Cadorin, Rosai, Semeghini, Cassinari, Tosi, Santomaso, Morlotti, Dorazio, Nizzoli, Ciarrocchi, Trombadori; tra gli stranieri, Bonnard, Kandinskij, Vasarely, Klee, Sutherland, Alechinsky, Vuillard. Compaiono sculture di Emilio Greco, Arnaldo Pomodoro, Carlo Scarpa, Alberto Viani. E il passaggio dei numerosi artisti lasciava sempre una traccia, come l'anteprima in fabbrica di un concerto di Luigi Nono o il magnifico affresco di Guttuso alla parete di uno stabilimento industriale. Possiamo farci un'idea di quanto l'ambiente aziendale fosse permeato dalla cultura, leggendo il ricordo di Umberto Chapperon del suo arrivo a Ivrea: «La seconda cosa che mi colpì fu che, mentre in genere in provincia si consuma cultura e non la si produce, lì invece accadeva esattamente il contrario: Ivrea era una provincia che produceva cultura. Ricordo che proprio il primo giorno di lavoro andai a cena con un architetto romano, una delle tante persone che capitavano in Olivetti e che si fermavano per un certo tempo, in questo caso a occuparsi di piani regolatori o di altre cose. Uscendo dal ristorante, m'indicò un signore con un trench verdolino, che passava un po' curvo davanti alla stazione e che pareva stanco, anche se era giovane; l'architetto mi disse: «Vedi, quello è un poeta». Era Paolo Volponi. Queste sono le prime immagini dell'Olivetti che mi si sono impresse nella memoria.» Le iniziative del Centro Culturale Dal punto di vista organizzativo, il Centro era sottoposto alla Direzione Relazioni Aziendali che ne fissava il budget; la sede principale si trovava in via Jervis, negli edifici riservati ai Servizi Sociali, ma aveva delle sedi decentrate presso i vari stabilimenti. Il Centro era coadiuvato dal Consiglio di Gestione. Il suo compito sostanzialmente era quello di mettere a disposizio ne, non solo dei dipendenti dell'azienda ma anche di quanti abitano nel territorio circostante, una serie articolata di servizi a sfondo culturale e di organizzare eventi. Gli intenti sono sia di carattere ricreativo che di carattere formativo e divulgativo, e al tempo stesso di approfondi mento di temi di solito trascurati o poco sviluppati dalle usuali fonti e sedi di conoscenza e d'informazione, mentre sono escluse l'istruzione e la formazione professionale, demandate entrambe agli appositi istituti. 144 In 14 anni, tra il 1950 e il 1964, organizza 249 conferenze, 71 concerti di musica da camera, 103 mostre d'arte e altre 52 manifestazioni di vario genere. Non solo letture, proiezioni, musica, mostre, spettacoli, ma anche corsi, lezioni, discussioni, incontri, cicli di conversazioni, sempre o spesso correlati a movimenti contemporanei d'idee, al pensiero umanistico, al fare scientifico, alle realtà tecnologiche, al vivere quotidiano, alla cultura del lavoro in azienda. A una mostra dedicata, nel 1950, a 25 anni di pittura italiana, seguono mostre di scultura e pit tura che fanno incontrare, fra gli altri, Carrà, De Pisís, Casorati, Munari, De Chirico, Metelli, Guttuso, Rosai. Il Centro Culturale organizza incontri pubblici in cui si susseguono e alterna no presenze di segno diverso: tra i molti, politici come Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Franco Antonicelli, Aldo Garosci; filosofi come Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Guido Calogero, Enzo Paci; giuristi come Arturo Carlo Jemolo; scrittori, critici e artisti come Carlo Cassola, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Eugenio Montale, Umberto Eco, Gianni Rodari, Carlo Bo, Massimo Mila; personaggi illustri del teatro e del cinema come Gassman, De Filippo, Buaz zelli, Fo, Bene. Anche la Società Musicale Olivetti, costituita nel 1966, è uno degli organismi che nel Centro Culturale hanno trovato la sede ideativa, continuando poi a crescere all'esterno dell'azienda, in maniera in parte autonoma anche dal punto di vista del finanziamento. La maggior parte dei concerti è stata fatta nel Teatro Giacosa. Infine, sono da ricordare anche i recital. Avevano per protagonisti solisti di musica moderna, cantanti, attori di teatro e si svolgevano nei locali di accesso e soggiorno annessi alle mense aziendali degli stabilimenti Olivetti. Talvolta infatti gli eventi venivano organizzati durante la pausa pranzo, che in quegli anni dura un paio d'ore, nei pressi degli stabilimenti (il “salone dei 2000”) o della mensa così da favorire una maggiore partecipazione. Ma l'ampia partecipazione di cui godevano le iniziative del Centro, non dipendeva soltanto dal luogo e dal momento in cui avvenivano, o dal fatto che venissero portati a Ivrea artisti e personalità di norma presenti solo nelle grandi città. A detta di Adriano Bellotto il consenso era dovuto all'intento di fondo, che era di favorire sempre una coscienza critica, un costume democratico, e che sia stata apprezzata la proposta di una cultura del tempo libero, di un'educazione permanente, di una partecipazione allo sviluppo sociale del territorio. Bisogna co munque sottolineare che un peso rilevante lo ebbe la qualità dell'offerta, non tanto per i livelli di eccellenza comunque talvolta toccati, ma per il suo essere decisamente alternativa rispetto a ciò che proponevano, o imponevano, l'industria dello spettacolo ricreativo, la radio e la televisione di consumo. Gli obiettivi del Centro Culturale e delle biblioteche Olivetti erano 145 infatti la ricerca di una durevole qualità, non elitaria ma pur sempre di alto livello, non appa riscente ma sistematica. E proprio come tale venne accolta a tutti i suoi livelli di utenza. Le Biblioteche di Fabbrica Il primo nucleo di attività culturali ha come sede operativa e propulsiva la Biblioteca Olivetti, funzionante fino dagli anni della guerra, quando ne era direttore Umberto Campagnolo. Agli inizi prevalgono le finalità ricreative, ma già allora in Biblioteca venivano proposti alcuni programmi d'istruzione popolare, corsi di lingue straniere, cicli di conferenze. Quanto ai libri, se si va a controllare nei vecchi "registri d'ingresso", si vedono comparire i titoli di testi rari e fondamentali in campo religioso, politico, sociologico, in buona parte di autori europei e nordamericani allora poco conosciuti in Italia, alcuni dei quali vennero poi pubblicati dalle Edizioni di Comunità. Nel 1940 Adriano Olivetti consolida l'offerta di testi con l'acquisizione della biblioteca di Piero Martinetti, che ha insegnato filosofia teoretica all'Università di Milano, e di quella dell'insigne economista Marcello Soleri. Dalla Biblioteca Centrale hanno origine le varie Biblioteche di Fabbrica. Nel 1948, la direzione della Biblioteca passò a Geno Pampaloni, che poco dopo diede vita al Centro Culturale, formando un'unica entità in senso sia programmatico che operativo. Quan do a capo della Biblioteca fu posto Luciano Codignola, anzitutto le attività della biblioteca vennero ampliate: si proposero nuovi cicli di conferenze, corsi di cultura popolare e anche al cune iniziative di richiamo, destinate poi a diventare sistematiche negli anni successivi, come proiezioni di film, fiction e documentari, mostre d'arte. Quando ne assume la direzione Ludo vico Zorzi, la biblioteca viene utilizzata come sede operativa e propulsiva dell'intero ventaglio di attività, che intanto si è ulteriormente allargato, e comprende una lunga e articolata serie d'iniziative. Per favorire l'accesso dei dipendenti, vincolati da orari e ritmi di lavoro, si decen trano le sedi di lettura e di prestito dei libri: ora non si parla più di Biblioteca, ma di Biblioteche Olivetti. Le sedi di lettura, prestito e consultazione sono sei, una del settore tecnico e cinque delle biblioteche culturali e ricreativo-divulgative: in via Jervis, al primo piano dell'edificio dei Servizi Sociali; nello stesso edificio, ma al piano terreno: nella mensa aziendale di via Monte Na vale; nella mensa annessa agli stabilimenti d'Ivrea-San Bernardo; nella mensa annessa agli stabilimenti di Scarmagno. Anche a Pozzuoli c'era una biblioteca di fabbrica molto ben fornita e anche in questa organizzavano mostre e conferenze, chiamando docenti universitari e in ge- 146 nerale personaggi di spicco della cultura napoletana che spesso andavano a parlare in stabilimento, durante l'intervallo di mensa, su problemi di attualità, politici e sociali. Zorzi, in un documento del 1964, fa il punto della situazione: i volumi disponibili sono 90.000, suddivisi in tre diverse sezioni denominate nel lessico aziendale "culturale", "divulgativo-ricreativa" e "tecnica". Quest'ultima contiene circa 30.000 e raccoglieva testi e riviste su argomenti di interesse aziendale: ingegneria, matematica, fisica, elettronica, economia e materie giuridiche e pertanto era riservato ai soli dipendenti dell'Olivetti. La sezione divulgativoricreativa è la più estesa: 40.000 volumi di narrativa e letteratura contemporanea, saggistica di attualità su svariati temi. Comprende anche 2.000 volumi dedicati a bambini e ragazzi, per i quali è disponibile una saletta attrezzata con basse scaffalature, sedie e tavolini apposita mente studiati. Il patrimonio librario di carattere culturale era composto di 20.000 libri e raccoglie opere in prevalenza umanistiche: architettura, arte, classici dai latini agli italiani, fran cesi, inglesi e in altre lingue, critica letteraria, filosofia, poesia, religione, scienze, storia, teatro e altro. Al suo interno il settore delle opere di consultazione (dizionari, enciclopedie, gui de, manuali di ogni genere) era molto ampio e continuamente aggiornato. Vi era annessa an che un'emeroteca costituita da circa 2.500 testate di giornali e riviste, metà delle quali straniere. A partire dagli anni '90 viene dapprima decisa la cessione dei volumi della sezione divulgativo-ricreativa alla Biblioteca Civica d'Ivrea; poi, poco