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Parmenide
PRM 8
Collana del Seminario di Storia della Scienza
diretta da Pasquale Guaragnella
U
n ricercatore può agire alla maniera di Sherlock Holmes e risalire da particolari normalmente ritenuti inessenziali a importanti conoscenze scientifiche? Indizi, prove ed evidenze sono da sempre stati al centro della riflessione storico–scientifica ed epistemologica, le quali si sono tuttavia tradizionalmente concentrate su discipline dal forte statuto sperimental–dimostrativo, come la fisica. Il volume raccoglie i saggi di un gruppo di lavoro interno al centro interuniversitario di ricerca Seminario di Storia della Scienza che, in maniera interdisciplinare, ha scandagliato le scienze della vita, della terra e dell’informazione alla ricerca di storie che mostrassero il fortunato comportamento di ricercatori del passato che, come dice il poeta, hanno seguito le proprie intuizioni “senza una ragione, come un ragazzo segue un aquilone”.
Contributi di Benedetta Campanile, Rossella De Ceglie, Lucia De Frenza, Liborio Dibattista, Carla Petrocelli.
F
rancesco Paolo de Ceglia insegna Storia della scienza presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, dove dirige il centro interuniversitario di ricerca Seminario di Storia della Scienza. Studioso e divulgatore del pensiero scientifico moderno, in particolare nei suoi rapporti con l’estetica e la teologia, è stato finalista del Premio Viareggio con II segreto di san Gennaro. Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, Torino 2016).
Prove, indizi ed evidenze a cura di F.P. de Ceglia
Prove, indizi ed evidenze
“Seminario di Storia della Scienza” – Centro di ricerca dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, dell’Università del Salento, dell’Università del Molise, dell’Università della Basilicata, del Politecnico di Bari e dell’Università di Foggia.
ISBN 978-88-255-1276-2
9 788825 512762
Aracne
15,00 euro
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parmenide Collana del Seminario di Storia della Scienza
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Prove, indizi ed evidenze percorsi di storia della scienza a cura di
Francesco Paolo de Ceglia
PARMENIDE COLLANA DEL SEMINARIO DI STORIA DELLA SCIENZA
Direttore Pasquale G Università di Bari Aldo Moro
Comitato scientifico Agostino C
Ferdinando Felice M
Università del Molise
Università della Basilicata
Raffaella D F
Rossano P
Università di Bari Aldo Moro
Università del Molise
Mauro D G
Mario Daniele P
Università di Bari Aldo Moro
Politecnico di Bari
Augusto G
Arcangelo R
Università di Bari Aldo Moro
Università del Salento
Antonella Grazia Maria Immacolata Romana G
Accademia Polacca delle Scienze di Roma
Università della Basilicata
Gabriella S
Giuseppe M
Università del Salento
Politecnico di Bari Aldo Moro
Luigi T
Piotr S
Università di Foggia
Comitato redazionale Luigi B
Giuseppe M
Università di Bari Aldo Moro
Università di Bari Aldo Moro
Antonietta D’A
Salvatore P
Università di Bari Aldo Moro
Università del Molise
Francesco Paolo C
Arcangelo R
Università di Bari Aldo Moro
Università del Salento
Pasquale G
Luigi T
Università di Bari Aldo Moro
Università di Foggia
Antonella Grazia Maria Immacolata Romana G Università della Basilicata
Segreteria di redazione Benedetta C Università di Bari Aldo Moro
Lucia D F Università di Bari Aldo Moro
PARMENIDE COLLANA DEL SEMINARIO DI STORIA DELLA SCIENZA
L’Essere di Parmenide (– a.C.) non è suddiviso in terra, acqua, aria, persone, animali, piante; esso è un’enorme massa sferica di sostanza omogenea, isodensa, continua, indivisa, sempre identica, immobile, eterna, che costituisce il cosmo e lo riempie. Questa visione, difficilmente condivisibile tra gli scienziati del nostro tempo, apre comunque la prima via, quella della ragione o del pensiero, che persuade e svela la vera natura del reale. Mentre la seconda via, quella dell’esperienza umana o dell’abbandono ai sensi, è ingannevole e contraddittoria. Ciò che esiste è soltanto l’Essere. Questo Essere, che è unico, viene percepito dagli esseri umani come spezzettato in molteplici cose: «A questo unico Essere saranno attribuiti tanti nomi quante sono le cose che i mortali proposero, credendo che fossero vere, che nascessero e perissero, che cambiassero luogo e mutassero luminoso colore». In realtà «tutte le cose sono uno e quest’uno è l’Essere». Dobbiamo molto a Parmenide per aver aperto la nostra mente al razionale, alla ricerca della verità come momento unificante della stessa percezione scientifica, che è diversificata e stratificata, manifestandosi con numerosi e diversificati livelli di interpretazione e dettaglio. Questa prospettiva consente al pensiero di osare nel mondo del possibile, purché dimostrabile, che è il preludio essenziale alle nostre proiezioni scientifiche, dalle ipotesi alle dimostrazioni. A questa riflessione s’ispira la Collana del Seminario di Storia della Scienza, Centro interuniversitario di ricerca nato dalla collaborazione dell’Università di Bari, dell’Università del Salento, dell’Università del Molise, dell’Università della Basilicata, del Politecnico di Bari e dell’Università di Foggia.
I testi della collana sono sottoposti ad un sistema di valutazione paritaria ed anonima. Il volume è stato realizzato con l’utilizzo di fondi dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” del .
Prove, indizi ed evidenze Percorsi di storia della scienza a cura di
Francesco Paolo de Ceglia contributi di Benedetta Campanile Francesco Paolo de Ceglia Rossella De Ceglie Lucia De Frenza Liborio Dibattista Carla Petrocelli
Aracne editrice www.aracneeditrice.it
[email protected] Copyright © MMXVIII Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale www.gioacchinoonoratieditore.it
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I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: aprile
Indice
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Introduzione Francesco Paolo de Ceglia
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La voce del sangue. Cadaveri che reagiscono al cospetto dell’assassino nella scienza di età moderna Francesco Paolo de Ceglia
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Acqua che cela, acqua che svela. I segni dell’annegamento in un caso giudiziario della metà dell’Ottocento Lucia De Frenza
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“Ta pum”. Lorenzo Bonomo e gli indizi di balistica interna nella Prima Guerra Mondiale Benedetta Campanile
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Un “fatto” scientifico indiziario. La reazione di Wassermann tra epistemologia imaginabilis e costrutto sociale Liborio Dibattista
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Fanciulla nella poesia, sposa della scienza. Il sogno di Ada Byron, contessa di Lovelace Carla Petrocelli
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“Il cammino della natura è mutato”. Catastrofi ed estinzioni Rossella De Ceglie
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Gli Autori
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Prove, indizi ed evidenze ISBN 978-88-255-1276-2 DOI 10.4399/97888255127623 pp. 55-82 (aprile 2018)
Acqua che cela, acqua che svela I segni dell’annegamento in un caso giudiziario della metà dell’Ottocento LUCIA DE FRENZA∗
Premessa L’acqua regna sulla vita e sulla morte. Già nelle culture precristiane l’immersione in acqua fu associata all’idea della catarsi e della rinascita1. In diversi rituali iniziatici antichi l’atto di bagnarsi venne usato per indicare l’inizio di una vita nuova. Gli ebrei compivano abluzioni purificatrici; gli egiziani veneravano Nun, la divinità che rappresentava l’oceano primordiale, da cui ogni vita aveva avuto origine. Questa simbologia passò nella tradizione cristiana, che sacralizzò il battesimo, concepito come il bagno in acqua, che lava il peccato originale e dà principio alla vita in Cristo, ripetizione della venuta al mondo2. In una visione più laica il contatto con l’acqua è l’affidarsi alla natura, il perdere il peso dell’esistenza, il tornare all’ancestrale e confortante unità con l’origine: la madre. In questa accezione anche ∗
Centro Interuniversitario di Ricerca Seminario di Storia della Scienza. F. CHAUVAUD (dir.), Corps submergés, corps engloutis. Une histoire des noyés et de la noyade de l’Antiquité à nos jours, Créaphis, Grane 2007. 2 M. ELIADE, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book, Milano 1980, pp. 134-137. 1
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l’annegamento è per l’essere affranto dalle sofferenze della vita un fatto positivo. Nella letteratura e nella pittura il mito di Ofelia annegata è ricorrente. La sua morte è il simbolo della fuga dal dolore, senza ribellione e senz’odio, di una bellezza pura e giovane che rifiorisce nel distacco dal mondo3. D’altro canto, l’acqua ha da sempre suggerito il timore, anch’esso ancestrale, della morte. L’annegamento fisico, insieme a quello psicologico, rappresenta la perdita dell’aggancio alla terra, cioè al luogo sicuro, il dissolversi nel caos e nell’oscurità. Il pericolo dell’acqua viene sentito come il tuffo nell’ignoto che dà la morte. Nell’antichità tale paura prese forma nel mito di Scilla e Cariddi, mostri evocanti la minaccia dell’inghiottimento e della scomparsa negli abissi e, in senso traslato, lo sbarramento al cammino dell’uomo, il confine terrificante del suo viaggio4. Il terrore di svanire nei flutti fu anche più forte nelle epoche passate, quando non era diffusa la pratica del nuoto. A questo si deve aggiungere che fino al XVIII secolo in alcuni casi l’annegamento fu utilizzato come metodo economico e sbrigativo per eseguire le condanne a morte. Vita e morte nell’acqua possono, però, anche confondersi. Nel XVIII secolo una diffusa letteratura medica interessata a chiarire i segni della morte definì la sommersione nelle acque uno degli esempi più evidenti di uno stato di “vita sospesa” o meglio di “morte imperfetta”, in cui il meccanismo vitale appariva bloccato, ma non irrimediabilmente esaurito. Quest’idea scaturiva dalle recenti posizioni vitalistiche della medicina, che alimentavano l’ipotesi di un superamento del concetto cristiano di interruzione repentina della vita (l’anima s’invola nell’istante in cui il corpo muore) e portavano a soffermarsi su quegli eventi non chiari, nei quali l’arresto delle funzioni vitali appariva sol-
3 G. BACHELARD, L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Librairie José Corti, Paris 1942, pp. 97-125. 4 V. TETI, Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Donzelli, Roma 2013, pp. 175-184.