alla volta, anche le altre sezioni vengono smembrate e in gran parte cedute. La biblioteca aziendale Olivetti anticipava, nei metodi e nella disponibilità di consultazione e di prestito, i più aggiornati principi della moderna biblioteconomia. Essendo aperta a tutti i cittadini, svolse di fatto le funzioni di una biblioteca civica. Erano molti gli studenti e i ricer catori che venivano da tutto il Piemonte e dalla Lombardia per consultare le opere specialistiche, particolarmente nei campi delle scienze sociali, della storia dell'arte, delle materie umanistiche, filosofiche, politiche, dei classici e dei periodici specializzati. In fabbrica i lettori erano soprattutto giovani, di area sia operaia che impiegatizia, con prevalenza femminile. Nelle biblioteche a carattere divulgativo-ricreativo, il primato l'aveva la narrativa (la quota dei prestiti raggiungeva il 40-45%). Seguivano i libri di storia, politica, sociologia, viaggi, saggistica varia, narrativa per ragazzi, poesia. L'uso del servizio fu piuttosto intenso, come lasciano intendere le statistiche di Zorzi: nel 1963 i prestiti a domicilio sono oltre 72.000, senza contare circa 36.000 consultazioni fatte in sede e quasi 1,5 milioni di con sultazioni di giornali e riviste. Ma i numeri non bastano. Non possono bastare per compren - 147 dere quanto un apparato bibliotecario così ben fornito e organizzato rappresentasse un segno di rottura, un elemento di innovazione per quei tempi (ma in parte lo sarebbe ancora oggi) e cosa volesse dire per dei semplici operai e impiegati avere a disposizione per la prima volta nella vita un'offerta culturale talmente ampia e di qualità. Non potremmo comprendere appieno tutto ciò senza ascoltare le memorie di chi queste cose le vide con i propri occhi. Ecco le impressioni di Gianfranco Ferlito, che nella sua carriera all'Olivetti ricoprì vari ruoli da quello di operaio a quello di dirigente: «La cosa d'Ivrea che mi ha colpito, fin dai primi giorni, era vedere che alla sera, questa ma rea di gente che usciva dall'Olivetti e s'indirizzava verso i pullman era in gran parte costituita da persone benvestite, vivaci, spesso con dei libri sotto il braccio; questa è stata forse la cosa che mi ha colpito di più, perché veder leggere qualcuno a Cuorgnè era una cosa vera mente rara; invece qui molti operai, non solo nell'intervallo di mensa, frequentavano la biblioteca, ma i libri li portavano a casa. Ho capito che c'era un mondo diverso». Cleto Cassovella, operaio e sindacalista, ricorda che: «Durante l'esperienza della realizzazione di un circolo operaio a Ivrea dedito prevalentemente allo studio dei classici del marxismo, per studiare usavamo la Biblioteca dell'Olivetti. Era una struttura eccezionale, cioè vi si trovava tutto: qualsiasi libro noi cercassimo potevamo averlo, e questa era un'altra cosa straordinaria». Quello di Giovanni Truant, ex ingegnere a capo di tutta Produzione, non è solo un bel ricor do ma anche un amaro rimpianto: «Avevamo due ore di pausa a pranzo, e in quelle ore mi sono visto l'intero ciclo dei film di Fellini. Questo le dà già un'idea dell'azienda: un'azienda che durante la pausa ti permetteva di dedicarti a conoscere il cinema oppure alla lettura di un libro o alla lettura dei giornali in biblioteca. Un giovane che arrivava dall'università si sa rebbe aspettato di trovare gente che ti spremeva di continuo, che ti chiedeva di produrre sempre di più; invece no, qui ti lasciavano il tempo per poterti acculturare. Siamo andati avanti così fino all'arrivo dell'ingegner De Benedetti; poi le biblioteche di stabilimento e i giornali sono spariti, è stato un primo segnale.» Altri servizi culturali Il Cineclub Ivrea, tuttora attivo, venne avviato agli inizi degli anni Sessanta, a opera di un gruppo di appassionati. Nel 1964 trovò la sede organizzativa presso la Biblioteca Culturale Olivetti di via Jervis, mentre le proiezioni avvenivano in sale pubbliche, per i soci abbonati. Ebbe da subito totale autonomia di funzionamento e grazie al suo tipo di offerta, non di élite, 148 non solo per i cinefili, ma per tutti, l'attività ottenne successo. Un'iniziativa singolare fu quella di Tour-Art Club, il cui scopo era organizzare viaggi in comitiva per visitare, con la guida di esperti, monumenti e gallerie d'arte in Italia e all'estero. Ebbe vita breve, ma l'esperienza ac quisita venne estesa al Gruppo Sportivo e Ricreativo Olivetti, che poi svolse attività analoghe. Questo Gruppo, costituito nel 1947, organizzava in modo autonomo manifestazioni sportive e viaggi riservati ai dipendenti e ai loro familiari, i quali potevano partecipare pagando le relative quote. Siccome l'azienda contribuiva al costo di dette iniziative, le quote a carico dei partecipanti erano in genere molto convenienti in relazione a quello che offrivano le agenzie private. 149 CAPITOLO III CONFRONTO E CONCLUSIONI 150 III.1. Comparazione III.1.1 Il codice etico L'Olivetti dell'Ingegner Adriano, come in precedenza abbiamo notato, possedeva sì dei valo ri etici fondamentali posti alla guida dei comportamenti dei suoi attori, ma questi non vennero mai codificati. L'Olivetti non possedeva quindi un Codice Etico alla maniera della moderna Csr, ma non per questo l'azienda era meno intrisa di quei principi, anzi. Tali valori non furo no mai formalizzati in un documento scritto ma rimanevano comunque desumibili da diversi elementi quali le parole pronunciate da Adriano nei suoi discorsi ai dipendenti, le sue scelte imprenditoriali, il suo modo di comportarsi nel comandare, insomma dal suo stile di leader ship. Uno stile capace di ispirare e propagarsi in tutti i livelli della struttura gerarchica, non solo di riflesso, ma radicandosi in profondità nelle persone, le quali appunto non vi si confor mavano semplicemente. In questo senso i comportamenti etici di tutti, non erano una copia ricalcata sull'esempio dell'ingegnere. Al contrario, comprendendone tutti il senso, in parte li accettavano e li assimilavano a fondo nella propria personalità, in parte li sentivano già intimamente affini alle proprie convinzioni, già presenti dentro di loro e, avendo trovato un ambiente giusto che li mettesse a loro agio, li tiravano fuori in modo naturale. Non si trattava quindi di imporre un elenco di norme comportamentali definite, di controllarne l'applicazio ne da parte di tutti ed eventualmente punire o correggere i trasgressori. L'Olivetti non ebbe mai bisogno di istituire un organo di vigilanza. Perché il senso di responsabilità era naturalmente diffuso nell'ambiente aziendale, percepibile a tutti i livelli, “respirabile” nell'aria della fabbrica. Giovanni Truant ribadisce questo concetto spiegando come fossero «stati formati tutti allo stesso modo senza aver ricevuto un imprinting particolare: non è che ci duplicassero con lo stampino, era l'aria che respiravamo, facendo parte dello stesso team di lavoro». E Umberto Chapperon aggiunge che addirittura i motivi del successo dell'Olivetti secondo lui «stavano in questa grande libertà, nella grandissima autonomia concessa alle persone che vi lavoravano. Nella mia carriera non mi sono più ritrovato in una situazione di fiducia tanto in condizionata. Questa fiducia mi caricava anche di grande responsabilità, e generava a sua vol ta dedizione verso l'azienda». 151 Insomma tutti, dal dirigente al manovale, dal quadro al sindacalista, sentendosi partecipi di una struttura che li rispettava sinceramente considerandoli una persona prima che un dipendete, sembravano non poter fare a meno di comportarsi in modo eticamente corretto. Per questo più che di Codice Etico, riguardo all'Olivetti sarebbe più appropriato parlare di Cultu ra Etica. Una peculiare forma mentis, un particolare modo di ragionare e di concepire la vita e i rapporti interpersonali in cui si esplica. Questa cultura non possedeva rigidità formale, ma non di meno era qualcosa di palpabile e non di meno la ricerca della sua diffusione, unitamente al mantenimento della sua spontaneità, era un obiettivo strategico di cui i capi del Per sonale avevano piena coscienza. Un obiettivo sì a lungo termine, ma non da realizzare entro un dato limite temporale, bensì da perseguire con continuità; non una meta da raggiungere ma una mentalità da tenere costantemente viva. Tant'è vero che il motore della cultura Olivetti non fu soltanto il suo presidente (lui era l'iniziatore, quasi una figura simbolica, esempio e punto di riferimento per tutti), ma la linfa vitale le proveniva soprattutto dai di pendenti in genere e in particolar modo da chi occupava posizioni di comando. Che all'Olivet ti i capi del Personale ne avessero piena coscienza e si preoccupassero che detto apporto di linfa non ve nisse mai a mancare, è dimostrato dal fatto che la creazione di cultura olivettiana venisse perseguita fin dall'inizio, cioè fin dalle assunzioni, soprattutto quelle di neolaureati, i quali secondo le previsioni avrebbero un giorno ricoperto un ruolo di comando. Adriano stes so aveva la passione per le assunzioni e lui per primo se ne occupò impostandole secondo la sua politica. In tal modo diede inizio a un circolo virtuoso secondo il quale alcuni di quelli da lui personalmente scelti perché in possesso, almeno in potenza, di quella forma mentis olivettiana, a loro volta messi a fare selezione, introducevano nell'azienda altre persone affini a quella mentalità, e così via. Come sintetizza Ettore Morezzi, s'intese «mettere le persone in condizione di esprimere il meglio di se stesse, avendo scelto quelle che hanno molto da espri mere». Così, chi si occupò di selezione del personale all'Olivetti, fu sempre attento a valoriz zare l'orizzonte d'interessi dei candidati laureati: l'apertura culturale esprime il senso della complessità del reale, l'attitudine