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tanto temporaneo5. In questi casi con opportune manovre o rimedi si poteva tentare di riavviare il motore della vita, rianimando il non morto. Al di là dell’ambiguità medico-antropologica della morte in acqua, vi era un altro ambito in cui la difficoltà di definire lo status dell’annegato diveniva campo di accese polemiche: quello della giurisprudenza penale. Fino all’inizio del Settecento i regolamenti di diversi Paesi prevedevano procedure giudiziarie semplificate nel caso di rinvenimento di cadaveri in acqua. In Olanda nel XVI secolo, per esempio, l’ispezione di corpi abbandonati per strada senza vita o di annegati era affidata ad ufficiali amministrativi, che dovevano fare rapporto in tribunale, ma si faceva eccezione per i bambini annegati di meno di sette anni, i quali erano visitati sul posto dai funzionari, senza l’obbligo di informare le autorità giudiziarie6. Quindi, si escludevano le circostanze del reato per i bambini morti e diventava superflua l’indagine di polizia. In alcuni Stati italiani fino al XVIII secolo il rapporto medico non era obbligatorio nei casi, in cui veniva riconosciuta l’ovvietà della morte. A Bologna, ad esempio, quando si ritrovava il cadavere di un annegato, così come quello di una persona morta per freddo o inedia, l’accertamento poteva essere eseguito semplicemente da un notaio criminale con un rapporto sottoscritto da due testimoni. Il magistrato incaricava i medici della perizia solo quando riscontrava lesioni corporali7. In altri termini, la constatazione della morte per annegamento non era considerata problematica, ma appariva ovvia conseguenza della sommer5 Nella cultura classica la morte era stata concepita come momento di passaggio e non come interruzione istantanea. La figura di Caronte traghettatore delle anime dei morti simboleggiava l’inizio del viaggio verso il distacco definitivo. Le anime che salivano sulla sua barca avevano ancora un peso, perché conservavano un esile legame con la vita. 6 J.A. KOOL, Aperçu historique au sujet de la société pour secourir les noyés, instituée à Amsterdam, suivi de Catalogue de livres sur les noyés, J. de Ruijter, Amsterdam 1855, pp. 120-124. 7 A. PASTORE, Il medico in tribunale. La perizia medica nella procedura penale d’antico Regime, secoli xvi-xviii, Casagrande, Bellinzona 1998, p. 91.
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sione. L’evidenza della situazione in cui il cadavere era trovato suggeriva la causa della morte ed escludeva, in genere, l’esistenza del reato. Successivamente, nel corso del XVIII secolo, in forza dell’avanzamento delle ricerche fisiopatologiche sull’annegamento, s’iniziò a discutere sui segni, che potessero essere utilizzati con più certezza, per stabilire se la morte di una persona trovata in acqua fosse da imputare ad omicidio, incidente o suicidio. La decisione in merito all’esistenza del reato, che era demandata al giudice criminale, acquisita la perizia medico-legale, era di estrema importanza, perché serviva ad aprire il caso giudiziario, stabilendo l’esistenza di un corpus delicti. Il perito poteva innanzitutto attestare, se la morte fosse avvenuta prima della caduta in acqua oppure dopo8. In entrambi i casi non poteva essere esclusa in assoluto la morte accidentale; tuttavia, la constatazione che non vi era stato annegamento, alimentava il sospetto che dovesse essere individuata un’altra dinamica per spiegare il decesso. L’esame del cadavere, inoltre, non forniva alcun indizio, per discriminare tra suicidio e omicidio. In questo caso il perito poteva avanzare solo delle ipotesi, basandosi sullo stile di vita o sulla storia personale della vittima. Si discusse nello stesso tempo anche in merito alla possibilità di acquisire il giudizio del medico come prova, anche quando si fosse raggiunto il limite, oltre il quale le tracce organiche non erano più idonee ad essere utilizzate per una diagnosi sulla causa del decesso. I corpi restituiti dalle acque, per l’azione meccanica dei flutti e per la lunga permanenza nei liquidi (poiché l’emersione si verificava solo quando si erano sviluppati gas putrefattivi nell’addome), erano difficili da valutare. Gli indizi materiali erano ambigui e l’esito dell’esame autoptico non aveva evidenza assoluta. Inoltre, non essendoci accordo sulla fisiopatologia del decesso, spesso il referto era il risultato delle convinzioni personali dei medici. Questi negavano, però, che le 8 M. PORRET, La médecine légale entre doctrines et pratiques, «Revue d’Histoire des Sciences Humaines», 2010, 1, pp. 3-15.
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proprie valutazioni fossero congetturali. Ai giudici spettò il compito di prendere posizione sull’attendibilità della perizia, cercando indizi e testimonianze coerenti con l’esito della valutazione medica. Molte opinioni, anche contrastanti, erano implicate nel giudizio. Questi aspetti complessi della procedura penale nei casi di morti annegati sono messi ben in luce nel caso giudiziario, che di seguito si prende in esame. Esso interessò una tranquilla cittadina della costa pugliese e fu discusso dalla Gran Corte criminale di Terra di Bari a cavallo tra il 1847 ed il 18489. Il caso riguardò la morte per annegamento di un giovane. Esclusa l’ipotesi del suicidio, perché non coerente con la condotta di vita della vittima, restarono da accertare quella della caduta accidentale o quella dell’omicidio. L’acqua aveva rivelato il cadavere, ma ne conteneva anche il mistero. Giudici, medici e l’intera popolazione si arrovellarono, cercando il motivo recondito di quella morte. Il caso Buttaro: annegamento o omicidio? Il 19 novembre 1847 un cadavere fu visto galleggiare al largo del porto di Mola di Bari. Alle sei di pomeriggio le correnti lo portarono a riva; quindi fu possibile prelevarlo ed adagiarlo su una tavola10. Il giudice circondariale, Francesco Saverio De Cri9
Sono conservati presso l’Archivio di Stato di Bari, Sezione di Trani (d’ora in poi, due grossi incartamenti di oltre un migliaio di pagine, che contengono tutti gli atti giudiziari: perizie, interrogatori, verbali del processo (Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, voll. 1-2). 10 Il corpo fu avvistato in mattinata; tuttavia, benché il porto fosse pieno di barche, nessuno si era messo in acqua per recuperare la vittima. Già a mezzogiorno erano cominciate a circolare le voci sull’identità dell’uomo, ma nessuno era intervenuto, neanche i familiari. Solo quando le correnti avevano spinto a riva il cadavere, questo fu recuperato. Intanto, erano arrivati i funzionari di polizia. Contrariamente all’uso in altri Stati, non si mise in atto alcuna pratica di rianimazione. La legislazione napoletana imponeva ferree norme di profilassi epidemiologica nel caso di “invenzione” di annegati. Il contatto con il cadavere era ritenuto potenzialmente pericoloso per la salute pubblica, per cui occorreva che fosse eseguito sotto la direzione di un medico. Questo potrebbe ASBAST)
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stofaro, chiamato per le dovute procedure giudiziarie, si recò sul posto del ritrovamento, accompagnato dal sergente maggiore di gendarmeria, comandante della brigata locale. Contemporaneamente furono convocati, secondo norma, i periti sanitari. Il giudice, dopo l’ispezione esteriore, minutamente riportata nel suo verbale, fece riconoscere il corpo da quattro “marinari”11 sotto giuramento, per quello di Nicola Buttaro, figlio di Luca, commerciante di Mola. Subito dopo arrivarono i due periti, Sebastiano Fanizza e Francesco Paolo Brunetti, dottori fisici-cerusici, alla presenza dei quali il cadavere fu rilevato e trasportato nell’atrietto dietro il convento di Sant’Antonio, dove, fatto giuramento “sul proprio onore e sulla propria coscienza”, i sanitari eseguirono l’autopsia. La perizia fu consegnata subito ed allegata al verbale del giudice12. Secondo le leggi di procedura penale contenute nel Codice per lo Regno delle Due Sicilie del 1819, il rapporto dell’ufficiale pubblico era uno degli strumenti, che davano inizio all’istruzione del procedimento13. Essendoci il cadavere, si era nel caso di reato rivelato da un “fatto permanente”, che implicava spiegare le ragioni del mancato soccorso al momento dell’avvistamento e dopo l’arrivo della vittima sul lido. Cfr. Istruzioni per la Gendarmeria reale istituita colla Real ordinanza de’ 30 agosto 1827, approvate col decreto dei 26 dicembre 1827, artt. 41-43, in P. LIBERATORE, Instituzioni della legislazione amministrativa vigente nel Regno delle due Sicilie, pt. III, Palma, Napoli 1837, pp. 197-198. 11 I testimoni che riconobbero il cadavere apposero la loro firma sul verbale. Non erano popolani; infatti, con il termine “marinaro” s’indicava sulla costa barese la persona addetta al commercio marittimo. 12 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 1, ff. 4-5. 13 Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte quarta, Leggi della procedure ne’ giudizj penali, Reale Tipografia del Ministero dello Stato, Napoli 1819. Sulla dottrina penalistica e la giustizia criminale della prima metà dell’Ottocento a Napoli la letteratura è vasta. Cfr. tra l’altro F. MASTROBERTI, Tra scienza e arbitrio. Il problema giudiziario e penale dal 1821 al 1848, Cacucci, Bari 2005; A. MAZZACANE, Una scienza per due Regni. La penalistica napoletana della restaurazione, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1995, 2, pp. 341-356; D. NOVARESE, Istituzioni e processo di codificazione nel Regno delle Due Sicilie. Le “Leggi penali” del 1819, Giuffrè, Milano 2000; F. ROGGERO, L’inchiesta nelle leggi della Procedura ne’ giudizi penali del Regno delle due Sicilie (1819), in P. MARCHETTI (a cura di), Inchiesta penale e pre-giudizio. Una riflessione interdisciplinare, Atti del Convegno, Teramo, 4 maggio 2006, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2007, pp. 209-245.