a considerare tutte le componenti della vita organizzativa quando si deve interpretare, giudicare, decidere. L'attenzione all'apertura culturale delle per sone che entrano, sommata alla proposta di temi di cultura generale (accanto all'avanzatissima formazione tecnica) nelle scuole aziendali, ai servizi e iniziative culturali dell'azienda, convergono nel costruire un mondo disponibile a un costante aggiornamento e anche a radicali cambiamenti, uno spirito aziendale che non si appaga di una riuscita sufficiente ma in - 152 tende realizzare l'eccellenza, elementi essenziali per la costruzione di un clima aziendale ido neo al dispiegamento di comportamenti etici. Molto probabilmente, proprio grazie a un ambiente di tal fatta, nessuno si sentì obbligato a comportarsi a quella maniera. Al contrario per tutti era una cosa naturale, tanto che molti non si rendevano quasi conto della unicità del cli ma Olivetti nel panorama imprenditoriale, ma pensavano che in un'azienda non potesse essere altrimenti, non rendendosi conto di partecipare a qualcosa di incredibile. Tutto ciò è dimostrato dalle varie testimonianze sull'impressione che suscitò il radicale cambiamento della politica delle risorse umane con l'entrata al vertice di De Benedetti. A tal proposito ecco il ricordo chiarificatore di un episodio vissuto da Gianfranco Ferlito, ex Direttore Operativo della Qualità: «Che cosa ho progressivamente notato nella gestione del personale negli anni ottanta? Quando hanno cominciato a profilarsi le prime difficoltà in Olivetti e si è cominciato a par lare di Cassa Integrazione, ho notato che nella gestione del personale tendeva a prevalere (probabilmente per necessità...) una gestione più amministrativa delle persone. Le scelte per individuare le liste delle persone da mettere in Cassa Integrazione (un fatto sempre molto doloroso, perché non ci si era affatto abituati) mettevano in crisi i gestori del personale del la tradizione Olivetti, che via via venivano o sostituiti o affiancati da gestori molti giovani, i quali non portavano con se la cultura aziendale precedente. Questo ha rappresentato la prima frattura tra l'azienda e le persone che vi lavoravano. Si è cominciato a rompere il patto di fiducia tra le persone e il vertice. Voglio citare un episodio per me significativo. Stavo andando al Palazzo Uffici a presentare la lista di seicento dipendenti da mettere in Cassa Inte grazione e in Mobilità; era ottobre e io sapevo già di dover uscire il 31 dicembre. Dico la verità: anch'io, quando ero dentro, non accettavo di buon grado di dover uscire; ero imbarazzato, triste, in questo caso portavo con me la rabbia di dover andare a presentare questi sei cento nomi: bisognava presentarli a un Personale famelico, che sollecitava... anzi: «Se sono più di seicento, meglio ancora!», e cose di questo tipo... Quando arrivo al Palazzo Uffici, sal go al sesto piano, il piano nobile, esco dall'ascensore e sento un vociare animato: un gruppetto di alti dirigenti, che conoscevo bene, stava discutendo vicino alle scale. Io ho la mia lista di nomi in mano, e mi dico: "Ma guarda un po'… sta' a vedere che magari qualche movi mento arriva anche qui, forse anche loro si sentono un po' più coinvolti nelle decisioni che sono state prese per demolire quest'azienda". Avvicinandomi, ho capito che non era di liste, di cassintegrati o di cose simili che stavano discutendo: erano tremendamente arrabbiati perché il giorno prima erano state assegnate le auto aziendali, e c'era chi aveva avuto la Thema e invece voleva l'Alfa 164. Solo dieci anni prima, cose di questo tipo non sarebbero state 153 concepibili, perché il senso di appartenenza, l'orgoglio e anche, me lo lasci dire, la dignità di rappresentare l'azienda non lo avrebbero permesso. Si era persa anche la dignità.» Pier Carlo Bottino, ingegnere e ufficiale di Marina messo a capo della produzione, contribui sce con le sue particolari considerazioni: «In Olivetti non c'era competizione sleale, non c'era l'attitudine a mettere trabocchetti, a fare sgambetti (cosa che invece mi è capitato di riscontrare in aziende dove ho lavorato in tempi successivi); c'era, al contrario, una forma di collaborazione corretta, serena, che allora a me sembrava del tutto normale, dal momento che arrivavo dalla mia particolare formazione [tre anni imbarcato sulle fregate nel Tirreno]. Mi sono reso conto solo dopo che altrove non era così. Questa considerazione sul clima che ho immediatamente avvertito al mio arrivo in Olivetti è una premessa necessaria. Lo spirito dominante in Olivetti era uno spirito di collaborazione fra tutti, di spontaneo autocontrollo sulle naturali tendenze al protagonismo. Credo che la cosa più importante fosse la tranquillità che si potesse sbagliare senza doverlo nascondere, la trasparenza nei rapporti.» Anche l'esperienza vissuta da Giovanni Maggio è un prezioso contributo: «I nuovi entrati sono certo portatori di tecnologie, di know-how organizzativo, di visioni del mercato innovative, ma sono anche portatori di un atteggiamento, direi, di tipo colonialista, da conquistadores; era gente che, tutto sommato, con l'Olivetti di Adriano aveva poco a che fare, che l'osservava e giudicava con fastidio e non vedeva l'ora di modificarla, appiattirla, dimenticarla. Ricordo un episodio particolare, che mi fece veramente impressione: nel management si discuteva spesso, a cena o altrove, anche di libri, di film, di cultura generale. Era l'anno de Il Padrino, il 1972-74: a me questo film era piaciuto e dispiaciuto. Mi era piaciuto per le performance degli attori, però non mi era piaciuto per la sua visione della mafia. Mi trovai a discuterne con un nuovo arrivato, al quale il film invece era piaciuto proprio per questa dura visione della realtà americana. Gira e rigira, alla fine affermò: «È così che biso gna fare: bisogna riuscire a essere così forti che le offerte che si fanno non possano essere rifiutate». Era un test del fatto che stava per rompersi l'organicità del nostro management. Ora, a distanza di anni, la cosa è più comprensibile: le opinioni sono tutte rispettabili, però ricordo di essere rimasto colpito: allora pensai che questo nuovo compagno di viaggio non fosse del tutto adatto alla comitiva... Aggiungo che a coloro che venivano da fuori sono stati assegnati soprattutto dei compiti di rottura: probabilmente anche perché questa specie olivettiana si era progressivamente indebolita, era esangue, non si era rinnovata. [...] E lì non c'è stato più niente da fare: l'Olivetticidio si è completato alla metà degli anni ottanta.» 154 E poi di nuovo Maggio: «Quando c'erano riunioni con capi di consociate provenienti da zone in grave fermento poli tico (come, per esempio il Sudamerica) il capo di consociata, di solito, era uno che giudicava il Paese con occhiali progressisti. Quando, una volta, un capo di consociata di cui non farò il nome disse che il Cile dopo il golpe avrebbe risolto i problemi dello sviluppo industriale, fu letteralmente aggredito (sul piano politico, s'intende) dai suoi pari; gli chiedevano che cosa ci stesse a fare all'Olivetti, e questo la dice lunga su quanto sia durata la propulsione dei va lori di Adriano. Fino agli inizi degli anni Ottanta, quindi quasi vent'anni dopo la sua morte, la nostra cultura d'impresa, il nostro insieme di miti e credenze sono stati caratterizzati dal lo spirito di Adriano. La sua fotografia è stata appesa sopra le nostre teste fino agli inizi de gli anni ottanta, e dietro la scrivania dei direttori di filiale c'erano allineati i volumi delle Edi zioni di Comunità, rappresentative di un modo di pensare un'azienda che produce anche cultura, che è capace di capire il mondo e che diffonde i propri strumenti di analisi della società.» Concludendo questo raffronto sul codice etico, possiamo dire che all'Olivetti un tale documento sarebbe stato superfluo. Adriano Olivetti, ponendo la sua impresa il più possibile al servizio del bene comune e dandone consapevolezza a tutti, riuscì a far sì che per le persone, l’adozione di comportamenti onesti e rispettosi anche nei confronti dell'ultima ruota del car ro e la rinuncia al perseguimento di scopi egoistici, non fosse visto come un'anomalia. All'opposto, i comportamenti personalistici erano, per i dipendenti olivettiani, qualcosa di strano, se non del tutto assurdo. III.1.2 Welfare aziendale La politica assistenziale d'impresa è lo strumento di responsabilità sociale che più accomuna lo stile di Adriano Olivetti e la Corporate social responsibility. In comune hanno la caratte ristica di agire in campi non coperti dal Welfare statale, integrandolo con prestazioni e inve stimenti. Ma tra i due c'è una differenza sostanziale dovuta al mutato rapporto tra il Welfare di un'impresa e quello pubblico. Oggigiorno è lo Stato che per primo si assume il ruolo sia di sostegno che di stimolo al potenziamento delle pratiche assistenziali private, tramite nume rosi sgravi fiscali e contributi assegnati tramite bandi pubblici. Dato che gli enti statali assicu - 155 rano già una degna copertura di base ai bisogni sociali, possono quindi parallelamente permettersi di incentivare quelle imprese che si impegnano in tal senso. Al contrario, ai tempi di Adriano, essendo gravi e numerose le lacune riscontrabili nel Welfare statale, aveva senso che fosse l'azienda ad assumersi il ruolo di stimolo alle iniziative statati tramite il sostegno finanziario e la diffusione delle best practice sviluppate. Detto ciò, bisogna però osservare che il Welfare olivettiano possedeva un difetto che non è presente in quello delle moderne imprese. La critica nasce dall'osservazione che col tempo esso si sarebbe rivelato fin troppo protettivo. Se, infatti, alle sicurezze garantite dallo Stato vengono ad aggiungersi