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l’avvio dell’“ingenere principale”, così detto per distinguerlo da quello “suppletorio”, che si metteva in atto quando il corpo mancava o fosse corrotto al punto da rendere impossibile l’esame autoptico. L’ufficiale di polizia faceva partire l’inchiesta con il suo verbale, nel quale riportava la situazione constatata, i caratteri degli eventi che l’avevano determinata, gli strumenti e gli effetti prodotti14. Sempre in questa fase all’ufficiale di polizia giudiziaria competeva la raccolta dei “reperti”, le tracce acquisite legalmente che servivano a stabilire se ci fosse stato un reato. Quest’indagine era indipendente dalla ricerca degli autori del crimine. Infatti, la procedura penale in vigore nel Regno borbonico distingueva due momenti dell’inchiesta penale: la prima, che era detta “prova generica” e serviva ad assicurarsi che si fosse in presenza di un crimine, la seconda, detta “prova specifica”, subentrava in seguito al riconoscimento del corpus delicti ed aveva come scopo quello d’individuare i colpevoli e consegnarli alla giustizia. Nella fase della “prova generica” l’ufficiale di polizia giudiziaria, che era il giudice del circondario o il giudice istruttore, si avvaleva della valutazione di periti delle diverse arti, procedeva agli interrogatori dei testimoni e poteva chiedere anche perquisizioni nelle abitazioni di soggetti coinvolti nelle vicende. Se lo riteneva necessario, aveva facoltà di procedere all’arresto dei sospettati15. Nel caso di Nicola Buttaro il giudice acquisì immediatamente la perizia dei due medici, che, eseguita l’osservazione esterna ed interna del cadavere, conclusero che «da tali osservazioni giudichiamo che la morte di Nicola Buttaro è avvenuta di recente per annegamento»16. Questo reperto non era sufficiente a chiudere l’indagine, pur negando esplicitamente il reato. L’“inspezione materiale” era atto necessario nell’“ingenere principale”, ma il giudizio dei periti non era definitivo, perché poteva 14
Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte quarta…, cit., p. 15. Ivi, pp. 19-22. 16 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 1, f. 7. 15
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essere corretto da altri esperti17. Il legislatore, infatti, aveva previsto che dal referto autoptico difficilmente avrebbero potuto trarsi elementi di certezza, perché esso avrebbe dovuto tener conto delle cause efficienti, occasionali e delle concause e spesso la deduzione sulla gravità delle ferite poteva derivare solo dalla valutazione dei loro effetti. Poiché il cadavere non poteva essere riesaminato una seconda volta, almeno non nel primo stato in cui era stato trovato, i periti dovevano mettere la massima accuratezza nell’ispezione materiale. Il giurista Niccola Nicolini avvertiva: «Ben descritto a suo tempo il corpo del reato, il giudizio può formarsi sempre e rettificarsi»18. Infatti, il rapporto poteva essere rilasciato anche dopo qualche giorno. Non fu così nel caso di Nicola Buttaro. Il rapporto del periti fu consegnato immediatamente ed allegato al verbale di rinvenimento del cadavere. Nonostante l’esito negativo della perizia, il giudice non si mostrò convinto del tutto della tesi dell’incidente: forse dette peso a delle incongruenze, che mettevano in dubbio l’apparenza dell’annegamento, come la scarsa profondità del fondale del porto e l’abilità di Buttaro come nuotatore; forse, gli erano già giunte all’orecchio delle voci di popolo, che accusavano Luca di parricidio. Il giudice iniziò ad interrogare i familiari e le persone vicine alla vittima. La compagna di Nicola, Innocenza Caputo, dichiarò autore del crimine “per sospicione” il padre di lui. Con questa denuncia l’inchiesta passava “nella specie”, cioè agli atti necessari a far luce sui responsabili dell’omicidio19. 17 N. NICOLINI, Della procedura penale nel Regno delle Due Sicilie esposta con le formole corrispondenti, vol. 1, Mansi, Livorno 1843, pp. 477-484. 18 Ivi, p. 482. Il Nicolini aveva svolto un ruolo di primo piano nella stesura della legislazione penale del 1819, ne compilò con Felice Parrilli e Giovanni Vittorio Englen il primo repertorio pubblicato a Napoli (Supplemento alla Collezione delle leggi, 1817) e ne dette un esteso commento in nove volumi, edito sempre a Napoli dal 1828 al 1832, Della procedura penale, da cui si cita. 19 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 1, ff. 32-33. Il passaggio dalla “prova generica” alla “prova specifica” era notificato da De Cristofaro ai giudici della Gran Corte criminale di Trani con un rapporto datato 22 novembre 1847, tre giorni dopo il ritrovamento del cadavere.
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Procedendo con gli interrogatori, emerse che Nicola era un giovane scapestrato ed insofferente dei doveri familiari. Il padre gli aveva imposto il 16 novembre di sorvegliare la raccolta delle olive in un fondo di sua proprietà, ma il ragazzo, trascurando il compito, se n’era andato a passeggiare per le campagne con la donna, con cui aveva una relazione illecita e da cui aspettava un figlio. Tornato a casa a notte fonda, il padre lo aveva cacciato. Nicola tra il 17 e il 18 novembre aveva dormito nel pielego di famiglia ancorato nel porto di Mola. Il cugino dichiarò che la vittima gli aveva manifestato l’intenzione di allontanarsi definitivamente dalla città ed aveva chiesto al padre viveri ed indumenti per il viaggio20. Il giorno prima della tragedia era tornato a terra e si era incontrato con la compagna. Il padre ed alcuni parenti lo avevano aspettato fuori dell’abitazione della donna con l’intenzione di costringerlo con la forza a seguirli. Luca aveva percosso pesantemente il figlio alla testa con una mazza, ma il giovane si era svincolato ed avviato al porto. Qui, aiutato da un marinaio della scorridora doganale di Monopoli, aveva rimesso in mare la lancia e si era indirizzato verso il battello. Quest’ultimo testimone dichiarò che a quel punto uno sconosciuto era salito con lui e che, quando erano al largo, aveva sentito provenire dalla barca delle grida indistinte. Il giorno dopo era stato trovato cadavere. Erano state le dichiarazioni rilasciate da Innocenza Caputo, che avevano fornito al giudice gli indizi a sostegno dell’ipotesi di omicidio21. La donna aveva rivelato il carattere violento del padre di Nicola, che mal sopportava l’unione dei due giovani e la recente gravidanza, ed aveva raccontato tutti i particolari dell’agguato fatto al giovane la sera prima della morte e l’identità delle persone coinvolte. Attraverso le confidenze dalle vicine di casa aveva realizzato la sua inchiesta parallela e ne aveva fornito spontaneamente i risultati al giudice. Luca e Marino Buttaro, rispettivamente padre e fratello di Nicola, Margheri20 21
Ivi, ff. 10-12. Ivi, f. 28.
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ta Brunetti, druda di Luca, ed il cugino Nicola De Santis furono arrestati con l’accusa di aver ucciso il congiunto e di essersi sbarazzati del cadavere, gettandolo nelle acque agitate del porto. Ad aprile del 1848 l’inchiesta passò al giudice istruttore, Simone Tomasuolo, che riconvocò tutti i testimoni22. Molti negarono di aver detto o sentito informazioni utili alle indagini; addirittura alcuni dichiararono di non aver neanche udito le dicerie, che circolavano sull’assassinio di Buttaro. Fu citato, tuttavia, un certo Vitantonio Grisetti, che aveva visto Nicola la notte della tragedia lottare con le onde, ma lo stesso negò23. Non c’era nessun elemento preciso a Fig. 1 – Vito Pascasio (Collezione privata). carico degli indiziati. L’accusa non cadeva, soltanto perché a sostenerla c’era la memoria scritta dal medico Vito Pascasio24 alla fine di dicembre del 1847, la quale confutava analiticamente il rapporto dei periti sull’esame del cadavere. Essa concludeva che la morte di Nico22 I verbali dell’ufficiale di polizia giudiziaria passavano all’ufficiale competente del caso, quando si doveva procedere per la “prova specifica”. Quest’ultimo era tenuto a ripetere l’interrogatorio dei testimoni. Cfr. Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte quarta…, cit., p. 23. 23 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 1, f. 447. 24 Vito Pascasio nacque a Mola nel 1820, figlio di un ingegnere di ponti e strade, che si era occupato nel 1847 dei lavori di sistemazione del porto cittadino. Si laureò a Napoli in Medicina e nel 1848 fu nominato ufficiale medico della Guardia nazionale del distretto di Bari, corpo imposto a Ferdinando II come garanzia liberale contro l’assolutismo del re e sciolto a maggio dello stesso anno dopo la soppressione del Parlamento. Con l’Unità d’Italia la Guardia nazionale fu ricostituita e Pascasio fu chiamato nuovamente a farne parte. Il medico di Mola coltivò interessi antropologici, zoologici e medici. E’ conosciuto soprattutto per il suo Catalogo de’ mammiferi della Puglia Peucezia (Petruzzelli, Bari 1853) e per alcune opere di medicina, come un Commento ad una malattia nervosa (Petruzzelli, Bari 1853). Morì a Mola nel 1864. Cfr. B. CAMPANILE, Vito Pascasio, al servizio dei mammiferi “bimani”, in F.P. DE CEGLIA, Scienziati di Puglia, Adda, Bari 2007, pp. 290-291; G. BERLINGERIO, Nobili, civili e galantuomini nella Mola del XVIII secolo, Schena, Fasano 1996, pp. 306-309.