le tutele e i servizi forniti dall'azienda in una società locale costruita sul modello della company town, al mercato rimane ben poco spazio. Nel connubio tra istituzioni e comunità, il mercato, se non virtualmente espunto, verrebbe a essere una presenza minoritaria. Si direbbe che esso esiste, lontano, in quanto serve all'azienda per realizzare quei profitti che alimentano una vita che sostanzialmente ne prescinde. Siamo, evidentemente, agli antipodi di una società modellata sul mercato, un monstrum che gli attuali neoliberisti fanaticamente vagheggiano. Le risorse economiche profuse nel Welfare olivettiano provenien ti dal mercato nazionale e mondiale, paradossalmente, erano proprio quelle che permettevano di tenere fuori dal mercato, limitatamente al canavese, l'assistenza sanitaria, la scuola, la previdenza integrativa, le attività culturali. Gallino è dell’opinione che, a quei tempi, questo fosse un vantaggio, sia perché le famiglie di allora non avevano i redditi o i risparmi necessa ri per affrontare da sole il mercato di codesti servizi, sia perché questi sono un bene comune nel quale il mercato ha dato finora mediocri prove. Secondo lui però lo svantaggio stava nella dipendenza del Welfare locale da un'unica grande azienda mondializzata. Se que st'unica azienda fosse entrata in crisi, o la sua direzione avesse cambiato cultura e atteggiamento, come poi avvenne, esso avrebbe subito a breve gravi contraccolpi. È quindi d'accordo nell'affermare che ci sarebbe voluto nella comunità locale un po' più di mercato. Però non nel senso di aprire a questo i servizi sociali, piuttosto, nel senso che ci sarebbero volute un mag gior numero di aziende, magari di dimensioni minori, aperte anch'esse come la Olivetti al mercato mondiale, e come questa disposte a investire nello «stato sociale» della zona una lar ga quota dei frutti raccolti su quello. Dai tempi di Adriano Olivetti il servizio sanitario nazionale è stato molto sviluppato; il sistema pensionistico copre la quasi totalità della popolazione; gli enti locali, in specie i comuni, offrono in tutta Italia asili e scuole materne di buona qualità. Dovremmo da ciò conclude - 156 re che lo «stato sociale» olivettiano appartiene definitivamente al passato, sì che non avrebbe più senso, ai nostri giorni, proporre che le imprese lo imitino. Ma per rispondere sì o no bisogna stabilire a quali interventi pubblici o privati vogliamo riferirci. Fin dai tempi della prima Fondazione Burzio, risalente al 1932, i servizi sociali della Olivetti hanno sempre avuto carattere integrativo, non sostitutivo del sistema assistenziale e previdenziale pubblico. Di fatto i loro contenuti sono stati via via modificati in rapporto all'evolu zione di quest'ultimo. Anzi, lo stesso personale Olivetti addetto a quei servizi aziendali con tribuì ad “esternalizzarli” cercando di trasferire il know-how acquisito con la decennale esperienza, nelle nascenti iniziative di servizio sociale pubblico. A maggior ragione nemmeno l'in gegner Adriano si sognerebbe oggi di tenere in funzione, a carico dell'impresa quale soggetto privato, dei servizi il cui onere è stato via via assunto dallo Stato o dagli enti locali. Nondimeno è da osservare quanto gli sarebbe facile indicare ampi settori in cui le imprese contemporanee potrebbero tuttora utilmente integrare, se mai lo volessero, l'intervento pubblico. Secondo Luciano Gallino il primo settore è la formazione. Poiché i ritmi di mutamento della scuola sono inevitabilmente (ma anche appropriatamente) più lenti del mutamento tecnologico e organizzativo, la prima non riuscirà mai a fornire la formazione di base, nonché la formazione continua, di cui il mondo del lavoro avrebbe bisogno. Nondimeno, sempre a detta di Gallino, accade che nel campo della formazione le imprese italiane investano pochissimo. In termini reali, esse investono mediamente assai meno di quanto non facesse mezzo secolo fa la Olivetti di Adriano. Né, con rare eccezioni, posseggono istituzioni interne aventi caratteristiche di portata e durata paragonabili ai suoi centri di formazione per operai, tecnici e personale commerciale. III.1.3 Le certificazioni e gli standard Partiamo da un semplice dato di fatto: negli anni Cinquanta e Sessanta ancora non esistevano le odierne certificazione e ancora non erano stati pensati quegli organismi sovranazionali che avrebbero dovuto formularle. Ma possiamo comunque rapportare le best practice riconosciute a livello mondiale in materia di qualità, ambiente, diritti umani e del lavoro codificate in queste certificazioni, alle politiche dell'Olivetti nei medesimi ambiti. È stato ampiamente dimostrato l'impegno tutto olivettiano nella ricerca della qualità di prodotti e servizi pensati 157 per migliorare la vita del cliente e di tutta quanta la società, nella tutela dei diritti umani, nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente (non solo in termini di inquinamento) circo stante la fabbrica. Ribadiamo comunque quanto la ricerca dell'eccellenza fosse il pallino di Adriano Olivetti, il quale non poté esimersi dall'applicarla in ogni particolare della vita aziendale. Per fare un esempio citiamo questo significativo episodio narrato da Umberto Gribaudo, ex responsabile della Direzione della Produzione: «Avevo fatto studiare un posto di lavoro comodo per gli operai, cioè un posto di lavoro ergonomico, regolabile in altezza, a seconda della struttura dell'operaio, con l'appoggiabraccia, con posti per le cassette. Di questa postazione esisteva un modello molto bello e molto costoso, ma poi ne avevamo realizzato invece uno eguale dal punto di vista ergonomico ma molto più economico, che aveva perso molto di stile. C'era venuta una brillante idea: l'inge gner Adriano doveva venire a visitare lo stabilimento ICO, nuovo e ancora vuoto: abbiamo messo nel bel mezzo di un salone 'sto posto di lavoro. L'ingegner Adriano è arrivato, con un codazzo di persone, e noi della produzione eravamo lì: lui è entrato in quell'enorme salone vuoto, ha visto 'sto banco e ha esclamato: «Cos'è questo schifo?». Io mi sono fatto avanti per cercare di difendere il lavoro mio e dei miei. Geno Pampaloni allora mi prese per il braccio, dicendo: «Sia bravo!». Fu così che adottammo il mio modello più bello e più caro.» Adriano, in ogni campo, fu pioniere e talvolta anticipatore delle odierne best practice . Per avere la misura di quanto precorresse i tempi, leggiamo la testimonianza di Giovanni Avonto, ingegnere sindacalista della CISL: «Mi affascinò subito il fatto che si respirava un clima diverso nei rapporti tra le persone, che non c'era problema a esprimere le proprie idee, come verrà poi sancito dallo Statuto dei Lavoratori: idee politiche, sociali, religiose. Un posto di lavoro dove ci fossero queste libertà e queste dinamiche a cui uno poteva partecipare insieme agli altri, ragionando liberamente, intendendo anche un conflitto come qualcosa di costruttivo. In Olivetti c'era una grande libertà che anticipava lo Statuto, e io la sperimentai per intero». Non c'è bisogno di ripetere quanto, in materia di rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, si distinse per le sue politiche antidiscriminatorie, oltretutto in totale controtendenza coi tempi; per l'attenzione prestata ai dipendenti, messi al centro della fabbrica fin dalla sua pro gettazione, considerati come persone e non come meri fattori produttivi; per l'attenzione alla loro formazione professionale che, oltre ad essere di altissimo livello, era integrata con mate rie di cultura generale. Lo Statuto dei Lavoratori, promulgato il 20 maggio 1970, all'Olivetti era già realtà trent'anni prima. È Adriano che vuole l'istituzione del Centro Riqualificazione 158 Operai, il quale prepara disabili a lavorare nei reparti dell'azienda e ospita stabilmente perso ne alle cui limitazioni vanno adattati posti e attrezzi di lavoro e che necessitano di cura parti colare. Adriano considerava un dovere andare personalmente a cercare le best practice sviluppate nel mondo per introdurle in azienda. Così, se negli asili Olivetti era impiegato il metodo ludi co all'avanguardia sviluppato in Francia dal CEMEA, è grazie a lui che prese contatto con i pe dagogisti stranieri promotori della pedagogia attiva, e con quelli italiani che vi fanno riferi mento, per orientare l'attività degli asili nido e delle colonie e per formare le persone cui sa ranno affidati i bambini e i ragazzi. È sempre Adriano che porta la cultura psicologica e la cultura sociologica in azienda. Ed è ancora lui che chiama a collaborare i migliori architetti della scena internazionale, uno su tutti, Le Corbusier. Ma per Adriano era un dovere anche cercare sempre di migliorare tali pratiche, ove lo ritenesse opportuno. Così come fece col taylorismo dopo averlo “importato” dagli Stati Uniti. Utilizzò l'idea della catena di montaggio ma la perfezionò (nell'ottica di un miglio ramento delle condizioni di lavoro) rivoluzionando i metodi da adottare per la definizio ne dei tempi, delle mansioni e dei cottimi. Non è un caso se il suo fu l'unico caso al mondo di “taylorismo dal volto umano”. Riguardo infine ai sistemi di controllo e gestione previsti da tutte le moderne certificazioni, sostanzialmente vale quanto è stato detto in merito al codice etico. Così come non c'era bisogno di mettere nero su bianco i principi morali dell'impresa, essendo questi di per sé insepa rabili dalla stessa perché condivisi da tutti i dipendenti, suppongo che allo stesso modo non ci sarebbe stato bisogno di adottare degli standard che prescrivessero procedure di controllo sui comportamenti afferenti ambiti di interesse sociale. Non è necessario ripetere quanto le diverse testimonianze concordino sul fatto che l'Olivetti (senza chiedere fedeltà, obbedienza e conformismo, ma confidando sull'informazione condivisa, sulla visibilità delle mete generali, sui rapporti di fiducia e di corresponsabilizzazione, insomma nella libertà responsabile) ottenesse da tutti lealtà e correttezza nei comportamenti. Detto ciò, bisogna aggiungere che comunque all'Olivetti erano previsti degli uffici i quali, più che per controllare che le pratiche corrette venissero costantemente adottate, dovevano assicurarsi che queste rimanessero nel tempo idonee alle esigenze dei lavoratori o delle comunità le quali potevano via via modificarsi. Una cosa che contraddistinse Adriano Olivetti 159 fu, è bene ribadirlo, «l'accettazione del dato insopprimibile del conflitto industriale»: l'aver concepito l'impresa come un sistema politico e i processi organizzativi aziendali come processi segnatamente politici che, in quanto tali, erano costituiti da continui conflitti e successi ve parziali ricomposizioni. Significa che, nella concezione olivettiana il conflitto era un fatto re consustanziale all'impresa, un fattore insopprimibile, in quanto essa si rivelava essere uno spazio politico. L'impresa era intesa come luogo polemico di creazione e produzione: la composizione del conflitto doveva avvenire, pertanto, attraverso un momento politico, eminente mente democratico. Questa consapevolezza permise a Olivetti di realizzare progressivamente, tramite questi uffici, una istituzionalizzazione del riallineamento. Comprendere le esigen ze dei diversi stakeholder, monitorarne l'evoluzione e studiare i modi di ricomposizione dei loro interessi con quell'azienda. Questi erano i compiti di organi come l'Ufficio Studi Relazio ni Sociali che realizzava ricerche e analisi, oltre che sulle relazioni interne tra i dipen denti, sulle abitudini di vita della popolazione canavesana in genere, sulle interazioni che la fabbri ca aveva con il suo ambiente e sulle ripercussioni volute e non volute che si ingenerava no nell'impatto con il territorio circostante e la sua popolazione. Altro esempio è rappresentato dalla Commissione Paritetica Tempi che, in collaborazione con assistenti sociali e psicologi, aveva il preciso scopo di contribuire alla “umanizzazione” della linea di montaggio. Ma gli stessi Ufficio Assistenti Sociali e Centro di Psicologia svolge vano un ruolo fondamentale per la comprensione delle esigenze e ricomposizione dei conflit ti. E nell'Ufficio del Personale vigeva la regola della “porta aperta”: chiunque vi poteva sempre trovare personale seriamente impegnato ad ascoltare i suoi problemi e a cercare di risolverli. Questa politica della "porta aperta", come era teorizzata dalla Direzione Relazioni Aziendali, era più efficace di qualsiasi sistema di controllo e gestione standardizzato. Ritengo quindi di poter dire a ragione, che Adriano non avrebbe respinto l'adozione di una certificazione, ma molto probabilmente questa non avrebbe potuto apportare nessun miglioramento alle pratiche di responsabilità sociale dell'Olivetti. La certificazione, trovando un'a zienda già altamente sviluppata sotto questo profilo, si sarebbe solo potuta limitare a constatarne l'efficienza, a porvi il suo marchio di approvazione. 160 III.1.4 Corporate giving A parte il fatto che il Cause related marketing è una pratica la cui nascita si fa risalire al 1983, in occasione del restauro della Statua della Libertà, troppo tardi perché Adriano potes se conoscerlo, e che le ONLUS stesse non fossero per nulla diffuse ai suoi tempi; a parte questo dalle mie ricerche non ho potuto riscontrare che l'Olivetti abbia mai posto in essere cam pagne promozionali di quel genere. Oltretutto va detto che a quei tempi i problemi di ordine sociale erano troppo vari e diffusi nel tessuto della collettività, rendendo poco sensato l'im pegnarsi in una causa relativa a un singolo problema sociale. Conveniva piuttosto concentrare gli sforzi sulla popolazione di un dato territorio (ovviamente quello ospitante la fabbrica) cercando di risolvere più di un problema afferente quel luogo (disoccupazione, insalubrità, quasi totale mancanza di servizi, disordine urbanistico, eccetera). In questo senso l'Olivetti intervenne a favore delle comunità locali anche tramite finanziamenti ai servizi pubblici locali “in via di sviluppo”. E proprio in questi finanziamenti possiamo ravvisare l'unica forma di filantropia aziendale intrapresa dall'Olivetti, anche se si potrebbe obbiettare che, a differenza della classica Corporate philanthropy, l'azienda di Ivrea in quelle iniziative non riponesse mai l'aspettativa di un ritorno d'immagine. Ho trovato anche scritto che il «Centro di ricerca operativa dell'Università Bocconi era finanziato in larga parte dalla Olivetti» ma in questo caso non si trattò di semplici elargizioni a fondo perduto essendosi instaurato uno stretto rapporto di collaborazione tra varie università (in particolare con quella di Pisa) e l'area di Ricerca & Sviluppo. Nemmeno riguardo alla partecipazione a iniziative artistico-culturali si può parlare di Corporate giving, almeno fino a quando l'ingegner Adriano è stato in vita. Abbiamo già ampia mente dimostrato in precedenza quanto le iniziative olivettiane fossero tutt'altro che sempli ci sponsorizzazioni. L'Olivetti non sponsorizza mostre d'arte ma le produce. Anzi, talvolta è l'azienda stessa che si ritrova ad essere il tema centrale di una mostra organizzata da un museo, come nel caso del MOMA. Nell'Olivetti, le due culture (la cultura imprenditoriale e la cultura in genere) si integrano e si alimentano a vicenda, e gli intellettuali non sono la «corte feudale» (l'espressione è di Raniero Panzieri) di un mecenate, ma professionisti che, oltre a occuparsi della diffusione interna d'informazione culturale e delle iniziative culturali esterne, operano in settori vitali dell'impresa. 161 Tornando al Crm, si potrebbe pensare che tale pratica avesse, con l'impegno nel sociale del l'Olivetti, almeno un punto in comune individuabile nella condivisione dello stesso approccio win-win e, in effetti, ciò è parzialmente vero. All'Olivetti, infatti, vi era la convinzione che dal le azioni di responsabilità sociale se ne potesse ricavare un mutuo beneficio. Ma a ben vedere l'Olivetti andava ben oltre questo concetto in quanto, per come era stata concepita, i benefici creati non potevano essere spartiti: non si poteva misurare quanto andasse a vantaggio dell'impresa e quanto a vantaggio della causa perché, secondo l'impostazione impressa da Adriano alla sua impresa, non c'era separazione tra quello che va a vantaggio dell'azienda e quello che va a vantaggio della società, essendo l'organizzazione economica uno strumento al servizio del benessere collettivo. Esagerando, oserei quindi dire che l'Olivetti non usò mai il Crm a sostegno di una causa e non l'avrebbe mai fatto perché la sua stessa normale attività di vendita era, in sé e per sé, una gigantesca campagna di marketing sociale. Un'affermazione del genere appare già molto meno assurda ascoltando le parole di Giovanni Maggio, ex re sponsabile dell'area commerciale dell'Italia centro-occidentale: «L'attenzione era sostanzialmente ai volumi, e questo la dice lunga sull'approccio comples sivo dell'impresa impostata da Adriano: l'importante era che la fabbrica producesse volumi, perché così garantiva lavoro agli operai e benessere all'intero sistema in cui la fabbrica viveva. Tanto per riprendere un tema odierno, questa era vera responsabilità sociale dell'impresa, non solo nei confronti degli azionisti ma nei confronti di tutti quanti: la comunità, il di pendente, il cliente.» In effetti, bisogna riconoscere che proprio l'ampiezza dei margini di profitto che riusciva ad ottenere dalla vendita di macchine da scrivere e calcolatrici, avesse reso possibile lo stato so ciale olivettiano. Dal 1946 al 1958 il fatturato era salito di oltre 6 volte in Italia (+ 6,39 %), e di quasi 18 volte all'estero (+ 17,87 %). Gallino afferma che «si può ritenere da diversi calcoli che il prezzo di vendita fosse pari a circa 5-6 volte il costo combinato della produzione industriale e della distribuzione. Indicativamente, nel 1958 una macchina da calcolo della classe Divisumma comportava circa 30000 lire di costo del lavoro produttivo, pari a 22 ore di lavoro effettivo per unità prodotta; 20000 lire di costo dei materiali; 10000 lire di costo unitario del capitale fisso, più 30000 lire di costi del lavoro di di stribuzione, cioè meno di 100000 lire in totale. La stessa macchina era venduta nelle filiali, che erano parte integrante dell'organizzazione commerciale Olivetti, e nelle concessionarie, che erano invece aziende terze, tra le 500 e le 600000 lire, a seconda dei modelli, o a un 162 prezzo all'incirca equivalente in moneta estera. Beninteso, alle suddette voci di costo ne vanno aggiunte altre, in primo luogo il margine di guadagno dei concessionari e agenti ita liani e stranieri, e le spese generali, che nel caso della Olivetti erano particolarmente rilevan ti. Sui profitti lordi incidevano quindi le imposte. Resta il fatto che un rapporto iniziale di 1 a 5 o 1 a 6, tra i costi di produzione e di distribuzione, e il ricavato dalle vendite, è un rap porto che farebbe sognare qualunque imprenditore di ieri e di oggi. E quelle macchine si vendevano a migliaia al mese, in tutta Europa e nel mondo.» Per parecchi anni i margini di profitto della Olivetti dell'ingegner Adriano furono eccezio nalmente elevati. Su tale base l'azienda di Ivrea poteva procedere a ridistribuire un'ampia quota di profitti sul territorio, pur avendo compensato in equa misura gli azionisti, ivi com presi i piccoli azionisti che per lunghi anni videro nei titoli Olivetti una sorta di bene-rifugio importante. III.1.5 Sostenibilità ambientale Finché Adriano fu in