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la Buttaro «non è avvenuta affatto per sommersione, ma che sommerso almeno nello stato di morte apparente per effetto delle gravi contusioni alla testa ha terminato l’infelice nell’acque gli ultimi momenti di vita»25. L’anomalia di questo caso stava proprio nel fatto che un’opinione, che non era stata acquisita legalmente come prova, potesse condizionare il parere dei giudici26. Messo in dubbio da quanto sosteneva Pascasio, Tomasuolo aveva fatto rivedere il giudizio medico-legale dagli stessi periti nominati all’inizio, Brunetti e Fanizza, i quali confermarono le dichiarazioni sottoscritte. Alla richiesta di «più estese considerazioni che inducevano i periti a pronunziare un tal giudizio di annegamento», essi risposero evidenziando le osservazioni effettuate sul cadavere di Buttaro, che costituivano i tre indizi principali per avvalorare l’annegamento da vivo, cioè la stasi venosa nei tessuti cerebrali, il liquido schiumoso e sanguinolento negli alveoli polmonari e l’acqua nello stomaco, e ribadendo che le ferite alla testa erano lievi e non potevano essere considerate causa della morte del giovane27. La seconda perizia era datata 1° aprile 1848. Il 14 dello stesso mese il giudice Tomasuolo dispose l’invio degli atti alla Gran corte criminale di Terra di Bari.
25 V. PASCASIO, Sul voluto annegamento di Niccolò Buttari di Luca. Brevissime riflessioni sulla ricerca delle cause della morte di Niccolò Buttari di Luca, Cannone, Bari 1848, p. 16. 26 Pascasio negò di aver alimentato la «mala impressione prodotta nelle menti de’ volgari», che subito si erano convinti della possibilità del parricidio. Questo effetto derivò «dall’atrocità del caso e dalla stranissima apatia dell’inquisitore» (Ivi, p. 3). Dopo il ritrovamento del cadavere molti avevano detto che Nicola era stato assassinato, né questo sospetto si era acquietato con l’esito negativo dell’autopsia. 27 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 1, ff. 428-430.
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Il “processo” al rapporto medico-legale Il Codice penale napoletano si basava su un modello di procedura, che è detto “misto”, perché nella sua articolazione contemperava elementi tipici del sistema inquisitorio con elementi di quello accusatorio. La prima fase, riservata alla raccolta delle prove, era improntata ai caratteri del sistema inquisitorio, poiché era caratterizzata dal segreto e dava ampia libertà al giudice di determinare il proprio modus operandi. La seconda parte, consistente nell’acquisizione dell’istruttoria e nel dibattimento, rivelava i segni distintivi del sistema accusatorio, poiché era pubblica, orale e presupponeva il contraddittorio (anche se in molti casi diveniva una semplice ratifica di quello che era stato desunto dall’indagine ed il giudice, appellandosi al libero convincimento, aveva ampia discrezione d’imporre il proprio parere in contrasto con qualsiasi evidenza dei fatti)28. Il legame della prima fase del procedimento penale con il modello inquisitorio è evidente nell’obbligo di segretezza del giudice e nel limite imposto ai difensori: questi ultimi non potevano accedere agli atti dell’istruttoria, se non quando era stata deliberata la messa in “legittimo stato d’accusa” degli imputati29. Nel caso di Nicola Buttaro il rapporto medico-legale, che era il “reperto” più importante per stabilire se si dovesse passare dalla “prova generica” a quella “specifica”, cioè alla ricerca degli autori del delitto, circolò immediatamente, addirittura in forma scritta, ed il suo riesame al di fuori dell’istruttoria rappresentò il nodo più difficile da superare per chiudere l’“ingenere”. Nonostante quanto previsto dal Codice, era sempre possibile che la segretezza dell’indagine si sgretolasse, senza neanche creare gravi ostacoli d’ordine giuridico, con il diritto d’informazione reclamato dal pubblico, il quale con morbosa curiosità tentava di accedere alle prove acquisite direttamente dagli uffi28 F. MASTROBERTI, Dibattimento e libero convincimento del giudice nel Mezzogiorno borbonico, in M.N. MILETTI (a cura di), Riti, tecniche, interessi. Il processo penale tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 2006, pp. 148-151. 29 Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte quarta…, cit., pp. 45-46.
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ciali di polizia, nonché di leggere gli accurati resoconti dei fatti criminosi nelle pubblicazioni di più varia natura (scandalistici, giudiziari, scientifici). Il pubblico-spettatore in questo periodo non fu incluso nel rito penale solo nella formula del giurì, istituita dal codice napoleonico e, poi, ripresa in vari modi negli altri codici europei, ma anche come il popolo nel suo insieme, il quale cercava un nuovo rapporto con le istituzioni, s’interessava, amplificava le notizie, creava un’opinione, rendeva il processo un fatto mediatico30. In Francia questo fenomeno si manifestò prima che altrove. Molti storici, infatti, si sono soffermati sull’ampia diffusione della letteratura giudiziaria popolare, esemplificata dai fascicoli delle Causes célèbres pubblicati a Parigi tra il 1773 e il 1789, che in quel Paese si verificò subito dopo la riforma del sistema inquisitorio e l’ammissione della pubblicità nelle procedure31. Nel Regno borbonico la discussione sui fatti giudiziari trovò posto in riviste generiche di cultura, scienza ed arte, ma, già dalla prima metà del XIX secolo, anche in pubblicazioni periodiche d’argomento specifico (pur non longeve), come le “Le Ore solitarie”, compilate sotto la direzione di Pasquale Stanislao Mancini nel 1840-45 o “Il Zacchia” di Raffaele Cappa del 1845. Non si trattava, comunque, di pubblicazioni per l’ampio pubblico, ma ancora per il lettore colto.
30 L. LACCHÉ, «Non giudicate». Antropologia della giustizia e figure dell’opinione pubblica tra Otto e Novecento, Satura, Napoli 2009. In Italia l’istituto della giuria popolare nel processo penale fu introdotto nel 1874. L’art. 49 della stessa legge vietò la cronaca giudiziaria sui giornali, perché ritenuta fuorviante per la giuria. Il divieto fu abrogato pochi anni dopo attraverso il riconoscimento che l’influenza della pubblicità era salutare per la giustizia. Tuttavia, anche quando fu in atto, non impedì che l’opinione pubblica restasse all’oscuro di ciò che avveniva nelle aule di tribunale. Col tempo si affermò sempre più chiaramente il cliché della giustizia-spettacolo. 31 S. MAZA, Private lives, public affairs. The Causes Célèbres of Pre-Revolutionary France, University of California Press, Berkeley 1993; A. MAZZACANE, Letteratura, processo e opinione pubblica: le raccolte di cause celebri tra bel mondo, avvocati e rivoluzione, «Rassegna forense», 2003, 4, pp. 756-792; L. LACCHÉ, Una letteratura alla moda. Opinione pubblica, “processi infiniti” e pubblicità in Italia tra Otto e Novecento, in M.N. MILETTI (a cura di), Riti, tecniche, interessi…, cit., pp. 459-513.
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Tornando al caso Buttaro, appare chiaro che i testi messi in circolazione per emendare il giudizio espresso dai periti non avevano lo scopo di generare un interesse medico sulla questione, perché non fu scelta la forma della memoria accademica o della comunicazione su rivista, ma prima di tutto quello d’influire sulla percezione dei fatti del “pubblico intelligente”, dal momento che ebbero circolazione immediata e limitata al contesto locale32. Questi scritti potrebbero essere accostati alla letteratura dei “consulti chirurgici” e delle “memorie sui consulti”, che nacque sempre in Francia alla fine del XVIII secolo, e che dette spazio allo scontro di opinioni intra-professionali sui rilievi riferiti nella consulenza medico-legale33. L’aspetto interessante è che nel caso specifico ci furono quattro commenti alla perizia iniziale: il secondo giudizio dei medici incaricati dell’autopsia; le Brevissime riflessioni sul “voluto annegamento” scritte da Vito Pascasio; le annotazioni anonime contro le opinioni di Pascasio; ed, infine, la lunga difesa di quest’ultimo, che confutava le obiezioni dell’altro commentatore34. In questa catena di deduzioni e contro-deduzioni il tema della certezza della prova dell’annegamento venne trattato con vera acribia. In realtà, due furono le posizioni che si scontrarono: quella del ventisettenne Pascasio, che aveva appena concluso gli studi 32 Pascasio negò di aver cercato di sostenere imputazioni contro qualcuno, perché il suo scopo era stato solo quello di difendere la scienza e non di trovare prove di colpevolezza, e attribuì il clamore suscitato dal suo scritto all’«effetto di opinione radicata nel pubblico», la quale si era infervorata sul caso, alimentando il dubbio anche nel giudice. Il medico nella sua autodifesa metteva in evidenza proprio le dinamiche mediatiche che si erano generate, ma escludeva di averle influenzate. Nella ricostruzione di Pascasio, l’opinione del pubblico è un’entità, che si autoalimenta ed ha una vita propria: non è suggestionabile. Dalla fine del XIX secolo sarà, invece, studiata anche la psicologia del pubblico delle aule dibattimentali (cfr. S. SEGHELE, L’opinione pubblica, in ID., Mentre il secolo muore, Sandron, Palermo 1899). 33 C. RABIER, Defining a profession. Surgery, professional conflicts and legal powers in Paris and London, 1760-1790, in ID. (Ed.), Fields of expertise: A comparative history of expert procedures in Paris and London, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2007, p. 105. 34 V. PASCASIO, Brevissime riflessioni sulle ricerche delle cause della morte di Niccolò Buttaro di Luca. Terza edizione, con Annotazioni d’un Anonimo e Confutazioni dell’Autore, Petruzzelli, Bari 1848.