vita, all'Olivetti la tematica ambientale veniva ricompresa sotto la più ampia tematica del rispetto delle comunità locali e del loro territorio. Le azioni di sostenibili tà ambientale si “limitarono” alla tutela del paesaggio circostante l'impresa, sia agendo sull'edificio stesso della fabbrica, sia regolando l'inurbamento e l'aspetto dei nuovi quartieri operai. Riguardo i complessi industriali, questi venivano sempre progettati in modo da non entrare in conflitto con la natura, ma anzi “accogliendola” al loro interno. L'esempio più bello è quello dello stupendo stabilimento di Pozzuoli, immerso nel verde e affacciato sul «golfo più singolare del mondo», dove, raccontano, ogni tanto si fermava un turista a chiedere il prezzo di una camera, scambiandola per un residence. Ad impegnarsi in una vera e propria lotta all'inquinamento, l'Olivetti comincia soltanto nel 1970, dieci anni dopo la scomparsa di Adriano. Dall'aprile di quell'anno è infatti attivata una commissione che coordina tutti gli interventi aziendali nel settore dell'ecologia e che in parti colare è incaricata di elaborare e proporre le linee principali di una politica ambientale. Le azioni intraprese in tal senso hanno comunque la caratteristica di anticipare la nascente nor mativa statale: mentre in Italia la prima legge contro l'inquinamento risale al gennaio 1972 (quando una speciale Commissione del Senato presenta un primo rapporto sui problemi del- 163 l'inquinamento e propone alcune linee di intervento), la prima opera olivettiana per la tutela dell'ambiente risale al 1970. Da quell'anno il grande stabilimento di Scarmagno, non lontano da Ivrea, viene dotato di un impianto automatico di depurazione degli scarichi tecnologici e biologici. Questo impianto diviene un modello anche per gli altri impianti dell'Olivetti e già nel corso del 1972 ne viene messo a punto uno analogo nello stabilimento di Crema. Per gli scarichi biologici (impianti igienici e sanitari) dello stabilimento di Scarmagno, dove esistono fosse di depurazione naturale, l'Olivetti costruisce un'apposita fognatura lunga 5 km con un costo di 250 milioni di lire. A questa fognatura si allacciano anche i comuni limitrofi, che be neficiano così di un indubbio vantaggio igienico ed economico. Gli stabilimenti di Crema e Marcianise, invece, vengono dotati di impianti di depurazione degli scarichi biologici azionati meccanicamente. Questi impianti sono i primi a essere installati da un'impresa in quelle aree. Il controllo dei fumi è effettuato negli stabilimenti Olivetti in modo tale da garantire il rispet to dei valori indicati dalla legislazione anti-smog. In molti casi gli interventi decisi dall'impresa consentono di raggiungere risultati che vanno al di là di quanto prescritto dalle leggi vigenti in quel momento, come nel caso della centrale termica di Ivrea che tra il 1970 e il 1971 viene convertita da nafta a metano. Analoga conversione avviene in quegli stabilimen ti (Massa e Marcianise) dove è possibile allacciarsi alla rete del metano della Snam. Per eliminare il pericolo di emanazione di fumi e vapori nocivi, gli impianti Olivetti vengono dotati di adeguati depuratori. La società decide anche di abbandonare attività inquinanti come le fon derie di ghisa e le fusioni dell'alluminio: il metallo necessario per le lavorazioni arriva già fuso su appositi autocarri attrezzati provenienti da fonderie esterne. Per i forni ausiliari, come per le operazioni di verniciatura, si passa all'uso di combustibile gassoso (metano o propano) con una netta riduzione dell'inquinamento. All'inizio degli anni Settanta, come si è detto, l'Italia sta appena iniziando a prendere co scienza dell'importanza della tutela ambientale ed è ancora priva di una precisa legislazione in materia. Nel caso dell'Olivetti, quindi, tutelare l'ambiente non significò “mettere a norma” gli impianti, semplicemente perché le norme ancora non esistevano. Tra le imprese, l'Olivetti fu una delle primissime ad affrontare il problema del degrado ambientale e a prendere concrete misure sia per ridurre il livello di inquinamento dei propri stabilimenti, sia per sensibi lizzare l'opinione pubblica su questo tema. I dati fin qui riportati, riguardando il periodo successivo alla morte di Adriano Olivetti, sembrerebbero essere fuori tema rispetto agli scopi di questa trattazione che si concentra sulle 164 azioni socialmente responsabili da lui portate avanti. Detto ciò, ritengo comunque significativo menzionarli perché, anche attraverso queste decisioni dei primi anni Settanta prese nono stante le difficoltà dovute ad una normativa nazionale ancora carente, l'Olivetti ha manifesta to in concreto la sua coerenza con la direzione etica impressale da Adriano. Queste decisioni rappresentano quindi un buon indicatore di quanto la lezione adrianea non fosse scomparsa insieme a lui, ma sia riuscita a camminare con le proprie gambe portando l'impresa ad intra prendere vere e proprie iniziative di Corporate social responsibility contro l'inquinamento. III.1.6 Il Bilancio sociale Ritengo che l'Olivetti dell'ingegner Adriano avrebbe volentieri affiancato al bilancio civilisti co-fiscale, un proprio bilancio sociale, se una simile pratica fosse esistita a quei tempi. Per il suo confidare nel valore della condivisione della conoscenza, fondamento della comprensione reciproca primo segno di “maturità e civiltà”, punto di partenza per un comune progresso sociale. Gli effetti di una tale mentalità erano visibili già all'interno dell'azienda, dove temi di ordine sia operativo che sociale erano veramente appannaggio di tutti. Ogni dipendente era sempre a conoscenza delle scelte effettuate dall'azienda, le risorse impiegate e i risultati otte nuti in tutti i campi. A questo proposito, ancora una volta Gallino, con la sua testimonianza, ci dà l'idea della trasparenza olivettiana: «Allora mi colpiva, e ancora mi colpisce nella memoria, il fatto che quella fosse una grande fabbrica in cui quasi tutti, a cominciare dagli operai, sapevano quasi tutto di ciò che accadeva. Io stesso [...] partecipai a varie riunioni della Commissione interna della Ico, che com prendeva gli stabilimenti maggiori. In tale ruolo ebbi modo di incontrare molti operai e i loro delegati, uomini e donne, queste ultime particolarmente combattive, per lo più apparte nenti alla Cgil. Tutti loro parlavano di piani di produzione, salari, cottimi, investimenti, con dizioni di lavoro con una lucidità, una capacità dì inquadrare i problemi, che a me apparivano un segno di grande maturità e civiltà. [...] Mi colpiva sempre come i delegati e le delegate operaie conoscessero bene la situazione dell'azienda. Sembrava che tra loro e l'amministratore delegato, tutto sommato, non ci fosse un gran distanza quanto a livello di informazione: tutti avevano l'aria di aver letto più o meno le stesse carte. Credo che ciò fosse dovuto a due elementi. In primo luogo l'azienda faceva circolare all'interno gran copia di notiziari e documenti sulle proprie attività, a tutti accessibili. Inoltre la fabbrica era davvero una parte 165 della comunità, una fabbrica profondamente radicata nel territorio, dove il tecnico, l'opera io, l'impiegato e il dirigente abitavano spesso a pochi isolati di distanza e si ritrovavano alla mensa, alla biblioteca per prendere un libro in prestito, al cinema, alle conferenze del Centro culturale. Anche per tali vie informali si realizzava la circolazione di informazioni che soltanto in una grande fabbrica insediata in un territorio relativamente piccolo credo fosse possibile, a parte le altre peculiarità della Olivetti.» A quanto pare tutti avevano una visione complessiva (questa era la trasparenza) di quello che succedeva nell'azienda. Questo atteggiamento era diventato parte della formazione professionale collettiva all'interno dell'azienda: si partecipava tutti a pensare il futuro, a costruir lo insieme, creando una spinta verso la coesione. L'Olivetti insomma non avrebbe avuto ne cessità di un ulteriore strumento per dare “consapevolezza di fini” ai lavoratori e coinvol gerli nel raggiungimento degli scopi etici. Riguardo alle funzioni assolte da un bilancio sociale nel suo essere una comunicazione rivolta al mercato (soprattutto) e ai soggetti esterni all'impresa in genere, ricordiamo che le suddette funzioni consistono essenzialmente in un miglioramento dell'immagine percepita dagli stakeholder, cioè della reputazione aziendale, nell'ottica della creazione di un generale clima di approvazione sull'operato dell'impresa. Ecco, possiamo dire che all'Olivetti il compi to di diffondere l'immagine di un'azienda alla ricerca di un miglioramento diffuso della quali tà della vita non era affidato a un documento scritto ma ai suoi stessi prodotti; e quelli che costruiscono la sua reputazione non sono i ragionieri addetti alla contabilità sociale, ma gli ingegneri, i designer, gli artisti che collaborano durante la progettazione di una macchina, cu randone insieme tanto i congegni meccanici quanto il vestito. All'Olivetti accanto a coloro che curano le vie di comunicazione attraverso tutta l'azienda e fra i suoi livelli, operano quelli che comunicano all'esterno l'immagine unitaria di questa nella forma dei prodotti, nella grafica, nei messaggi pubblicitari, nelle architetture, negli arredi. Un tratto che distingueva l'Olivetti dalle aziende di quegli anni era proprio la coerenza della propria immagine. L'Olivetti, che produceva macchine per scrivere e da calcolo, si proponeva come missione di migliorare la comunicazione tra le persone e di agevolare scelte più razionali, perché supportate da ele menti quantitativi. Tutta la pubblicità dell'Olivetti ha sempre gravitato su questi elementi: un'azienda che produce macchine per scrivere e per calcolare, che