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nella capitale e padroneggiava le più recenti acquisizioni nel campo, per esempio, della chimica della respirazione o della fisiologia; dall’altra quella di fisici cerusici ancorati ai vecchi sistemi medici e non disposti ad andare oltre le apparenze. Peraltro, i segni patognomonici dell’annegamento erano ancora oggetto di aspre discussioni, perché incostanti e non validi in senso assoluto a definire la natura del decesso. Come scrisse Pascasio: «Niun altra asfissia ha dato causa a tante ricerche quanto quella degli annegati»35. Nella vicenda che si sta descrivendo gli stessi indizi da un medico vennero indicati come segno d’annegamento e dall’altro come prova che non vi era stato annegamento, perché la vittima aveva subito percosse tali da ucciderla prima della caduta in acqua oppure da farla morire subito dopo, in quanto sommersa in stato di morte apparente36. La prima obiezione rivolta a Pascasio fu che egli non avrebbe potuto formulare ipotesi sui segni della morte, senza aver visto il cadavere esposto sul lido il giorno del ritrovamento, in attesa dell’arrivo dei funzionari di polizia e dei sanitari. La peculiarità dell’apporto del medico legale nella procedura inquisitoria consisteva nell’esaminare materialmente il residuo del delitto, cioè il cadavere, e definire il reato. Il giudizio si basava su un’ispezione condotta con gli occhi e con le mani e proprio per questo era incontestabile37. Se Pascasio non aveva potuto leggere direttamente i segni manifesti della morte sul corpo ritrovato, le sue osservazioni non erano degne di fede. Per contro, l’altro ribadì in ogni occasione che «Non fu a me riferito, ma fu da me osservato»38, arrogandosi il diritto di dare anche la sua «testi35
Ivi, p. 17. Sul significato della morte apparente nella medicina del XIX secolo cfr. in particolare P. ARIÈS, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen à nos jours, Seuil, Paris 1975; F.P DE CEGLIA, La morte e la paura. Il dibattito medico sulla morte apparente nel XIX secolo, in ID. (a cura di), Storia della definizione di morte, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 303-328; C. CIANCIO, Il momento della morte come evento giuridico. Definire, tutelare, gestire tra Ottocento e primo Novecento, Bononia University Press, Bologna 2017. 37 M. PORRET, Crime et châtiments. L’oeil du médecin légiste, «Dix-Huitième Siècle», 1998, 30, pp. 37-50. 38 V. PASCASIO, Brevissime riflessioni…, cit., p. 12. 36
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monianza degli occhi». Tuttavia, chiarendo che i segni esteriori erano indizi comuni a varie cause di morte, non si era soffermato a commentare quella parte del rapporto dei periti. Quello che, a suo parere, occorreva riconsiderare era l’interpretazione dei segni interni, gli unici in grado di dare una diagnosi certa della causa del decesso. Facendo una sintesi delle diverse teorie sui segni indicatori della morte per annegamento, Pascasio descriveva le tre strade alternative seguite dai medici: quella di coloro che attribuivano il decesso ad emorragia cerebrale (tra gli altri Mahon, Kite, Frank)39, quella che lo faceva dipendere dall’entrata dell’acqua nelle prime cavità e nello stomaco (sostenuta tra gli altri da Zacchia, Fedele, Tortosa)40 ed, infine, quella che invocava come causa la mancanza di respirazione (sostenuta tra gli altri da Roederer, Haller, Louis, Portal, Tortosa, Orfila)41. Nell’ambito della prima ipotesi il segno caratteristico della morte era l’ingorgo sanguigno nel cervello, nel ventricolo destro e nell’arteria polmonare; nella seconda la presenza di acqua nel ventre e nei polmoni e nella terza la schiuma nella bocca, nelle narici e nelle altre via aeree. Secondo Pascasio, messe da parte le contestazioni, perché tutte le ipotesi convergevano alla fine sul nesso impedimento respiratorio-morte, occorreva appurare la conco39 P.A.O. MAHON, Medecine legale, et police medicale, Mequignon, Paris 1811; C. KITE, An Essay on the Recovery of the Apparently Dead, Dilly, London 1788; J.P. FRANK, Sistema compiuto di polizia medica, I ed. napolitana, Starita, Napoli 18361841. 40 P. ZACCHIA, Quaestiones medico-legales, Romæ, Brugiotti 1621-51; F. FORTUNATO, De relationibus medicorum libri quatuor, in quibus ea omnia, quae in forensibus, ac publicis causis, medici referre solent, plenissime traduntur, Tarnovii, Lipsiae 1674; G. TORTOSA, Istituzioni di medicina forense, Celli e Ronchi, Firenze 1831. 41 J.-G. ROEDERER, Opuscula medica, Bossiegelium, Goettingae 1763; A. HALLER, Disputationes physico-medico-anatomico-chirurgucae selectae, Gessari, Neapoli 175657; A. LOUIS, Lettres sur la Certitude des Signes de la Mort, ou l'on rassure les Citoyens de la crainte d’etre enterres vivans. Avec des Observations & des Experiences sur les Noyds, Lambert, Paris 1752; A. PORTAL, Rapport fait par ordre de l’Académie des Sciences, sur les effets des vapeurs méphitiques dans le corps de l’homme, et principalement sur la vapeur du charbon, avec un précis des moyens les plus efficaces pour rappeler à la vie ceux qui ont été suffoqués, Beaume, Nismes 1776; M.J.B. ORFILA, Traité de médecine légale, Bechet, Paris 1823.
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mitanza di tutti quei segni, per desumere se la vittima fosse entrata viva nell’acqua oppure vi fosse stata gettata già morta. Pascasio nel presentare le sue opinioni si richiamava in particolare alle indicazioni date da Francesco Puccinotti42. Inoltre, citava Devergie per sostenere «Che se ciascun segno preso isolatamente non somministra certezza, la riunione di tutti nello stesso individuo può mettere in grado di dedurre una conchiusione (sic!) positiva»43. Nel caso Buttaro la perizia aveva rivelato caratteri contraddittori proprio su quegli elementi, che per i medici erano essenziali per dare un giudizio di annegamento. Non era stato trovato muco schiumoso nella bocca e nella trachea, ma solo un po’ di questo liquido nel tessuto dei bronchi. Secondo Pascasio, questo rilievo non era indicativo, perché normalmente una pressione o un’incisione di quell’organo faceva fuoriuscire un po’ di secrezione mista a bollicine d’aria. L’ipotesi, invece, che la morte fosse sopraggiunta per annegamento avrebbe potuto essere provata dalla presenza dello stesso liquido, in cui il corpo era immerso, nei polmoni e nelle estreme diramazioni dei bronchi. Antoine Louis era stato il primo a sostenere a metà del XVIII secolo che solo la presenza di acqua nelle vie respiratorie era l’indizio certo dell’avvenuto annegamento, perché un cadavere gettato in acqua non inala alcun liquido44. Quest’idea si era precisata nei primi decenni dell’Ottocento, perché, se era vero che l’acqua penetrava solo nel corpo sommerso da vivo, trovata la schiuma nel cadavere, occorreva stabilirne collocazione e carat-
42 F. PUCCINOTTI, Lezioni di medicina legale, vol. 1, Puzziello, Napoli 1840, pp. 142-152. 43 V. PASCASIO, Brevissime riflessioni…, cit., p. 23. M.-G.-A. DEVERGIE, Médecine légale, théorique et pratique, Dumont, Bruxelles 1837, vol. 1, p. 414. L’opera di Devergie era stata tradotta, commentata ed adattata al codice penale del Regno delle due Sicile da Cesare Miglietta (M.-G.-A. DEVERGIE, Trattato di medicina legale teoretica e pratica, 5 voll., Puzziello, Napoli 1939-41). 44 Cfr. L. DE FRENZA, C. TISCI, Frightening whirlpools. Drowning in France in the XVIII century, in F.P. DE CEGLIA (Ed.), The Corpse of Evidence. Cadavers and Proofs in Early Modern European Forensic Science, Brill, Leiden, in corso di stampa.