migliorano la società in cui viviamo; macchine che hanno anche una loro bellezza formale, costruite in stabilimenti archi- 166 tettonicamente altrettanto belli; un'azienda in cui il rapporto con le maestranze, le istituzioni e l'ambiente è il più possibile armonico, corretto e civile. Una tale coerenza dell'immagine ra ramente è stata raggiunta da altre imprese italiane. In poche parole, quindi, non c'era bisogno di costruirsi un'immagine, non essendoci separazione tra la forma e l'essenza, tra ciò che ap pare all'esterno e ciò è in sostanza. Oggigiorno però le strategie di comunicazione, le tecnologie dell'immagine, i marchi senza niente dietro hanno ormai talmente ottuso la sensibilità di gran parte del pubblico, la capacità di distinguere tra apparenza e realtà, che probabilmente perfino l'ingegner Adriano si troverebbe in difficoltà. Stenterebbe cioè a comunicare che un'impresa come la sua si caratterizza anzitutto per il fatto di anteporre la persona al profitto, o meglio di applicare il profitto allo scopo di promuovere la crescita della persona; e, in secondo luogo, per l'impegno di far coincidere, e anzi di far interagire, la prima e la seconda, la forma e la funzione, il design del l'oggetto e il valore d'uso, l'aspetto e l'utilità socialmente riconosciuta di questo. Un messaggio che oggi sicuramente è arduo da far passare. Peraltro, come dimostra lo sviluppo dei movimenti di critica alla globalizzazione, la capacità dei consumatori di comprendere che la realtà è diversa da quella descritta dai marketing manager o dagli specialisti di comunicazione e immagine, si sta ricostituendo. Con l'auspicio che la diffusione di questa nuova consapevolezza e di una migliore capacità di giudizio, stimoli le imprese ad accettare il fatto che per dirsi socialmente responsabili non basti usare il bilancio sociale come «la vetrina delle limousine alle vedove e agli orfani» (per dirla alla Paolo D'Anselmi), perché solo il «porsi di fronte allo specchio della favola di Biancaneve non [...] con lo spirito di chiedere quanto fossero belli e bravi, [...] questo oltre che segno di democra zia economica e di onestà intellettuale è anche un segno di grande responsabilità sociale», come afferma Luciano Hinna. Ritengo che ci sia bisogno di fare un'ultima considerazione in merito alla difficoltà che pro babilmente avrebbe avuto l'ingegner Adriano, dovendo scegliere tra i vari modelli di bilancio sociale disponibili oggigiorno, nel trovarne uno capace di trasmettere appieno le ricchezze create dalla sua azienda per tutta la società, una su tutte la felicità dei suoi dipendenti. Cosa vuol dire, in concreto, lavorare in un'impresa «indirizzata ad una più libera, felice e consape vole esplicazione della persona umana», si può intuire dalle parole di Gianfranco Ferlito, ex responsabile dei Laboratori di componentistica elettronica di Scarmagno: 167 «Anche quando ero un semplice impiegato, non mi sono mai sentito un "signor Nessuno", perché quando andavo a parlare al gestore del personale trovavo una persona che si era in formata di tutto quello che mi riguardava e parlava con competenza dei problemi e delle cose che gli sottoponevo. Certo si possono provare diversi gradi di piacere nel lavoro, e cer to ho un rimpianto di quello che ho lasciato in Olivetti: almeno fino a un certo periodo, c'era un senso di appartenenza e di considerazione reciproca. Era proprio stima nei confronti di qualcuno, magari di qualcun altro no; ma la sensazione era quella che fossimo parte di qualcosa che funzionava bene, che sapeva dire qualcosa di nuovo e che ogni giorno cresceva un po' di più. Questo senso di appartenenza dava anche spinta e piacere nel lavoro; oggi, quando vado a lavorare, delle volte ci vado solo perché bisogna andare.» Non sentirsi un “signor Nessuno” nel luogo di lavoro, svegliarsi la mattina con la consapevolezza che stiamo andando a fare il nostro mestiere non “solo perché bisogna andare”. Cose del genere rappresentano, a parer mio, la vera rivoluzione sociale di cui ancora oggi abbiamo più che mai bisogno. Ma dubito che esse siano suscettibili di tradursi in indici o di quantifi carsi in numeri. Personalmente, in questo concordo con l'opinione, di seguito riportata, dello scrittore parmigiano Paolo Nori: «Quando, qualche mese fa, ho saputo che alle elezioni comunali di Parma c'era una lista che si chiamava “Parma bene comune”, io, che essendo di Parma, e un po' la conosco, mi son chiesto in che senso sarebbe un bene. Parma non è un bene, ho pensato. Parma, ho pensato, è un'idea, un accento, un modo di parlare, di imprecare, di gesticolare, è una cantilena, è un dialetto, è un modo di camminare, è un modo di accendersi le sigarette, è un modo di piegare la testa quando si guarda, è la luce che c'è sulla via Emilia a una certa ora del giorno, è l'o dore che c'è in Cittadella quando è piovuto, è il suono delle campane della Steccata che son tutte cose che non si possono scrivere dentro un bilancio, beni mobili, beni immobili, am mortamenti. “I rintocchi del campanile / che ha messo radici nel cielo veneziano: / frutti che cadono senza toccare / il suolo. Se esiste un'altra vita / lì qualcuno si occupa della raccolta di queste cose”, scrive Iosif Brodskij, e mi vien da dire che è vero, se esiste un'altra vita, son quelle, le cose da raccogliere, ma in questa vita, mettere a bilancio queste cose è un po' diffi cile, secondo me.» Potremmo contare quanti libri la biblioteca aziendale ha dato in prestito, ma non sapremmo comunque dire in quante persone sia nata la passione per la lettura. Potremo misurare l'abbassamento degli indici di assenteismo e turnover ma difficilmente saremo mai in grado di rendicontare la soddisfazione che un dipendente trova nel fare il suo lavoro. 168 III.1.7 Osservazioni finali A questo punto possediamo sufficienti elementi per poter tirare le somme e rispondere al quesito oggetto di questa tesi. La risposta non può che essere affermativa. Dal confronto effettuato emerge con chiarezza che Adriano Olivetti fu in tutto e per tutto un precursore della Corporate social responsibility. Oggi il contesto è profondamente mutato: gli attuali strumenti di Csr sono, per forza di cose, molto diversi dalle pratiche olivettiane di responsabilità sociale che erano costruite su misura per quel determinato insieme di circostanze della metà del '900. Ma i campi d'azione, le tematiche verso cui venivano indirizzati gli sforzi (l'ambient e, i lavoratori, le comunità locali e la società in genere), questi sono rimasti i soliti oggi come allora. Ad esempio, nell'ambito del sostegno allo sviluppo delle aree economicamente depresse, mentre oggi va a intervenire esclusivamente nei Less developed Country, Adriano individuò quelle necessità di sviluppo anche nel contesto domestico e diede così il suo contri buto al Mezzogiorno. Nel canavese creò l'I-Rur coi medesimi scopi. In generale l'Olivetti andò sempre a localizzarsi nelle zone dov'era ridotto al minimo il livello d'investimento e massimizzata l'opportunità di lavoro da affidare ai cittadini locali; zone che nella prima metà del ventesimo secolo potevano essere tanto l'Argentina e il Brasile quanto Barcellona o Glasgow. Adriano fu quindi un precursore della Csr per gli ambiti in cui concentrò i suoi sforzi e un pioniere nella costruzione di efficaci strumenti atti a risolvere i problemi individuati. Strumenti che, essendo mutato il contesto di applicazione, per la loro contingenza ad una situa zione ormai appartenente al passato, non sarebbero replicabili ai giorni nostri. Strumenti che però potrebbero avere ancora qualcosa da insegnare sotto il profilo dell'eccellenza che li caratterizzava, per il modo in cui erano stati progettati e implementati, ricercando costante mente e contemporaneamente efficienza, efficacia e qualità. Altro punto d'incontro è riscontrabile nel fatto che, sia la Csr che Adriano, agiscono andan do oltre ciò che è prescritto dalla legge. E va detto che nella metà del '900 questo fatto era an cora più importante, data la carenza legislativa non solo riguardo gli obblighi civili e sociali delle imprese (lo Statuto dei lavoratori è del 1970), ma soprattutto riguardo agli stessi servizi assistenziali che uno Stato dovrebbe offrire (la legge che legittima lo Stato a gestire direttamente le scuole dell'infanzia è la n. 444 del 18 marzo 1968). Adriano rappresentò il cambia mento, accompagnò il passaggio dell'Italia da civiltà rurale a industriale ma non rimase indif - 169 ferente ai nuovi bisogni di un popolo che attraversava una profonda trasformazione culturale. Coerentemente con la propria idea di responsabilità d’impresa, se ne fece interprete, e, vi sta la manifesta lentezza dello Stato nel prendere coscienza e nel fronteggiare queste nascenti esigenze, per primo sviluppò servizi atti al loro soddisfacimento. E sempre coerentemente con la propria idea di responsabilità sociale impostò tali servizi assistenziali in modo che fos sero integrativi e non sostitutivi. L'intento di Adriano era quello di tracciare un solco in cui sia lo Stato (con gli enti pubblici) sia i privati (si pensi alla moderna Service industry) sarebbe ro potuti andare a inserirsi. Lo scopo era fare in modo che, piano piano, lo Stato si accollasse lo svolgimento di quei servizi di tipo più propriamente pubblico come la sanità e l'istruzione e allo stesso tempo l'iniziativa privata si rendesse indipendente nella fornitura di alcuni servizi residuali come ad esempio quelli di stampo culturale. Questo modo di operare nel sociale è pienamente in linea con la mentalità che ispira l'integrazione della Csr nella strategia di un'impresa. Adriano però non anticipò la Csr solo nelle opere concrete ma anche nella visione sociale ed economica che sta alla base