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teristiche. Solo quando essa raggiungeva le vie aeree più esterne poteva essere presa per indizio di annegamento45. Era stata trovata anche acqua nello stomaco di Nicola Buttaro, ma limpida e senza residui di digestione. Anche in questo caso, l’autopsia non dava un riscontro utile, per il fatto che, se il giovane fosse annegato, il liquido ingoiato doveva contenere sabbia o tracce di alghe, per poter dimostrare che fosse quello in cui era avvenuta la morte. Infine, c’era il terzo segno. I vasi sanguigni nella testa erano stati trovati turgidi e i tessuti circostanti iniettati di sangue. Questo indizio, che era sintomo di apoplessia, non si accordava con le modificazioni patologiche dell’annegamento, perché se alcune autopsie avevano rivelato nei corpi degli annegati l’ingorgo sanguigno nei vasi cerebrali, non era mai stata osservata, come aveva riferito Goodwin, la rottura ed il travaso di sangue46. L’anonimo annotatore di Pascasio, citando in particolare Donato Pellegrino, insisteva proprio su questo indizio e chiariva che l’apoplessia derivava dal “difetto di respirazione” e, quindi, dal blocco della circolazione47. In realtà, la tradizione medica non aveva considerato sufficientemente indicativo questo segno; soltanto a partire dalla fine del XVIII secolo alcuni autori l’avevano messo in rilievo. Gli italiani, come Puccinotti e Barzellotti, lo definivano comune ad altre patologie e non specifico per la diagnosi di annegamento48. Secondo Pascasio, i tessuti cerebrali iniettati di sangue non erano indizio di annegamento, ma del fatto che il giovane fosse stato percosso mortalmente e fosse stato gettato in acqua in uno stato di semi coscienza, trovando lì la morte. 45
V. PASCASIO, Brevissime riflessioni…, cit., p. 26. E. GOODWYN, La connexion de la vie avec la respiration, ou Recherches expérimentales sur les effets que produisent sur les animaux vivans la submersion, la strangulation et les diverses espèces de gaz nuisibles, Méquignon, Paris 1798, pp. 55-56. 47 C.E. SÉDILLOT, Manuale completo di medicina legale, considerata in relazione colla vigente legislazione. Traduzione dal francese con note di Donato Pellegrino, Castellacci, Firenze 1840, pp. 428-429. 48 G. BARZELLOTTI, Questioni di medicina legale secondo lo spirito delle leggi civile e penali, Borroni e Scotti, Milano 1838, vol. 1, pp. 503-504. 46
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I due medici erano in disaccordo soprattutto sull’interpretazione della dinamica della respirazione cellulare. L’annotatore negava assolutamente che il sangue venoso, privo di ossigeno e ricco di anidride carbonica, potesse arrivare al cervello e dare “impressione deleteria”. «Affé di Dio, che nuova dottrina fisiologica è questa», inveiva Pascasio49. L’anidride carbonica, secondo l’altro, si formava solo nei polmoni per la combinazione dell’ossigeno inspirato con il carbonio del sangue e veniva immediatamente espulsa. Quest’opinione era stata illustrata anche dal fisiologo bolognese Michele Medici50. Il carbonio costituiva naturalmente una componente del sangue; di conseguenza, il sangue venoso “carbonizzato”, cioè quello che non aveva potuto liberarsi dal carbonio nei polmoni, arrivava al cervello senza danneggiarlo. In realtà, fino a quando ai polmoni fu attribuita solo una funzione meccanica, la descrizione fisiopatologica dell’annegamento non fece passi avanti, poiché si spiegò il decesso come effetto della compressione esercitata sui polmoni dall’acqua ingerita, la quale pressione portava al blocco circolatorio e alla rottura dei vasi del cervello. Pascasio, invece, forte delle opinioni di Burdach, erudiva il suo avversario sul fatto che il sangue avesse bisogno di arricchirsi di ossigeno nei polmoni, quindi, portato in circolo attraverso le arterie, arrivava ai tessuti e garantiva l’attuazione delle funzioni fisiologiche51. In conclusione, scriveva: «Se per poco vi versaste a leggere tutte le toriche sull’asfissia, ritrovereste che i più recenti con Orfila e Devergie si accordano nel riconoscere la morte nella mancanza di ossigenazione, e che il cervello, come l’elemento nervoso per eccellenza, ne risente i danni più gravi». Bichat aveva spiegato che il sangue circolava attraverso i polmoni anche quando non c’era aria; non potendosi ossigenare, percorreva le arterie fino ai 49
V. PASCASIO, Brevissime riflessioni…, cit., p. 36. M. MEDICI, Manuale di fisiologia, 2 voll., Tip. delle Scienze, Bologna 1833. 51 K.F. BURDACH, Trattato di fisiologia considerata quale scienza d’osservazione, voltata dal tedesco in francese da A. G. L. Jourdan; prima trad. italiana per cura di M.G. Levi, tomo 6, Antonelli, Venezia 1844, pp. 813-820. 50
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tessuti senza rigenerarli52. Pascasio aveva maturato una comprensione molto chiara di tutto il processo. Tuttavia, per l’annotatore l’analisi effettuata nelle Brevissime riflessioni era «arbitraria, oppressiva, ingiusta, ed essenzialmente nulla»53. Alle divergenze scientifiche si erano aggiunte motivazioni di livore personale. L’esito del processo Ricevuta la documentazione sul caso Buttaro, il procuratore della Gran corte criminale di Terra di Bari aprì il dibattimento. Riconsiderati tutti i fatti, prima di passare alla requisitoria del pubblico ministero, i magistrati decisero di vagliare più attentamente le circostanze del decesso. Sentirono il testimone, che aveva aiutato Nicola a salire sulla lancia per raggiungere il pielego e che aveva sentito urla e rumori provenire dalla barca. Il giovane, che non era neanche di Mola e si era trovato coinvolto per caso, non fornì alcun elemento aggiuntivo. Quindi i magistrati chiesero a due nuovi periti di riesaminare il rapporto medico. Questi ultimi, con grande diplomazia, riferirono che le ferite alla testa descritte nell’autopsia avrebbero potuto essere di una certa gravità, tanto da attentare alla vita di Nicola, se questa ipotesi non dovesse essere scartata, perché gli autori della perizia avevano riscontrato indizi sufficienti ad un giudizio di morte per annegamento54. Il 12 maggio 1848 venne formulata la decisione della Corte. Essa non ritenne di essere in grado di valutare la “prova generica”, cioè se il giovane fosse morto per violenza subita o per disgrazia. Al giudizio dei medici incaricati dell’esame autoptico si contrapponeva la memoria di Pascasio, che apparentemente non aveva interesse nel caso, ma si era dato pena 52
M.F.X. BICHAT, Recherches physiologiques sur la vie et sur la mort, Brosson, Paris 1805, pp. 190-221. 53 V. PASCASIO, Brevissime riflessioni…, cit., p. 65. 54 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 2, ff. 70-71.
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di stampare la sua opinione e di esibirla al giudice. E qui la domanda era d’obbligo: «Come mai giungeva nelle sue mani quel pezzo generico, che rimaner dovea nel segreto della istruzione?»55: domanda lasciata senza risposta. I magistrati furono messi davvero in difficoltà: Or da una parte si ha un ingenere legalmente eseguito, e da nuovi sviluppamenti rifermato. Si ha dall’altra un avviso puramente accademico, vacillante nella sua fede, e proveniente da malsicura sorgente. I primi periti debitamente chiamati, avvalorarono con giuramento le loro assertive, le quali poi trovavasi il loro appoggio anche nel giudizio di altri Professori da questa Gran corte sentiti. L’altro non chiamato e niente affatto interessato nella causa non può che destar dubbi e prevenzione contro di lui56.
Poteva un medico intervenire solo in forza della sua scienza, interferendo con la procedura giudiziaria? A parte questo dubbio, la Corte non sembrava neanche convinta della “prova specifica”: un semplice dissapore tra padre e figlio, come ce n’erano in tutte le famiglie, non poteva giustificare la premeditazione e la crudeltà dell’atto imputato ad un genitore con la complicità dei familiari. Quindi, in chiusura, il presidente della Corte scarcerò gli imputati ed ordinò che si procedesse ad una nuova fase d’indagine. Generalmente, la magistratura aveva interesse ad arrivare al dibattimento con il copione già fissato. Il processo, quindi, era scontato, ma non per questo inutile. Il sistema penale preunitario, istituendo la fase pubblica ed orale, basata sul contraddittorio, aveva stabilito quella riforma esemplare della giustizia, per mezzo della quale qualsiasi prova, anche la più evidente, doveva essere “accettata” in tribunale, cioè essere giudicata non solo conforme alla legge, ma anche convincente57. 55
Ivi, f. 72. Ibidem. 57 A.C. AMATO MANGIAMELI, Dal pre-giudizio al giudizio. Note in margine al sistema della prova, in P. MARCHETTI (a cura di), Inchiesta penale e pre-giudizio…, cit., pp. 55-72. 56
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Il giudice istruttore del distretto Michelangelo Mastrocinque con il supporto del cancelliere Vito Infante fu incaricato della nuova indagine sul caso Buttaro58. Attraverso un ribaltamento incredibile di tutto il castello indiziario gli inquirenti fecero apparire incerte le testimonianze contrarie agli imputati, mentre quelle a favore furono avvalorate59. Nella prima istruttoria il giudice De Cristofaro era stato guidato dai sospetti formulati da Innocenza Caputo, compagna della vittima, che aveva interesse a far emergere l’avversione del padre per l’unione dei due giovani ed aveva trovato i testimoni che accreditavano questa tesi; in quest’ultima Mastrocinque si limitò a seguire la strada indicata da Luca Buttaro, che fornì la propria versione dei fatti e con essa la struttura dell’indagine da effettuare, i nomi dei testimoni da sentire e le ragioni, che inficiavano il precedente “ingenere”60. Negli interrogatori emerse che i giudici De Cristofaro e Tomasuolo avevano usato modi intimidatori per spingere alcuni testi a sottoscrivere dichiarazioni, che erano pregiudizievoli, come quelle rese dalle sorelle Cristino, donne del popolo dalla dubbia moralità, che dicevano di aver assistito all’agguato la notte prima del ritrovamento del cadavere, di aver riconosciuto gli aggressori e di poter assicurare che le percosse assestate al giovane fossero state gravi. È difficile stabilire l’attendibilità delle dichiarazioni di Luca Buttaro e dei nuovi testimoni; tuttavia, questa ricostruzione dei fatti svelava una generale situazione di degrado dell’amministrazione della giustizia locale, in cui i giudici erano pedine manovrabili, i testimoni si potevano comprare ed era abituale il reato di subornazione61. 58 Questa situazione era contemplata nel codice napoletano (Codice per lo Regno delle Due Sicilie, Parte quarta…, cit., pp. 39-40). 59 L’inquisitoria prevedeva l’interrogatorio del testimone in segreto. Era facile per il giudice, se lo voleva, cambiare la forma della deposizione ricevuta. Spesso, inoltre, il teste era analfabeta e firmava sulla parola ciò che il giudice aveva trascritto. A questo si aggiungeva la minaccia dell’arresto nel caso di testimonianza apparentemente vacillante o lacunosa. Le armi di convinzione in mano ai giudici erano davvero numerose. 60 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 2, ff. 84-86. 61 G. GRECO, Istituzione e procedure delle Gran corti criminali, in A. MASSAFRA (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Dedalo, Bari 1988,
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Luca Buttaro e gli altri accusati uscivano alquanto riabilitati dalla terza fase inquisitoria. Per giunta, l’“esperimento” fatto in carcere, tenendoli sotto osservazione ed esasperandoli con la privazione di pane ed acqua, aveva dimostrato la loro buona fede. In realtà, la novità più eclatante in questa fase fu l’estrusione dalla valutazione dei fatti delle conclusioni contenute nella relazione di Pascasio, perché diversi testimoni, tutti appartenenti al ceto dei possidenti di Mola, dichiararono che tra l’imputato Luca Buttaro ed il medico Pascasio non correva buon sangue, sebbene l’inimicizia non fosse pubblica e si ignorasse la ragione per cui quello avesse scritto la sua memoria62. Alcuni riferirono che il disaccordo era nato in seguito alla raccolta avviata dal medico di quote private per pagare i tecnici napoletani, che dovevano occuparsi della sistemazione del porto, la quale si era conclusa con una perdita ed il ricorso in giudizio63. Comunque, dalle deposizioni non si evinceva alcuna malafede di Pascasio, ma solo il carattere irascibile dell’imputato. Quest’ultimo aveva anche insinuato davanti al giudice che il medico era in combutta con la compagna della vittima e che aveva costretto dei testimoni a deporre a favore della tesi della responsabilità del padre. Non solo bugiardo, ma anche disonesto! Con questi nuovi riscontri, il 5 agosto 1848 gli atti furono acquisiti dalla Gran corte criminale. Confermando l’esito delpp. 533-548. Le Gran corti criminali furono stabilite con criterio regionale, seguendo il modello dell’organizzazione della giustizia francese. I crimini, pertanto, potevano essere giudicati nel contesto medesimo, in cui si erano verificati, permettendo ai magistrati di avere piena cognizione dei fatti. L’altro aspetto peculiare di questo sistema era il fatto che non ci fossero barriere nette tra l’operato dei giudici e la quotidianità della vita civile. Diffusa era la delazione, spesso anonima, e la denuncia, motivata anche da motivi di rivalsa personale. Queste informazioni erano tenute in grande considerazione dai giudici, almeno fino a quando non si fosse appurato la loro falsità. Il collaborazionismo con la giustizia era prassi comune. 62 ASBAST, Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 2, ff. 99-106. Nel momento in cui fu condotta questa nuova indagine, Pascasio pubblicò la sua terza edizione delle Brevissime riflessioni, che avvalorava con altri argomenti scientifici la certezza del sua valutazione contro l’annegamento. Il giudice, però, non ne tenne conto. 63 Ivi, f. 101. Cfr. S. MANDARINI, Sullo stato morale economico di Terra di Bari, «Giornale dell’Intendenza di Terra di Bari», 1856, 5, p. 37.
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l’istruttoria, il presidente scagionò gli imputati da ogni accusa. Egli riconobbe che Pascasio aveva agito per risentimento personale e sconfessò i rilievi che questi aveva mosso al giudizio dei periti: Rimane quindi la prova generica ne’ modi di Legge assodata, chiara, convincente, dettagliata: la prova generica rilevata sul cadavere dell’estinto, sostenuta dappoi con evidenti ragionamenti ed in ultimo approvata dal giudizio di novelli periti d’ordine della Gran corte sentiti64.
La conclusione era che «Nicola Buttari fosse morto annegato e per sommersione a corpo vivo». Tutti i sospetti caddero: Questo sentimento trova appoggio nella lievezza del motivo che facea rimaner disgustato Luca Buttari col figlio: nel contegno tenuto dal primo alla infausta notizia del rinvenimento del cadavere: nella maniera contraddittoria ed inverosimile come vuolsi che l’omicidio sia avvenuto; e nel non esservi rinvenuto sul cadavere dell’estinto lesioni di tanta importanza da far conchiudere che da mano nemica fosse stato messo a morte65.
Mancando il corpus delicti, cadeva ogni imputazione. Il giudice il 21 agosto 1848 ordinò la messa in libertà degli accusati. Conclusione L’ultima parola su tutta la faccenda spettò a Vito Pascasio. Pochi mesi dopo la sentenza pubblicò una seconda memoria, in cui non fece cenno al caso né citò fatti o persone coinvolti. Eppure, era evidente che la sua indignazione per la persecuzione subita come collaboratore di giustizia si era trasformata in una sottile contestazione dei limiti dell’esercizio della medicina legale nel
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Ibidem.
Gran Corte criminale di Terra di Bari, b. 135, f. 485, vv. 3, vol. 2, f.
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sistema giudiziario vigente66. L’opera è interessante, perché concepita non come un manuale d’istruzione per i medici legali, ma come un’analisi realistica della prassi giudiziaria dell’epoca e della funzione in essa esercitata dalla valutazione dell’esperto dell’arte medica. Dopo aver enumerato le materie su cui il perito era chiamato ad esprimersi, Pascasio passava ad indicare le motivazioni contingenti ed inaccettabili, che ne limitavano il contributo alla giustizia. Innanzitutto, l’esperto aveva l’obbligo di redigere il rapporto alla presenza del giudice, il quale poteva anche imporre modifiche al testo. Il codice prescriveva, inoltre, che il cadavere, dopo l’autopsia, fosse seppellito, impedendo di fatto di eseguire un ulteriore esame alla luce di riscontri emersi successivamente. Non sempre era usata la massima accuratezza nell’osservazione cadaverica. Poteva accadere, ad esempio, che i periti si lasciassero condizionare da un sospetto sulla causa della morte e limitassero l’osservazione solo ai segni compatibili con quel pregiudizio. La Corte aveva facoltà di dichiarare non esaustivo il referto autoptico, dopo aver sentito tutti i testimoni e raccolto i “reperti”. In questo caso, come era avvenuto nel processo Buttaro, i magistrati, su richiesta dei difensori, citavano come testimoni i periti o ne nominavano altri per un contraddittorio. Tuttavia, l’esame materiale non poteva essere replicato, perché il cadavere non era disponibile, ed il secondo giudizio, basato sugli elementi riportati nel precedente rapporto, confermava il parere già formulato. Tutta la procedura giudiziaria si metteva in atto solo in presenza di feriti gravi o cadaveri. Altrimenti, per contenere le spese, si limitava ad accertare l’apparenza immediata dei fatti. L’imposizione di ridurre i costi della giustizia si ripercuoteva anche a danno dei periti, che ricevevano compensi così bassi, da scartare la possibilità d’investire tempo e denaro per acquisire una professionalità all’altezza del
66 V. PASCASIO, Sul bisogno d’un miglioramento nell’esercizio della medicina legale presso il nostro Foro, Cannone, Bari 1849.
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compito e gli strumenti necessari, ad esempio, alle indagini chimiche o ad altri rilievi più sofisticati. Oltre a dimergolarsi nelle insidie di una legislazione carente, i periti dovevano fare i conti con le azioni di depistaggio messe in atto dai colpevoli o da quanti avevano interesse a nascondere la verità67. Se il corpo della vittima era stato manipolato prima di essere requisito dalle autorità giudiziarie, il perito non riusciva a distinguere gli indizi veritieri della morte da quelli artefatti. Se, poi, affrontava queste situazioni con conoscenze mediche insufficienti, la sua perizia correva il rischio di essere confusa ed incoerente. Pascasio arrivava, dunque, al nocciolo della questione: «Ora come non temere delle conseguenze tratte da processi superficiali e leggieri che si adoperano presso di noi?»68. L’eco del processo Buttaro diventava più esplicito: L’abbiezione in cui si cerca di menare quest’arte salutare fa sì che spesso spesso i buoni si rifiutano e rimangono il campo a quegl’intrighini, che altro non hanno di perito fuorché il nome, i quali, speculando ben miseramente su queste meschinissime prebende, ne formano un oggetto d’industria e di privativa69.