di questa nuova dottrina. Infatti la filosofia che ispirò l'opera adrianea, si inserisce di diritto nel filone di quella parte del pensiero economico critica verso il sistema economico capitalista, in seno al quale è nata la moderna Csr. Secondo entrambi, se per un verso riconoscono a tale sistema la grande capacità di produrre ricchezza e benessere, allo stesso tempo lo riconoscono anche incapace di portare avanti questo progresso in modo omogeneo, contribuendo, talvolta, all'inasprimento delle disuguaglianze sia economiche che sociali presenti tra i diversi strati della popolazione di un paese, o tra nazione e nazione. Ciò è supportato da Luciano Gallino quando dice che «Quello di Adriano Olivetti era un capitalismo che sapeva fare quello che il capitalismo con temporaneo sembra aver perso la capacità di fare – a parte il dettaglio che gli manca la volontà per farlo. Ovvero sapeva produrre ricchezza, ma conosceva anche il modo di distribuirla, e lo praticava. Contrariamente al capitalismo contemporaneo che produce indubbiamente ricchezza, ma si sta rivelando, da due decenni almeno, scarsamente capace di ridistribuirla, al fine di mantenere le disuguaglianze sociali – nel mondo intero, non solo nei paesi avanzati – intorno a un limite che appaia accettabile alla luce di una comune nozione di equità distributiva.» Anche Armando Marchi, ex responsabile del centro di formazione manageriale Barilla Lab, era della medesima opinione avendo affermato che 170 «Di certo il modello olivettiano non è riproponibile ma si potrebbe cominciare col riconoscere per prima cosa i limiti delle persone e delle organizzazioni e rendersi poi conto che alcuni di valori del modello olivettiano sono ancora più che attuali. Si potrebbe, forse, lavorare su tre parole chiave che il managerialismo ha sottoposto a damnatio memoriae: equità (che vorrebbe dire anche un po' di sobrietà, ma questa oggi è senz'altro utopia); solidarietà (non in senso parrocchiale: meno individui e più «persone») e diversità (per combattere l’appiattimento sul ruolo facendo continuamente eccezioni).» Equità, solidarietà, ridistribuzione della ricchezza creata per il mantenimento delle disuguaglianze sociali entro un limite accettabile; sono tutti concetti che Adriano Olivetti condivide con la Corporate social responsibility. L'ingegnere, avendo progressivamente constatato che «ogni problema di fabbrica diventava un problema esterno e che solo chi avesse potuto coor dinare i problemi interni a quelli esterni sarebbe riuscito a dare la soluzione corretta a tutte le cose», anticipa quella presa di coscienza, fondamento teorico della Csr. E Alberto Peretti, professionista nel campo della formazione e consulenza organizzativa, all'inizio del suo articolo Considerazioni sull'etica della Responsabilità Sociale dell'Impresa , ci dà un'ulteriore conferma a sostegno della teoria che individuerebbe un'assonanza ideologica di fondo tra i nostri due modelli oggetto di confronto: «Che cosa c'è dietro la Responsabilità Sociale dell'Impresa? Su che cosa si poggia la scelta di un'impresa che decide di essere eticamente attenta alle conseguenze e alle ripercussioni, anche future e indirette, che l'agire dell'organizzazione avrà sull'ambiente, interno ed esterno all'organizzazione, e sulla società? Una risposta la si intravede contenuta in filigrana in un discorso tenuto da Adriano Olivetti nella primavera del lontano 1955 in occasiono dell'inaugurazione dello stabilimento Olivetti a Pozzuoli. «Può l'industria – si chiede Olivetti – darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?» Vorrei tentare di dare una lettura dell'"affascinante al di là" cui accenna Oli vetti, sviluppando il concetto di “ulteriorità dell'agire economico”, un'ulteriorità che rappresenta l'autentica base etica fondativa della Responsabilità Sociale dell'Impresa. Senza la quale l'agire responsabile rischia di essere frainteso, confuso con altre, strumentali scelte imprenditoriali.» 171 Detto questo, bisogna anche riconoscere che tra le due ideologie vi è una differenza sostan ziale. Adriano Olivetti aveva un'idea dello sviluppo sociale e dello sviluppo economico coinci dente con quella dello sviluppo umano. Considerava lo sviluppo sociale come il realizzarsi della società conformemente all'essenza umana e la fabbrica come «un organismo sociale che condiziona la vita di chi contribuisce alla sua efficienza e al suo sviluppo». Date queste pre messe, Adriano si pone a notevole distanza dalla Csr quando ne deduce che «la fabbrica esiste per l'uomo» e perciò va considerato come un «bene comune e non un interesse privato». La Csr non arriva a tanto, non afferma che l'impresa privata dovrebbe essere un bene comu ne. Ma la Csr stessa, allo stesso tempo, non è troppo lontana da una tale concezione quando, riconoscendo, in accordo con lo Stakeholder based approach, l'ente economico privato come oggetto delle istanze di un insieme allargato di stakeholder (il cui soddisfacimento diventa obiettivo strategico a pieno titolo non essendo meno importante per la sopravvivenza dell'im presa quanto quello dell'interesse, dei suoi proprietari, a che siano generati profitti) ne mitiga l'autoreferenzialità degli scopi. III.1.8 Conclusione L'ingegner Adriano credeva nella qualità delle relazioni umane, nella collaborazione tra lavoro e società. Riteneva giusto che tutti si attendessero un lavoro dignitoso, un'occupazione stabile e buoni salari; che tutti godessero di un'esistenza collettiva ricca di fermenti culturali, inserita in un ambiente armonioso, sapientemente disegnato intessendo natura e storia. «Il fatto che ai nostri giorni non pochi di tali diritti, che per qualche tempo parevano definitivamente acquisiti, siano nuovamente posti in questione, in via di principio o di fatto, nel nostro paese come in altri, ci chiede di proseguire nell'impegno universalistico che fu di Adriano: l'impegno di tutelarli, di difenderli e per quanto possibile di estenderli ovunque. La mondializzazione di questi diritti, in luogo della loro erosione o del loro ottundimento, è lo scopo che ancor oggi ci propone Adriano Olivetti» asserisce Gallino. Questo è il lascito dell'ingegnere ai posteri, questa è l'imperitura istanza di Adriano Olivetti. Un'istanza che, ai nostri giorni, nell'ambito delle imprese for profit, è sta ta raccolta proprio dalla Corporate social responsibility. «Oggi l'attenzione verso i lavoratori, l'ambiente, la comunità, si chiama Csr. Adriano Olivetti lo ha fatto sessant'anni fa. Bene, oggi 172 sappiamo che solo attraverso la Csr abbiamo la possibilità di salvare la nostra pelle, e anche il nostro pianeta», ha dichiarato Marco Roveda, patron di LifeGate, azienda che impegnata nella promozione di modelli economici di sviluppo sostenibile. Ad Adriano Olivetti dobbiamo riconoscere il merito di averci messo in guardia in anticipo, di averci indicato una valida via decine di anni prima che gli effetti negativi dell'attuale mo dello economico dominante fossero tali da rendere improcrastinabile la presa di seri prov vedimenti. Una via sintetizzabile nelle parole di Roveda quando dice che «È solo cambiando i modelli di riferimento che potremo cambiare le cose. Smettere di curare l'effetto, curare in vece la causa». Ad Adriano Olivetti, che è riuscito a realizzare un’impresa non più solo pro duttrice di beni, ma di bene, va il merito indiscusso di aver fatto della propria vita la prova tangibile che «Servire la pace [...] con la stessa volontà, la stessa intensità, la stessa audacia che furono usate a scopo di sopraffazione, distruzione, terrore» è possibile. 173 174 BIBLIOGRAFIA Adriano Olivetti, Valerio Ochetto, Marsilio CIVITAS HOMINUM, Adriano Olivetti, Aragno Città dell’uomo, Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità Uomini e lavoro alla Olivetti, a cura di Francesco Novara, Renato Zorzi e Roberta Garruccio, Bruno Mondadori La responsabilità sociale dell’impresa, a cura di Giuseppe Conte, Editori Laterza Adriano Olivetti lo spirito nell'impresa, Giulio Sapelli, Davide Cadeddu, Il Margine Il bilancio sociale, a cura di Luciano Hinna, il Sole 24 Ore L'impresa responsabile: un'intervista su Adriano Olivetti, Luciano Gallino, Edizioni di Comunità Quattro anni con Olivetti, a cura di A. Castronovo e M. C. Farolfi, La Mandragora Editrice Responsabilità sociale e modelli di misurazione, Luca Bagnoli Corporate Strategy, David Collis e Cynthia Montgomery, McGraw-Hill Companies Fondamenti di economia e gestione delle imprese, Francesco Ciampi, Firenze University Press Adriano Olivetti un secolo troppo presto, a cura di Marco Peroni e Riccarco Cecchetti, BeccoGiallo SITOGRAFIA http://www.fabbricafilosofica.it http://www.storiaolivetti.it http://it.wikipedia.org DOCUMENTI AUDIOVISIVI Adriano Olivetti - La storia siamo noi, Rai Paolo Bricco - Le storie, di Corrado Augias, Rai Tre 175 176 Ringraziamenti Ringrazio il mio professore che mi ha dato fiducia. Poi ringrazio mio fratello che lasciandomi la camera tutta per me non poteva darmi aiuto migliore! Invece un bel “non grazie” va alla mia nonna che anche quando mi sveglio verso mezzogiorno mi chiede “Ma come mai ti sei svegliato così presto? Ma hai dormito abbastanza?” Nonna, se era per te, sai quando mi laureavo! (Molto, molto prima...) Grazie alle biblioteche di Montecatini, di Pistoia e di Firenze, che funzionano. E poi il babbo, la mamma, l’altra mia nonna e il nonno, e gli altri, c’è davvero bisogno che vi dica quanto vi devo? E tutti gli amici, anche per voi, non ci sono ringraziamenti che bastino. Ma in questo momento, più di ogni altra cosa, mi vien da ringraziare che finalmente… sia finita! Montecatini Terme, 15/04/2013 Lorenzo Paccosi 177
Report "Adriano Olivetti, un precursore della Corporate social responsibility?"