Da impostori trattava i suoi colleghi, che accettavano l’arduo compito di valutare la causa di morte o l’entità del danno fisico riportato dalle vittime, senza avere una cultura medica adeguata. Essi assumevano l’incarico affidato dai giudici solo per mettersi in tasca un guadagno, non pensando alle conseguenze del giudizio formulato. I professori coscienziosi restavano al di fuori di questo gioco meschino. 67 A proposito delle simulazioni dell’annegamento, Pascasio scriveva: «Le iniezioni di acque marine, melmose, torbide, in una parola simile alle acque, nelle quali, o dappresso fu rinvenuto il cadavere, la facilità di riempire momentaneamente la bocca e le narici di spuma saponosa, le ferite che possono sullo stesso arbitrariamente prodursi, menano in tali dubbiezze i medici legali: da peritarsi giustamente sul giudizio che essi dovranno dare, perché possono senza volerlo aggravare nel tempo stesso le condizione degl’innocenti, o facilitare la salvezza de’ malfattori» (V. PASCASIO, Sul bisogno d’un miglioramento…, cit., p. 26). 68 Ivi, p. 23. 69 Ivi, p. 32.
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L’opinione di Pascasio sul sistema giudiziario vigente era fermamente negativa. La medicina legale era affidata a praticoni venali, pronti a compiacere il giudice e disinteressati della responsabilità morale derivante dal far condannare un innocente o assolvere un criminale. Senza coscienza del proprio decoro, i medici legali si riducevano a «instrumenti al completamento degli atti»70. Le basi della scienza fisiopatologica erano tradite nella pratica medico-legale. Le discrasie su cui Pascasio puntava l’indice erano a lui ben chiare: da un lato la semeiotica medica offriva criteri oggettivi per la valutazione, dall’altra le interpretazioni dei periti si rivelavano soggettive, lacunose e interessate; da una parte il codice penale prescriveva regole precise, dall’altra la prassi giudiziaria scadeva nell’arbitrio. Il difetto, in cui più spesso incorreva l’azione penale, era quello che Pascasio chiamava “mitismo”, cioè accondiscendenza verso il reo o, più esattamente, rinuncia a giudicare in maniera equa. Anche dopo le indagini più meticolose, le Gran corti criminali propendevano per il non luogo a procedere oppure si disponevano ad assegnare una riduzione delle pene, contrastando con il bilancio del crimine fatto dal giudice di circondario o dal pubblico ministero. Questa prassi era comune persino nei casi gravi ed, in genere, quando era portato in giudizio un criminale, che non rappresentava un pericolo per l’ordine pubblico. Inoltre, la tolleranza era evidente nei reati di leso onore o attacco alla proprietà privata, poiché si voleva evitare di destabilizzare il sistema dei valori tradizionali71. Il compito dei periti in queste circostanze sembrava quello di seguire l’indirizzo della Corte. Purtroppo, l’onestà del medico veniva compromessa, così come si perdeva l’obiettività delle prove scientifiche invocate. Che cosa ne era degli indizi materiali, sulla cui oggettività si basava il giudizio del perito? Come ha scritto Foucault, la scientificità del discorso del perito va messa in relazione con il con70 71
Ivi, p. 33. Cfr. G. GRECO, Istituzione e procedure…, cit., p. 541.
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testo e con la funzione che assume quel discorso. In ogni caso, esso non segue regole conformi al ragionamento scientifico72. Dal punto di vista argomentativo il rapporto peritale costituisce una relazione semplificata di un’osservazione medica, peraltro espressa in formule standardizzate. Esso è ad un livello epistemologico diverso dal sapere medico, dal quale naturalmente scaturisce. Al rapporto dei periti Pascasio aveva risposto con una puntigliosa analisi delle basi teoriche, che dovevano giustificare le deduzioni dei colleghi, che era impostata come opera scientifica. La memoria, tuttavia, veniva sottoposta ai magistrati per mettere in dubbio un documento di altra natura e legittimo sul piano legale. I due testi non erano comparabili, perché appartenevano a due ordini di discorso diversi. Il giudizio sui contenuti scientifici espressi nel confronto tra le diverse opinioni sulla morte per annegamento, deve tener conto di questo. Le argomentazioni utilizzate per sostenere le reciproche tesi dipendevano prevalentemente dalla funzione degli scritti e, quindi, non erano sovrapponibili. Anche i giudici di fronte alla novità espressero un forte imbarazzo. Attraverso il caso analizzato si è cercato di far emergere il coacervo di condizionamenti che gravavano sull’espressione del perito nel contesto in cui agiva, dando spazio alle discussioni scientifiche sui criteri dell’accertamento medico-legale, ma facendo anche emergere le tensioni intrinseche alla testimonianza del medico esperto nelle aule dei tribunali napoletani alla metà del XIX secolo. Al di là delle relazioni professionali e delle prassi c’erano, poi, i drammi personali. Il mistero morte di Nicola finì col dissolversi nelle acque chete della sentenza della Gran corte, che alla fine chiuse il caso, nel pieno rispetto delle leggi, con un’assoluzione generale, lasciando che svanissero facilmente molti dei sospetti paventati dai giudici inquirenti. L’acqua aveva riconsegnato il cadavere di Nicola, ma aveva per sempre celato le ragioni della sua morte. 72 M. FOUCAULT, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2002, p. 21.
Gli Autori
Benedetta Campanile, dottore di ricerca in Storia della scienza, è responsabile del Laboratorio di Epistemologia Informatica e del Laboratorio Multimediale di museologia scientifica del Seminario di Storia della Scienza. È autrice di saggi di Storia dell’informatica, della fisica, della sanità e delle istituzioni scientifiche del XX secolo. Per Aracne ha pubblicato il volume Vannevar Bush: da ingegnere a tecnologo. La nascita della Società dell’Informazione (2016). Francesco Paolo de Ceglia insegna Storia della Scienza presso l’Università degli studi di Bari. È direttore del Centro interuniversitario di ricerca Seminario di Storia della Scienza. Studioso del pensiero scientifico in età moderna e dell’immaginario scientifico in età contemporanea, è autore, tra le altre cose di, Il segreto di san Gennaro. Storia naturale di un miracolo napoletano, Einaudi, Torino 2016. Rossella De Ceglie insegna Storia della scienza presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro. Studiosa di storia delle scienze della vita e delle teorie evoluzionistiche, ha indirizzato in particolare la sua attività di ricerca sugli sviluppi delle ricerche naturalistiche nel secolo XIX in Italia, con riferimento agli scienziati del Regno di Napoli. Lucia De Frenza è dottore di ricerca in Storia della scienza e lavora presso il Seminario di Storia della Scienza dell’Università di Bari Aldo Moro. Si occupa di storia delle teorie elettriche nel XVII e XIX secolo, di storia delle istituzioni e della 165
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Gli Autori
comunicazione scientifica nel XX secolo. È autrice di alcune monografie e di una serie di saggi su riviste e volumi collettanei. Ha pubblicato con l’editore Aracne La gloria di una ferita. L’assistenza ai soldati durante la Grande Guerra a Bari (2017). Liborio Dibattista insegna Storia e Filosofia della scienza all’università di Bari Aldo Moro. I principali interessi scientifici vertono sulla Storia della neurologia e sulla Epistemologia della medicina. Autore di numerosi saggi, articoli e monografie, ha recentemente pubblicato La Storia della Sclerosi Laterale Amiotrofica. Forme nel tempo della malattia di Charcot (FrancoAngeli 2016). Carla Petrocelli, studiosa di Linguistica computazionale e di Storia dell’informatica, la sua attività di ricerca si è concentrata in particolare sull’analisi di opere scientifiche del ’600, investigate con tecnologie computazionali, e sull’evoluzione dei sistemi di calcolo automatici e dei linguaggi di programmazione ad essi applicati.
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Finito di stampare nel mese di aprile del dalla tipografia «System Graphic S.r.l.» Roma – via di Torre Sant’Anastasia, per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)
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PRM 8
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diretta da Pasquale Guaragnella
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n ricercatore può agire alla maniera di Sherlock Holmes e risalire da particolari normalmente ritenuti inessenziali a importanti conoscenze scientifiche? Indizi, prove ed evidenze sono da sempre stati al centro della riflessione storico–scientifica ed epistemologica, le quali si sono tuttavia tradizionalmente concentrate su discipline dal forte statuto sperimental–dimostrativo, come la fisica. Il volume raccoglie i saggi di un gruppo di lavoro interno al centro interuniversitario di ricerca Seminario di Storia della Scienza che, in maniera interdisciplinare, ha scandagliato le scienze della vita, della terra e dell’informazione alla ricerca di storie che mostrassero il fortunato comportamento di ricercatori del passato che, come dice il poeta, hanno seguito le proprie intuizioni “senza una ragione, come un ragazzo segue un aquilone”.
Contributi di Benedetta Campanile, Rossella De Ceglie, Lucia De Frenza, Liborio Dibattista, Carla Petrocelli.
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rancesco Paolo de Ceglia insegna Storia della scienza presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, dove dirige il centro interuniversitario di ricerca Seminario di Storia della Scienza. Studioso e divulgatore del pensiero scientifico moderno, in particolare nei suoi rapporti con l’estetica e la teologia, è stato finalista del Premio Viareggio con II segreto di san Gennaro. Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, Torino 2016).
Prove, indizi ed evidenze a cura di F.P. de Ceglia
Prove, indizi ed evidenze
“Seminario di Storia della Scienza” – Centro di ricerca dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, dell’Università del Salento, dell’Università del Molise, dell’Università della Basilicata, del Politecnico di Bari e dell’Università di Foggia.
ISBN 978-88-255-1276-2
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Francesco Paolo de Ceglia